Eppure ci fu un tempo in cui tutti ci sentimmo orgogliosamente ungheresi…

John Kennedy a Berlino nel 1963

  Avevo 18 anni nel 1956, quando gli ungheresi si rivoltarono all’Unione Sovietica, nella cui sfera erano caduti con gli accordi Yalta. E persero la loro partita sotto gli occhi di un Occidente rassegnato. Mi sentii con tanti miei coetanei un ungherese, ben prima che un mitico presidente americano come Jhon Fitzgerald Kennedy ci facesse sentire orgogliosamente tutti berlinesi parlando davanti al muro che ancora divideva quella città e, più in generale, il mondo tra Ovest ed Est. Era il 26 giugno 1963. Dopo sei mesi egli sarebbe stato ucciso a Dallas, nel suo Paese

Budapest nel 1956

A 18 anni mi dividevo fra la lettura del Corriere della Sera e del settimanale longanesiano Il Borghese, che avevano praticamente in comune l’inviato in Ungheria Indro Montanelli. E non esitai a riconoscermi più in Longanesi che in Montanelli quando fra i due scoppiò una furiosa polemica sulla classificazione degli insorti a Budapest: se comunisti autentici e buoni contro quelli cattivi, come sosteneva Montanelli, o per niente comunisti  contro il comunismo, come sosteneva Longanesi.

L’ospedale pedriatico di Kiev abbattuto dai russi

Chi l’avrebbe detto che nell’estate di 68 anni dopo avrei dovuto leggere le cronache politiche di una Ungheria che, a comunismo finito, crollato col muro di Berlino nel 1989, condotta da Viktor  Urban, presidente di turno dell’Unione Europea, è nelle disgrazie dell’Occidente e nelle grazie di Mosca. Dove comanda dal Cremlino non Giuseppe Stalin, morto nel 1953, non Leonid Breznev, morto nel 1982 quando era già una mummia travestita da vivo, ma Vladymir Putin. Che, già comunista pure lui, cresciuto nei servizi segreti dell’Urss, è forse peggiore degli altri due per ottusità e caparbietà nella volontà di imporre non più un’ideologia, o soprattutto quella, ma solo la forza militare del suo paese, anzi del suo regime. Rosso di sangue e di vergogna dopo due anni e mezzo di guerra all’Ucraina bombardando anche un ospedale pediatrico. Che cosa -al di là dei suoi edifici non rasi al suolo o danneggiati dai sovietici nell’occupazione territoriale più stringente seguita alla rivolta- dell’Ungheria di quel lontano, lontanissimo 1956 è difficile dire. Rimangono solo i mei ricordi giovanili. E il desolante incedere nei vertici e incontri internazionali di un presidente ungherese che nel 1956 non era neppure ancora nato. Nacque sei anni dopo, nell’Ungheria ormai ben normalizzata nella logica di Mosca, ieri come a tratti sembra ancora oggi, a dispetto della Nato che, a 75 anni appena compiuti, annovera dal 1997 quel paese fra gli aderenti. Se tutto questo vi sembra normale…

Ripreso da http://www.startmag.it il 14 luglio

Macron non vede vincitori nelle urne e si mette alla finestra dell’Eliseo

         Gli ancora orgogliosamente comunisti italiani del manifesto hanno dato dello “sfrontato” , a doppio senso, al presidente Emmanuel Macron. Che dopo qualche giorno di riflessione si è convinto che “nessuno” abbia vinto le elezioni anticipate da lui stesso volute, dopo la sconfitta nelle europee di giugno, per contenere l’avanzata della destra lepenista e determinare un chiarimento politico.

Marine Le Pen

La vittoria della destra è mancata, pur avendo essa raccolto 10 milioni di voti, cioè più di tutti gli altri, ma classificandosi al terzo posto nella distribuzione dei seggi parlamentari a causa del particolare sistema elettorale francese. Tutto legittimo, per carità, ma da un paradossale aspetto, almeno per quanti in Italia, da sinistra ma anche dal centro, accusano la Meloni di avere conquistato un anno e mezzo fa Palazzo Chigi prendendo con la sua alleanza di centrodestra meno voti di tutti gli altri, e con un’affluenza alle urne in calo.  Che invece in Francia è aumentata.

Jean-Luc Melenchon

  La vittoria della destra, dicevo, è mancata oltralpe, ma è mancata secondo Macron anche la vittoria del fronte popolare, che invece l’ha gridata ai quattro venti nelle piazze, e tanto meno quella del suo schieramento nominalmente liberale. Non ha vinto quindi nessuno, ripeto, nel ragionamento del presidente francese, che si è perciò messo alla finestra per vedere che cosa succederà nella nuova Assemblea Nazionale e dintorni e chi nominare a tempo debito capo del governo per mandarlo nella fossa  parlamentare dei leoni.  

