La Meloni alle nozze di platino della Nato, come D’Alema alle nozze d’oro

Massimo D’Alema

Alle nozze d’oro della Nato, a 50 anni cioè dal matrimonio militare e politico degli alleati occidentali, l’Italia fu rappresentata da Massimo D’Alema: il primo e sinora unico post-comunista salito alla guida del governo. Nessuno oltr’Atlantico si sentì a disagio perché prima ancora di D’Alema, e della sua partecipazione all’intervento della Nato nei Balcani, il compianto e storico segretario del Pci Enriico Berlinguer aveva scoperto e indicato nella Nato uno “scudo” utile alla protezione anche dei comunisti italiani da quelli sovietici, che li volevano subordinati.

         Il già allora presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, grazie al cui appoggio parlamentare era nato il primo governo di un post-comunista in Italia, non ebbe difficoltà a convincere gli amici d’oltre Atlantico a fidarsi di D’Alema. Che, dal canto suo, non si sentì per niente a disagio, preceduto d’altronde negli anni ancora della guerra fredda da un Giorgio Napolitano conferenziere negli Stati Uniti.

Biden e Meloni d’archivio

         Alle nozze di platino della Nato, 25 anni dopo quelle d’oro, l’Italia è rappresentata come presidente del Consiglio da Giorgia Meloni, l’opposto politico di D’Alema. Che è arrivata in Usa dopo essere stata già accarezzata e baciata alla Casa Banca sui capelli dal presidente Joe Biden non ancora messo in croce, come in questi giorni, per la sua età. O il suo “rimbambimento” gridato ogni giorno in Italia dal Fatto Quotidiano con ampie coperture -bisogna ammetterlo- della stampa americana e di esponenti dello stesso partito di Biden.

Dal Foglio

         L’atlantismo praticato dalla leader della destra italiana già prima di salire a Palazzo Chigi, quando era ancora all’opposizione del governo del superatlantista Mario Draghi ma ne aveva condiviso il sostegno  all’Ucraina aggredita dalla Russia,  è stato sufficiente negli Stati Uniti per considerarla un’alleata affidabile e una democratica, ma non in Italia per affrancarla da quella che oggi Giuliano Ferrara sul Foglio chiama, criticandola, “la sindrome Meloni della sinistra”.

Dal Secolo XIX

E’ una sindrome che proprio oggi il vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX rilancia precisando che quella della Meloni è “la camicia nera” del fascismo, non “la maglia nera dei salari” rimproveratale da un critico più terra terra reduce dalla lettura di un giornale.

Giuliano Ferrara sul Foglio

L’intervento di Giuliano Ferrara ha un valore doppio per la provenienza familiare e personale del fondatore del Foglio dal comunismo italiano. E per la sua conoscenza senza pari del più storico dei segretari del Pci, Palmiro Togliatti, che gli spetta per essere “cresciuto sulle sue ginocchia”, come diceva di lui Bettino Craxi ricordando che la madre ne era stata la segretaria più di fiducia. E il padre, prima ancora che senatore del Pci, corrispondente dell’Unità da Mosca diventandone poi direttore. Ed è proprio a Togliatti, un po’ pentito degli improperi riservati in passato ad Alcide De Gasperi, che Giuliano si richiama per reclamare, a favore della Meloni, “equanimità nel riconoscimento degli avversari”.

L’eredità sempre contesa di Pirro a quasi 2300 anni dalla morte

Da Libero

Pirro, il re dell’Epiro passato alla storia grazie ai racconti di Plutarco per le sue vittorie effimere sui romani, costategli la sconfitta finale, morì nel 272 avanti Cristo, cioè 2296 anni fa. Ma ancora gli capita di rivivere in qualche sfortunato condottiero, in senso lato, che ne raccoglie lezioni ed eredità nei campi più diversi.  

