Le guerre …di carta di Giorgia Meloni dalla lontanissima Cina

Da Repubblica

         Giorgia Meloni, diavola di una donna e di una premier, dalla lontana Cina dove si è avventurata con la figlia avrebbe dunque compiuto l’imprudenza, rimproveratale immediatamente dagli avversari, di irrompere nelle cronache belliche che sconvolgono il mondo per scatenare la sua guerra, per quanto solo di carta, contro tre giornali italiani, in particolare, che ce l’avrebbero con lei, portatori di interessi non solo cartacei. Sarebbero la Repubblica, che ha risposto al fuoco sparando sull’attacco della Meloni; Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti , che ha risposto rimproverandole di avere violato la rete di protezione appena stesa dal Quirinale sul giornalismo, e il Fatto Quotidiano. Tutti accomunati dalla premier nella “distorsione” di un dossier della Commissione Europea sullo stato di diritto dei paesi dell’Unione, fra i quali l’Italia sarebbe fra le peggiori.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

         Nella guerra, ripeto, di carta aperta dalla Meloni sparando da Pechino missili di lunghissima gittata, capaci di coprire la distanza di 8.156 chilometri da Roma, sede dei tre giornali presi di mira, si è aperta una gara tra le vittime su chi è stato danneggiato di più o più ingiustamente. Il Fatto Quotidiano, in particolare, nella conclusione dell’editoriale del direttore Marco Travaglio,  che non poteva ignorare naturalmente la notizia bellica del giorno, si è vantato di essere fra i tre l’unico portatore di interessi sani. Quelli solo dei suoi lettori, che ogni giorno si mettono in fila davanti alle edicole per acquistare la loro copietta e consolarsi della libertà ancora concessa loro di essere informati a dovere. Gli altri, i lettori di Repubblica e di Domani, sono invece condannati all’informazione filtrata attraverso gli affari, o affaracci, dei loro proprietari.

Dal Foglio

         Le cronache belliche, sempre di carta, così riferite sono tuttavia incomplete. Mancano del missile a suo modo sparato e affidato al Foglio dall’eurodeputato socialista spagnolo Juan Fernando Lopez Aguillar. Che da presidente della competente commissione della ormai passata edizione del Parlamento di Strasburgo si è assunta tutta o buona parte della responsabilità del dossier distorto, secondo la Meloni, dalle cronache e dalle interpretazioni dei giornali italiani e delle opposizioni. Ed ha ammonito, come esponente della maggioranza che ha confermato il 18 luglio Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles, che per la sua “reazione spropositata” la premier italiana “la pagherà in Ue”, intesa come Unione Europea.

L’editoriale di Repubblica

  E’ un po’ anche quello che si aspetta il direttore di Repubblica in persona, Maurizio Molinari, avendo titolato il suo commento all’attacco di Meloni: “Se Giorgia si allontana dall’Europa”.

         Surclassati da tanto furore polemico e frastuono di colpi d’artiglieria stampata, chissà che cosa si inventeranno i professionisti della guerra e del terrorismo per riprendersi già domani le prime pagine dei giornali italiani in conflitto col governo Meloni.

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I novanta minuti e più di Giorgia Meloni in Cina con Xi Jinping

Gianni Cuperlo

         Quei novanta minuti e più di incontro con Xi Jinping a Pechinoa meno che non si voglia considerare anche il presidente della Cina un rimbambito, come è stato liquidato quello uscente degli Stati Uniti d’America non solo dal “nostro” Marco Travaglio, ma anche da amici del partito democratico prodigatisi per impedirgli di ricandidarsi- sono la smentita più evidente della rappresentazione che di Giorgia Meloni fanno i suoi avversari in Italia. Di una premier cioè “isolatasi” in Europa e sul punto di cadere col suo governo e con la sua maggioranza. Una caduta così precipitosamente prevista o annunciata da Massimo Cacciari, per esempio, che pure il suo amico Gianni Cuperlo, in onda ieri sera su la 7, si è sentito in dovere di smentirlo e di richiamarlo ad una realtà ben diversa, per quanto non manchino neppure per lui problemi alla coalizione di centrodestra. Come d’altronde non ne  mancano al campo fotografico, e intermittente nelle piazze, di un’alternativa di centrosinistra estesa sino a Matteo Renzi, o alla sua penultima edizione.