Questo, e non altro, o di più, ha ottenuto il presidente francese con la geniale decisione, attribuitagli dai sostenitori, tifosi e simili di Francia e fuori, di giocare la carta delle elezioni anticipate. Che forse, più ancora di chiarire le cose, doveva solo proteggere in qualche modo i tre anni residui del secondo e ultimo mandato presidenziale di Macron, deciso a rimanere all’Eliseo sino all’ultimo giorno e ultima ora del calendario o dell’orologio costituzionale.

         Si vedrà se la pessimistica valutazione dei risultati elettorali, con la vittoria mancata a tutti, consentirà a Macron di muoversi meglio dietro le quinte per dividere i fronti diversi dal suo e mettere su un governo che lo esoneri fra non meno di un anno da un altro ricorso ad elezioni anticipate.

Aldo Moro

         Dalle nostre parti, in Italia, Aldo Moro -che non era il presidente della Repubblica ma, forse ancora di più, il regolo della Democrazia Cristiana- si attestò su una posizione ottimistica per uscire nel 1976 da un risultato elettorale favorevole alla Dc, con 14 milioni di voti pari al 38,71, contro i 12 milioni di voti del Pci pari al 34.3, ma paralizzante perché né l’uno né l’altro dei due “vincitori” -secondo la definizione dello stesso Moro- disponevano sulla carta di alleati disposti a farli governare uno senza o contro l’altro.

         Proprio quella ottimistica valutazione dei “due vincitori” consentì a Moro di strappare ai comunisti l’appoggio esterno ad un governo di soli democristiani. Ma era Moro, ripeto. Macron è solo Macron.

Ripreso da http://www.startmag.it

La Nato in 75 anni ha visto un’Italia di tutti i colori politici

Dal Dubbio

  Possiamo ben dire che alla Nato hanno visto e sperimentato l’Italia in tutti i colori politici possibili, anche quelli che potevano essere all’origine improbabili. Vi aderimmo con un governo a guida democristiana, il quinto di Alcide Gasperi, dopo uno scontro durissimo in Parlamento con una sinistra ancora da fronte popolare battuto nelle elezioni del 1948.

         Alle nozze d’argento dell’Alleanza Atlantica, nel 1974, l’Italia era già politicamente diversa. I governi erano ancora a guida democristiana, con Mariano Rumor a Palazzo Chigi, ma vi facevano parte anche i socialisti, che pure avevano spalleggiato i comunisti nella opposizione alla nostra adesione.

         Le nozze d’oro furono festeggiate dall’Italia con un governo presieduto per la prima volta nella storia della Repubblica da un post-comunista: Massimo D’Alema. Che è stato sinora anche l’unico perché Pier Luigi Bersani vi provò soltanto nel 2013, costretto a rinunciarvi dal suo ex compagno di partito e presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che, in particolare, gli impedì la formazione perseguita dall’allora segretario del Pd di un governo “di minoranza e di combattimento” appeso agli umori eventualmente astensionistici dei grillini. Napolitano declassò con una nota ufficiale del Quirinale a “pre-incarico” quello che tutti i giornali avevano definito incarico. E glielo tolse senza bisogno che l’interessato vi rinunciasse.

Giorgia Meloni

       Alle nozze di platino della Nato, nel 75.mo anniversario della fondazione, l’Italia ha partecipato col primo governo guidato non solo da una donna, ma da una donna di destra orgogliosamente dichiarata. La Meloni d’altronde già prima di salire a Palazzo Chigi, quando si opponeva al governo di Mario Draghi ne aveva condiviso il forte atlantismo praticato nel sostegno politico e militare all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin.

         L’edizione platinata, diciamo così, del vertice non solo celebrativo dell’Alleanza Atlantica ha ripagato forse la premier italiana degli inconvenienti politici che ha dovuto subire in Europa per i movimenti alla sua destra cavalcati con la solita disinvoltura dall’alleato Matteo Salvini. Che da una parte giura sulla durata del governo, di cui è vice presidente del Consiglio, sino alla fine ordinaria della legislatura, nel 2027, ma dall’altra contribuisce ogni volta che può e vuole ad assecondare la rappresentazione un po’ pasticciata che ne fanno le opposizioni di sinistra e di centro: a volte separatamente e a volte persino insieme, mettendosi in posa davanti a qualche fotografo.

         La politica estera è un po’ diventata, nonostante le salvinate dei giorni pari o dispari, o di tutti i giorni, il punto forte della Meloni: come accadeva alla Dc di De Gasperi e dei suoi successori. Cosa che contribuisce a coltivare nella politologia italiana la pianta, non so fino a che punto gradita alla premier, della democristianizzazione della destra. Una pianta scomoda alla parte del Pd d’origine scudocrociata.

Pubblicato sul Dubbio

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