Il professore Marc Lazar

         Ieri su Repubblica con la firma di Marc Lazar, che non è Plutarco ma pur sempre un apprezzabilissimo storico e sociologo francese esperto anche dell’Italia e della sua non facile politica, la successione di Pirro è toccata a Jean-Luc Melenchon. Che si sente con la sua Francia irriducibile, ribelle o come altro vogliamo tradurre la gallica insoumise, il vincitore del secondo turno delle elezioni di domenica scorsa oltralpe, e quindi delle elezioni tout court, anticipate da Macron dopo la sconfitta nelle europee di giugno per contenere l’avanzata della destra lepenista.  

         Avvolto col cuore nelle bandiere che sventolavano davanti a lui nella piazza di Parigi dove parlava, e qualcuno avvertiva di rivivere un’altra edizione della Rivoluzione, con la maiuscola, dell’ormai lontano 1789, Melenchon ha reclamato il nuovo governo e la sua guida. Anzi, ha diffidato Macron dal sottrarsi a questo obbligo, maturato secondo il tribuno di sinistra dal suo stesso appello al fronte popolare costituitosi contro la destra incombente.  

Ma -figuriamoci- Macron ha ben altro per la testa. Non darà a Melenchon né il governo né la sua guida. Avrebbe coabitato -come si dice politicamente a Parigi- con il lepenista Jordan Bardella, diventato Mardella in una scritta sul monumento parigino alla libertà, l’uguaglianza e la fraternità, ma con Melenchon no. E l’interessato dovrà darsene una ragione, gli ha spiegato Marc Lazar.

Il furbissimo, imprevedibilissimo Macron, per quanto ridotto al Micron dal mio amico e direttore Mario Sechi, ha deciso di giocare quello che Il Foglio ha chiamato il suo “terzo tempo”, una specie di coda alle elezioni che durerà con “nuovi interlocutori” non meno di un anno, quando egli potrà tornare a sciogliere anticipatamente l’Assemblea Nazionale. Ma -chissà- potrà durare anche di più, sino all’esaurimento ordinario del mandato presidenziale, con Parigi e l’intera Francia ben presidiate dai trentamila uomini in armi, di cui cinquemila solo nella Capitale, impiegati domenica scorsa. I francesi ormai con Macron vi sono abituati.

Pietro Nenni e Sandro Pertini d’archivio

Personalmente, per averne letto gli scritti, ho molta stima e anche simpatia per Marc Lazar. E nessuna naturalmente per Melenchon e il suo pasticciatissimo fronte popolare, come tutti i fronti popolari, a cominciate da quello che da ragazzo vidi naufragare nel 1948 in Italia nelle urne dopo il pieno nelle piazze, come disse sconsolato Pietro Nenni. Che aveva partecipato a quel suicidio socialista, facendosi dissanguare dai comunisti, con tanta fiducia da chiedere una volta al compagno di partito Sandro Pertini, che me l’avrebbe personalmente raccontato a Montecitorio quando era presidente della Camera: “Avremo tutte le persone necessarie e adatte a coprire i posti che ci spetteranno”? Poi, a sconfitta subìta, sempre secondo il racconto dell’interessato, toccò a Pertini consolarlo della delusione e cercare di infondergli qualche speranza di sopravvivenza politica.

Un Romano Prodi d’archivio

Marc Lazar, per tornare a lui, pecca di macronite limitandosi a Melenchon nella individuazione dell’erede di turno di Pirro. Penso, a dispetto dell’indulgenza anche degli amici del Foglio e dei “nuovi interlocutori” -ripeto- del presidente francese, che Macron faccia una bella concorrenza a Melenchon sulla strada del compianto re dell’Epiro. Egli mi ricorda un po’, per esperienza di cronaca politica, il Romano Prodi degli anni dell’Ulivo e poi dell’Unione, quando costruiva governi destinati a durare non più di un anno e mezzo. Che già era qualcosa in più del solo professore Prodi impegnato nel 1978 nella famosa seduta spiritica durante il sequestro di Aldo Moro. Ma soprattutto il Macron sopravvissuto alle elezioni di domenica mi ricorda la Rosalina che fantasticava dei guadagni dalla ricotta che portava al mercato prima che le cadesse dalla testa sulla quale la trasportava con troppa baldanza.

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