Dalla Repubblica

         Dedicare più di novanta minuti ad un’ospite, con tutto quello che il presidente cinese ha da fare nel suo enorme Paese, per consentirne “il bluff”, come l’ha definito nel suo titolo di prima pagina la Repubblica di carta, o una esibizione “da equilibrista”, come ha titolato Il Foglio, non mi pare francamente da Xi Jinping. A meno- ripeto- che non si scambi pure lui per un rimbambito. Che magari ha scambiata davvero Meloni, come l’ha rappresentata in Italia il quotidiano pentastellato ufficiale La Notizia, per una edizione maschile di Marco Polo avventuratasi in Oriente.

Dal Foglio

         Tranquilli, il governo italiano è regolarmente in carica. Il presidente della Repubblica ha preso tanta pioggia a Parigi, assistendo alla fantasmagorica manifestazione di apertura delle Olimpiadi, ma è tornato a Roma in buona salute. E non ha nella sua agenda alcuno scioglimento anticipato delle Camere. Le opposizioni, pur essendo riuscite a inserire anche la Liguria nel pacchetto elettorale d’autunno a livello regionale, hanno ancora molto da lavorare, costruire, demolire e poi cercare di ricostruire per diventare l’alternativa che Pier Luigi Bersani pettina come una bambola quando riesce a distrarsi dallo spettacolo della mucca penetrata e vagante nella sede del Pd, al Nazareno.  

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Quel processo alla politica nelle piazze contestato da Aldo Moro

Dal Dubbio

Più degli scritti di Aldo Moro dalla prigione “del popolo” in cui lo avevano rinchiuso le brigate rosse prima di ucciderlo – missive evocate da Domenico Giordano sul Riformista- la lettera di Giovanni Toti dai suoi arresti domiciliari e, più in generale, la vicenda giudiziaria che gli è già costata senza un processo la carica di presidente della Regione Liguria, e a quest’ultima l’amministrazione liberamente eletta dai cittadini, mi ha ricordato il discorso pronunciato da Moro a Montecitorio, a Camere riunite congiuntamente, il 9 marzo 1977 per il caso Lookheed.  Quello degli aerei di trasporto militare venduti dall’omonima società americana all’Italia con tangenti che sarebbero poi costate la condanna dell’ex ministro della Difesa Mario Tanassi da parte della Corte Costituzionale. Che era allora competente, su stato d’accusa del Parlamento, a giudicare reati ministeriali, e non solo -come adesso- il presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla Costituzione.  

Mimmo Pinto

         In quel discorso l’allora presidente della Dc, difendendo non solo il suo  amico e collega di partito Luigi Gui, uscitone indenne, ma anche Mario Tanassi, in quanto “alleato”, come tenne a precisare, protestò contro il lottacontinuista Mimmo Pinto, eletto nelle liste di Democazia proletaria.  Che era intervenuto prima di lui nella discussione avvertendo quanti avevano avuto la disavventura di governare che sarebbero potuti anche scampare ai tribunali ma non alle piazze. Esse sarebbero state con loro severissime. “Noi non ci faremo processare in piazza”, gli rispose Moro affidandosi al “potere penetrante dei giudici”: quelli dello Stato di diritto e della Costituzione.

Aldo Moro

         Già ministro della Pubblica Istruzione, della Giustizia, degli Esteri, cinque volte presidente del Consiglio, per non parlare dei cinque anni trascorsi alla guida della Dc come segretario e dell’esperienza di professore universitario, fra l’altro, di filosofia del diritto, il povero Moro era destinato a morire dopo più di un anno, condannato da un fantomatico tribunale del popolo, oltre che dalla debolezza, a dir poco, dello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo. E solo grazie a quella terribile fine personale si risparmiò lo spettacolo successivo non solo della sua Dc e dei suoi alleati ma della politica, in genere, processata sulle piazze. Ma processata, paradossalmente, a sostegno di procedimenti avviati da una magistratura per niente imbarazzata di un aiuto così scandaloso e di per sè eversivo.

Elly Schlein in piazza a Genova contro Toti

         Che cosa è stata se non un processo in piazza quella manifestazione svoltasi a Genova per reclamare le dimissioni di Giovanni Toti da presidente della Regione Liguria che non erano ancora riusciti a strappargli magistrati d’accusa e giudici trattenendolo agli arresti domiciliari con ordinanze che neppure un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, già pubblico ministero, è riuscito a capire, e tanto meno a condividere. Una piazza, quella di Genova, che ha voluto anticipare, fra l’altro, quel campo largo o addirittura larghissimo dell’alternativa al governo attuale in cui – al pari di Davide Varì- non mi capacito come potrà mai riconoscersi, con quale e quanta disinvoltura, un garantista dichiarato come Matteo Renzi. Una disinvoltura, la sua, pari appunto a quella che addebito a magistrati che si lasciano silenziosamente sostenere dalle piazze nell’esercizio delle loro funzioni “penetranti”, come le definiva -ripeto- il povero Moro.

Francesco Saverio Borrelli e i suoi sostituti in Galleria a Milano

         Nella mia non breve esperienza professionale di giornalista ho visto e sentito solo un magistrato dichiaratamente preoccupato, se non addirittura angosciato, degli applausi che raccoglieva in piazza con i suoi collaboratori. Fu -gliene va riconosciuto il merito, pur non avendo personalmente condiviso gran parte delle sue scelte- il capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli agli inizi di quella falsa epopea chiamata nel 1992 “Mani pulite”. L’epopea che sconvolse in modo irreparabile i rapporti fra politica e giustizia voluti dai padri costituenti, che si staranno rivoltando nelle loro tombe, o urne cinerarie, a vedere a che cosa quei rapporti siano stati ridotti.

Dalla lettera di dimissioni di Toti

         Cadrà purtroppo nel vuoto anche il sobrio auspicio  espresso da Toti nella sua lettera da detenuto ai domiciliari, in quasi rigoroso stampatello, dimettendosi irrevocabilmente davanti alla piazza plaudente, che si traccino finalmente “regole chiare e giuste per la convivenza tra giustizia e politica all’interno del nostro sistema democratico”. Il debito al giustizialismo non sarò mai pagato del tutto, e da nessuno.

Pubblicato sul Dubbio

Meloni scrive alla “cara Ursula” contro le menzogne lasciate scrivere sull’Italia da Bruxelles

Dall’Ansa

         Dalla Cina, dov’è in missione ufficiale, la premier Giorgia Meloni ha disposto la diffusione di una lettera scritta alla confermata presidente della Commissione Europea, che chiama amichevolmente Ursula, per dolersi pubblicamente delle “distorsioni a uso politico” fatte “per la prima volta” della relazione annuale che dal 2020 la stessa Commissione pubblica sullo stato di diritto dell’Unione. Le cui “raccomandazioni finali nei confronti dell’Italia non si discostano particolarmente da quelle degli anni precedenti”. Eppure quest’anno a leggerle “qualcuno -ha scritto la premier- si è spinto perfino a sostenere che in Italia sarebbe a rischio lo stato di diritto” e “la libertà di informazione in particolare nella Rai”.

Ancora dall’Ansa

         Ma “l’attuale Governo e la maggioranza che lo sostiene -ha precisato la presidente del Consiglio-non si sono ancora avvalsi della normativa vigente per il rinnovo dei vertici aziendali” radiotelevisivi. “Gli attuali componenti del Consiglio d’Amministrazione della Rai -ha continuato la Meloni- sono stati nominati nella scorsa legislatura da una maggioranza di cui Fratelli d’Italia”, cioè il partito da lei guidato, “non era parte”, per cui “non si comprende come si possa imputare a questo Governo una presunta ingerenza politica nella governance della Rai.

Dalla Stampa

         L’aspetto curioso, intrigante e quant’altro di questa lettera della premier italiana contenente elementi incontrovertibili di verità sta nella destinazione. E’ stato ed è solo uno sfogo amichevole della Meloni con “Ursula” –“uscendo dall’angolo” in cui si è sentita, ha titolato La Stampa- per “le distorsioni ad uso politico” del rapporto della Commissione uscente, sempre presieduta dalla von der Leyen, o la confezione stessa di quel rapporto, prestatasi ad una lettura così negativa per il governo che lei guida, con la regolare fiducia del Parlamento, dal 2022? Ecco, è questa la domanda inevitabile non solo per un giornalista o per un politico ma per chiunque legga la missiva fatta diffondere dalla premier, avvertendone in qualche modo l’urgenza. O facendola avvertire, poco importa se a torto o a ragione in quel clima sempre liquido, o gassoso, in cui vive e si sviluppa quello che chiamiamo confronto politico.  

La “cara” Ursula von der Leyen

         Sarebbe interessante a questo punto sapere se la destinataria della lettera, in vacanza ma alle prese con la formazione della nuova Commissione di Bruxelles, risponderà e in che modo all’amica. Che attende peraltro di sapere da lei, per quanto non votata a Strasburgo dalla destra italiana, quali deleghe, cioè competenze, saranno destinate all’Italia nella nuova Commissione considerandone il ruolo di Paese fondatore dell’Unione, le dimensioni e le condizioni di stabilità non comuni dopo le elezioni europee e nazionali dei quasi due ultimi mesi.

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L’epistolario di Beppe Grillo e Giuseppe Conte sulle loro 5 Stelle

Dall’Ansa

         Con tutta la cautela consigliata, o imposta, dai misteriosi algoritmi di alcuni canali social che rimuovono da qualche tempo post, cioè articoli, considerati troppo forzati o polemici, mi limito a riferire che Beppe Grillo e Giuseppe Conte, rispettivamente e dichiaratamente “garante dei valori” e presidente del MoVimento 5 Stelle, si sono scambiati pubbliche lettere sull’”evidente crisi di consenso” di cui – secondo Grillo- soffre il partito, o come altro si debba o voglia chiamare.

Dal Corriere della Sera

         Grillo si è lamentato di non essere stato consultato sull’”assemblea costituente” del movimento annunciata da Conte. Che, precisando di volerlo così “riossigenare”, ha rivendicato la procedura adottata senza averne prima parlato col “garante” per tutelare la piena “legittimità”, se non la si vuole chiamare sovranità, dell’assise.

Da Repubblica

         Per carità, i due -il “garante”, ripeto, e il “presidente”- torneranno probabilmente a sentirsi e persino a incontrarsi convivialmente, magari nello stesso ristorante in cui già un’altra volta chiusero un loro contenzioso col conto pagato dall’ospite, essendo stato il locale scelto dall’altro. Ma il confronto polemico, per quanto ignorato dalle prime pagine di alcuni giornali solitamente attenti alla cronaca politica come il manifesto e Domani, è una notizia non irrilevante per un movimento il cui titolare partecipa ogni tanto con foto e altre immagini a quel cosiddetto “campo largo” di quella che l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, vista la sofferenza che questa denominazione procura a Conte, suggerisce continuamente di chiamare semplicemente “alternativa” al governo in carica. I cui tre anni ancora di mandato, sino alla scadenza ordinaria della legislatura, sarebbero “troppo lunghi da passare” -dice sempre Bersani- per non prevederne una fine prematura. Teniamoci pronti, ha raccomandato di recente Goffredo Bettini, compagno politico di vecchia data di Bersani, pensando ad elezioni anticipate cui è pronto a partecipare da alleato del Pd -pensate un po’- anche Matteo Renzi nella sua ultima, o penultima edizione.

Dal Fatto Quotidiano

         Grandi cose potranno quindi maturare a sinistra: non necessariamente col consenso di Beppe Grillo, ma questa volta senza che Conte si lasci per forza stoppare e condizionare dal “garante -ripeto- dei valori” del movimento pentastellato. Che, in quanto tali, come quelli ai quali intestò il suo movimento anche Antonio Di Pietro prima di rinunciarvi, come era già accaduto per la sua esperienza di magistrato, sono sempre di un’assolutezza solo verbale, più presunta che reale.   Grandi cose, dicevo. Ma forse anche meno o per niente grandi, se basate solo sul presupposto di un suicidio francamente improbabile del governo e della maggioranza in carica, per quanto anch’essi abituati a viaggiare in una certa turbolenza persino ostentata, specie dai due vice presidenti del Consiglio chiamati formalmente ad affiancare la premier.  

La democrazia è finita in rianimazione su entrambe le coste dell’Atlantico

Da Libero

Nell’estate di cinquant’anni fa, la prima del Giornale uscito da meno di due mesi, Indro Montanelli affidò a Enzo Bettiza, col quale divideva la stanza della direzione, il commento alla deposizione -come lui la chiamò subito- di Richard Nixon: il 37.mo presidente degli Stati Uniti, già vice di Dwigt Eisenhower, costretto alle dimissioni per l’affare noto come Watergate.  Una marachella, direi, rispetto a quello che in Italia abbiamo visto e vediamo ancora in materia di intercettazioni e simili.

Richard Nixon

  Enzo confezionò l’articolo in poco più di un’ora e Montanelli glielo titolò personalmente con una sola parola: Regicidio. Che purtroppo non era il primo nella storia degli Stati Uniti. E non sarebbe stato purtroppo l’ultimo, né fisico né metaforico.

Joe Biden

Le cronache della corsa alla Casa Bianca provenienti da oltre Atlantico prima e dopo la rinuncia di Joe Biden alla conferma, prima e dopo l’attentato fallito per un millimetro all’ex presidente aspirante all’elezione Donald Trump, che vorrebbe i danni dagli avversari per avere cambiato il cavallo contro cui battersi, hanno indotto anche estimatori incalliti degli Stati Uniti, e non solo di relativamente recenti come Walter Veltroni, restituito dalla politica al giornalismo, a scrivere di una democrazia in serie, pericolose difficoltà. Una democrazia che “non sta bene” un po’ dappertutto, come ha diagnosticato di recente Papa Francesco sovrapponendo alla sua veste bianca il camice di un medico della politica.

Papa Francesco

Non sta bene soltanto, Sua Santità?, come anche la buonanima del laicissimo Eugenio Scalfari si era abituato a chiamare il Papa che lo aveva onorato delle sue letture poi delle sue telefonate, infine di una certa amicizia che non so fino a che punto avrà potuto aiutarlo nell’affrontare quel grande mistero che ci aspetta tutti dopo la morte.

Ursula von der Leyen

Più di una democrazia che “non sta bene”, mi sembra francamente di vivere una democrazia in rianimazione: al di là e al qua dell’Atlantico, anche nella nostra Europa. Che è riuscita in poco più di un mese a votare per il rinnovo del suo Parlamento e a fare finta che non si sia votato per niente. Il nuovo presidente è presieduto dalla stessa che aveva guidato il precedente. E la nuova Commissione, per la cui formazione la presidente -anche lei la stessa di quella precedente e tuttora uscente- si è preso tutto il tempo possibile, e forse anche impossibile, al riparo di vacanze che metteranno a dura prova i suoi telefonini privati e di servizio.

Sergio Mattarella sotto la pioggia

La nuova Commissione di Bruxelles eredita dalla vecchia non solo la presidente teutonica Ursula von der Leyen ma anche un dossier sul cosiddetto “stato di diritto” nei paesi dell’Unione confezionato per la parte riguardante l’Italia con materiale attinto prevalentemente presso le opposizioni di vario colore al governo in carica. Che animano le fotografie del cosiddetto “campo largo”, ora addirittura larghissimo, di quella che Pier Luigi Bersani chiama ottimisticamente “alternativa”. E che l’inesauribile Goffredo Bettini, tornato alla loquacità di un tempo, quando aveva scoperto e indicato persino in Giuseppe Conte “il punto più alto di riferimento dei progressisti” in Italia, ha appena esortato sul Riformista a prepararsi alle elezioni anticipate. Come se il presidente della Repubblica fosse già pronto a sciogliere -chissà perché-  le Camere elette meno di due anni fa.

Carlo Nordio

Di quel dossier da cui l’Italia esce come un paese praticamente fascistizzato, in cui si vorrebbe persino eleggere direttamente il presidente del Consiglio, e non solo i sindaci e i presidenti delle regioni imprudentemente sperimentati da anni, il meno che si potesse e si possa tuttora dire è quello che ha già scritto Libero definendolo “una patacca”. E sorprendendo, o addirittura scandalizzando i soliti benpensanti, magari persino nel governo dove qualche volenteroso ministro si è consolato vedendo il documento in continuità, diciamo così, rispetto a valutazioni espresse a Bruxelles in passato, quando Giorgia Meloni era ancora all’opposizione in Italia e le maggioranze erano di colore diverso. O scorgendovi consolanti riconoscimenti di progressi compiuti, per esempio, sulla strada della digitalizzazione giudiziaria: l’unica che forse allevierà le colpe di quel demoniaco ministro della Giustizia che viene considerato a sinistra l’ex pubblico ministero Carlo Nordio. Uno che si permette di leggere e di non capire, dichiaratamente e per giunta in Parlamento, un’ordinanza di tribunale.

Pubblicato su Libero

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L’Olimpiade persa da Giovanni Toti con le dimissioni da governatore della Liguria

La festa olimpica a Parigi

         Nello stesso giorno, casualmente, della festa bagnata e un po’ anche boicottata delle Olimpiadi parigine Giovanni Toti ha perduto la sua personale olimpiade con i magistrati che lo tengono agli arresti domiciliari da ottanta giorni, dopo circa quattro mesi di indagini preliminari a sua insaputa e intercettazioni per presunta corruzione, falso e non so cos’altro finiranno ancora per contestargli quando lo porteranno finalmente al processo. Che magari si concluderà, come tanti già subiti da altri politici e amministratori pubblici, con l’assoluzione praticamente alla memoria: da notizia a una colonna, come diciamo noi giornalisti, magari nella pagina dei necrologi estesi ai vivi dimenticati.

Vauro

         Un monumento quasi funebre è stato eretto sarcasticamente sulla prima pagina del Fatto Quotidiano -e dove sennò?- con la vignetta di Vauro in cui Toti assume le vesti, la stampella e quant’altro dell’omonimo Enrico, morto nelle trincee della prima guerra mondiale lanciando la sua gruccia contro gli austriaci e incitando i commilitoni all’assalto.

Massimo Giannini su Repubblica

         Meno sarcasticamente ed eroicamente, pur senza la divisa e i gradi del generale Armando Diaz, Massimo Giannini su Repubblica – e dove sennò?, anche questa voltaha steso il bollettino della vittoria dei magistrati e di tutta la cultura e politica giustizialista scrivendo che “con Toti, al dunque, frana un po’ anche la presunta compattezza dell’asse FdI-Lega-Forza Italia”, travolta dalla piazza di sinistra che qualche giorno fa a Genova reclamava questo epilogo. “Meloni -ha sentenziato Giannini da cassazionista del giornalismo politico- ha palesemente perduto il tocco magico. Sembrava quasi la nuova Merkel, dopo l’apparente successo dei suoi Fratelli nel voto europeo del 9 giugno e la tronfia esibizione da padrona del mondo e Regina di tutte le Puglie al G7 di Borgo Egnazia”. E così è sistemata anche la premier imprudentemente in carica, oltre all’ormai ex governatore della Liguria.

Dal Riformista

         I giornali di area governativa come Il Giornale hanno titolato sul “ricatto” subìto da Toti, dimessosi nel tentativo di affrontare il processo da libero. Il Foglio ha titolato in rosso sull’”arresto di scambio” gestito dai magistrati. Il Riformista ha parlato nel titolo di “golpe giudiziario che seppellisce il garantismo” e di politica che “l’è morta”.

Dall’Unità

         Ma la traduzione più politica e istituzionale della vicenda Toti si trova sull’Unità, un giornale non proprio di sostegno al governo Meloni, col titolo confezionatosi personalmente dal direttore Piero Sansonetti che dice, in apertura della prima pagina: “Piemmerato: Alle Procure il potere di sciogliere i consigli regionali”. Una riforma che, diversamente dal premierato proposto dal governo, non ha avuto bisogno di passare per il Parlamento. Ha viaggiato come un frecciarossa.  

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Goffredo Bettini all’orecchio della sinistra rimpiange il muro di Berlino

Dal Riformista

         Oggi “pronto” sul Riformista addirittura alle elezioni anticipate, in un’intervista ai quotidiani Il Giorno, Resto del Carlino e Nazione sommersa da cronache internazionali e interne più stringenti Goffredo Bettini si è riproposto ieri come l’uomo che sussurra ai cavalli della sinistra italiana in tutte le edizioni ch’egli ha vissuto in più di 50 dei suoi quasi 72 anni di età: dai tempi del Pci a quelli del Pd. E, per quanto riguarda il Pd, dai tempi di Walter Veltroni -ora restituito quasi del tutto al giornalismo con gli  editoriali sul Corriere delle Sera- a quelli in corso di Elly Schlein Che par di capire sia riuscita simpatica all’aspirante consigliere, suggeritore e quant’altro, Ma ancor più lo sarebbe se accettasse la prospettiva di imitare i lontanissimi Palmiro Togliatti e Aldo Moro, capaci di finire in minoranza nelle direzioni dei loro partiti sopravvivendovi fino alla morte: naturale per l’uno, violenta per l’altro, ucciso dalle brigate rosse.

Bettini e Veltroni d’archivio

         Quello che purtroppo Bettini, nella sua cultura o formazione romana completata con i riti contemplativi della Thailandia, non riesce a superare è il limite tattico, assai contingente, delle sue esortazioni ai dirigenti di turno della sua parte politica. Un limite oltre il quale questa volta, a dire il vero, ha cercato di spingersi facendola però così grossa, per giunta con quel fisico di cui dispone, che gli sarebbe difficile cercare di coprirla, come la buonanima di Amintore Fanfani intimava agli amici democristiani che finivano sotto i suoi sferzanti giudizi.

Bettini e Zingaretti d’archivio

         Esaurita la tattica consigliando alla Schlein di giocare sì con Matteo Renzi, e non solo al pallone, senza lasciarsene troppo condizionare, e comunque preferendogli sempre Giuseppe Conte, da lui promosso cinque anni fa con Nicola Zingaretti, allora segretario del Pd, come il “punto di riferimento più alto dei progressisti italiani”; esaurita, dicevo, questa parte tattica dei suoi ragionamenti e consigli, Bettini ha voluto volare sulla strategia cercando le ragioni profonde della crisi della sinistra.

Bettini al Giorno, Resto del Carlino e Nazione

         In questo volo acrobatico compiuto tanto in alto da portarlo sopra l’intero Occidente, e non solo l’Italia, Bettini ha scoperto, sentenziato e quant’altro che “dall’89 si è spenta la speranza di un mondo più umano e più giusto”. “Il risultato -ha detto- è sotto gli occhi di tutto: aumento delle diseguaglianze, crisi democratica e guerra”. Al singolare, comprensiva di tutte quelle “in pillole”, come dice il Papa, che si combattono nel mondo.

La caduta del muro di Berlino

         Poiché l’89 fu l’anno non tanto della formazione del sesto e penultimo governo di Giulio Andreotti in Italia quanto- sul piano mondiale- l’anno della caduta del muro di Berlino e del comunismo che doveva proteggerlo, si dovrebbe dedurre che la sinistra dovrebbe maledirlo. Ma che stai a dì, Goffredo?, detto molto alla romana, senza inflessioni asiatiche. 

Gli auguri dovuti e meritati a Sergio Mattarella per i suoi 83 anni

Ottrantatre anni appena compiuti e molto ben portati, pronto alla battuta e ai richiami, come quello appena levato in difesa della libertà d’informazione dopo l’aggressione a un giornalista della Stampa compiuta da facinorosi di destra, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non avrà certamente bisogno del bel ventaglio di rito regalatogli dai giornalisti parlamentari, intesi come quelli che seguono i lavori delle Camere e la politica più in generale, per difendersi dal caldo torrido di questa estate. Saloni, sale e uffici del Quirinale sono ben protetti, al pari dei siti dove il capo dello Stato trascorrerà le sue ferie.

         Il ventaglio  sarà utile a Mattarella, piuttosto, pur nella sua ingombrante eleganza, per allontanare scaramanticamente da sé l’attenzione maleducatamente riservatagli, abusando della libertà d’informazione, da qualcuno che non gli perdona la posizione assunta sin dal primo momento contro la Russia di Putin per l’aggressione all’Ucraina.

Dal Fatto Quotidiano

         Sentite, anzi leggete con me quello che ha appena scritto nel suo editoriale di giornata il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio: “Per carità, rispetto a Biden è un pischello. Ma quando parla di guerre Sergio Mattarella non pare lucidissimo”.

         Biden, come si sa, si è appena ritirato per ragioni di età dalla corsa per una conferma alla Casa Bianca. Sergio Mattarella è abbastanza in buona salute per lasciare prevedere che porterà a termine regolarmente e lucidamente il suo secondo mandato.

         Auguri, signor Presidente.  

Fitto nella corsa a Bruxelles si fa piacere anche il dossier contro l’Italia

         Raffaele Fitto, il ministro degli affari europei e dintorni che la premier Giorgia Meloni tiene molto in conto -tanto da essere rappresentata da alcuni giornali come indecisa se trattenerlo nel governo o promuoverlo mandandolo nella nuova Commissione europea, se dovesse strappare alla presidente Ursula von der Leyen le deleghe adeguate-  ha fatto di suo un passo verso Bruxelles   con una lettura anestetica, diciamo così, del dossier appena pubblicato dalla Commissione uscente sullo stato di diritto in Italia. Che sarebbe minacciato dalle riforme progettate dal governo e all’esame del Parlamento, a cominciare dal cosiddetto premierato, come viene tradotta istituzionalmente l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

         Cinquantacinque anni da compiere il 28 agosto, democristiano di provenienza, in competizione con Pier Ferdinando Casini per il titolo di superstite di maggiore successo di quello che fu il partito dello scudo crociato, Fitto non si è adombrato per le “preoccupazioni” espresse dal dossier della Commissione uscente sugli effetti delle riforme in cantiere nel Parlamento italiano. A queste preoccupazioni ha preferito i “riconoscimenti” dei progressi della “digitalizzazione” nel settore giudiziario e altri aspetti ignorati dai critici del rapporto. Che comunque -ha ricordato il ministro- non riguarda solo l’Italia ma tanti altri paesi dell’Unione.

Titolo del Foglio

         Questa lettura -ripeto, anestetica o anestetizzante- del dossier europeo è condivisa dal Foglio, che se la prende in un titolo di prima pagina con le forzature, anzi le “bufale”, di una Repubblica, quella di carta, che l’ha sventolata ieri come una bandiera nella navigazione contro il governo parafascista, o simile, di Giorgia Meloni.

Testo del Foglio

         “Il rapporto -scrive ottimisticamente Il Foglio- non fa che fotografare la situazione, dando spazio a tutte le voci. Riportare soltanto quelle critiche, spacciandole pure per posizioni della Commissione Ue, è pura opera di disinformazione”, accompagnata “con traduzioni maccheroniche dall’inglese degne di uno studente delle scuole medie”. Alla cui cultura è stato degradato anche un ex collaboratore, peraltro, del Foglio, ed ex capo ufficio stampa della Meloni a Palazzo Chigi, come Mario Sechi. Che da direttore di Libero è rimasto basito, non a torto, dalla lettura del dossier.

Titolo di Libero

         “La patacca europea”, ha titolato Libero, “che bastona l’Italia su riforme e informazione” usando come “fonti di studio Ong, toghe rosse e l’Anac in mano all’opposizione”.

Mario Sechi su Libero

         Molto più vistosamente e duramente dell’ormai confratello editoriale Il Giornale, Sechi ha scritto, raccomandato e quant’altro nel suo editoriale, riprendendosi un po’ le funzioni svolte in passato a Palazzo Chigi: “Il centrodestra di fronte a questa falsa rappresentazione deve rispondere a tono”. Che purtroppo è stato, almeno a livello di governo, quello del ministro Fitto, probabile successore dell’italiano Paolo Gentiloni, non si sa ancora con quali deleghe, nella Commissione di Bruxelles.

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