Salvini scippa alla Meloni la chiusura infuocata della campagna elettorale

Dal Corriere della Sera

         Altro che “scintille prima delle urne”, come le ha chiamate il Corriere della Sera nel titolo sulla conclusione della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo. Ma anche di un consiglio regionale, quello del Piemonte, e di oltre tremila amministrazioni locali delle quali, in verità, si sono accorti in pochi. Eppure esse costituiscono un bel test per valutare -senza l’astrattezza del sistema proporzionale europeo, che non esiste più a livello nazionale- condizioni e prospettive dei patiti e  schieramenti politici italiani.

Matteo Salvini

         Sulla conclusione della campagna elettorale, con Giorgia Meloni un po’ distratta, diciamo così, dalla festa dell’opera lirica italiana a Verona col presidente della Repubblica Sergio Mattarella e le altre maggiori autorità dello Stato, è caduta come lava incandescente la bomba di Matteo Salvini contro quel “criminale” che sarebbe diventato, secondo lui, il presidente della Repubblica di Francia, Emmanuel Macron, nella difesa armata dell’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin.

Dalla Verità

  “Il galletto”, ha definito Macron forse ancora più spregiativamente, nella sua ironia, un giornale – La Verità- particolarmente simpatizzante del vice presidente del Consiglio italiano e leader della Lega. Che si è proposto -fra i vari cantieri allestiti da ministro delle Infrastrutture- di sfuggire al sorpasso tentato dal partito forzista di Antonio Tajani all’interno del centrodestra.

Gorgia Meloni e Riccardo Muti a Verona

         Non so se proprio a Verona lo storico direttore d’orchestra Riccardo Muti avesse pensato anche a questo scippo del finale di campagna elettorale, appena compiuto da Salvini ai danni della Meloni, quando si è accomiatato dal pubblico raccomandando a tutti di sentirsi come in un’orchestra, dove la regola dev’essere quella dell’armonia. Altrimenti non è un’orchestra ma semplicemente e rovinosamente un casino, pur elegantemente risparmiato da Muti  alle orecchie del pubblico dell’Arena veronese che lo ha acclamato.

Macron da Putin nel 2022

         Un’altra cosa non so. Se e quanto tempo ci vorrà perché si depositino sul terreno -ma, più in particolare, sul tavolo delle trattative e del confronto fra i vari governi europei- le polveri dei comizi e si trovi un accordo sui nuovi assetti dell’Unione Europea.  Dove né il presidente della Commissione di Bruxelles né quello del Consiglio ma neppure i commissari, vengono eletti direttamente, ma sono politicamente negoziati. E la Meloni dovrà trattare per l’Italia anche con quel “criminale” di Macron. Che si è convinto, dopo più di due anni di guerra in Ucraina, che Putin non meritava le sue iniziali aperture, quando sostenne che non fosse il caso di “umiliare” il pur invasore del paese limitrofo.

Macron e Zelensky

L’Ucraina nel frattempo è diventata socia aspirante dell’Unione Europea, con tanto di procedura formalmente avviata. Putin invece è anche per Macron, e non solo per il presidente americano scusatosi con Zelensky dei ritardi nelle forniture degli aiuti, l’erede di Hitler a 80 anni dallo storico sbarco degli alleati occidentali in Normandia.

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Il ricordo della Normandia e l’incubo dell’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin

         La storia si prende sempre le sue rivincite sulla cronaca. E le ruba la scena, affollata di persone e di fatti della cosiddetta attualità.

Ieri in Normandia

  Alla immediata vigilia delle elezioni europee alla fine giocate col fiato sospeso su ciò che potrà poi accadere modestamente a Bruxelles per la successione alla presidenza della Commissione e dintorni, le celebrazioni degli 80 anni dallo sbarco in Normandia, preceduto da quelli dell’anno prima in Sicilia e di pochi mesi prima ad Anzio, hanno riproposto la dura, spietata realtà di un’Europa ora minacciata dalla Russia di Putin in guerra con l’Ucraina. Una Russia emula, insieme, dell’Unione Sovietica di Stalin e della Germania di Hitler, disgraziatamente unite nel 1939 nei preparativi  della  seconda guerra mondiale.

Da Repubblica

         “Kiev, la nostra Normandia”, ha dovuto titolare realisticamente su tutta la prima pagina pure un giornale come La Repubblica, una specie di corazzata della flotta di carta schierata contro il governo di Giorgia Meloni. Che, per quanto piegatosi anch’esso ai condizionamenti elettorali con quel sostanziale rifiuto di  un uso più libero ed efficace degli armamenti forniti all’Ucraina per difendersi dall’aggressione russa, sino a guadagnarsi un quasi elogio e ringraziamento di Putin, fa parte dello schieramento occidentale favorevole a Kiev.

         La foto più significativa delle celebrazioni in Normandia è quella del presidente americano Joe Biden che saluta paternamente il presidente ucraino Zelensky riconoscente e fiducioso, e del presidente francese Macron che contemporaneamente ne saluta la moglie.

Sergio Mattarella in Normandia

         Defilato, rispetto a questa e ad altre immagini delle celebrazioni in Normandia, potrebbe sembrare il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella. Ma è solo un’illusione ottica, perché sul piano politico Mattarella è stato ed è in Europa fra i sostenitori più tempestivi e convinti dell’Ucraina. Ancora nelle celebrazioni fresche di stampa dei 78 anni della Repubblica il presidente ha omesso di invitare al Quirinale la rappresentanza diplomatica della Russia. Della quale il presidente italiano non si lascia scappare un’occasione, dico una, per ricordare e denunciare pubblicamente la responsabilità dell’aggressione ad una Ucraina tanto nazificata, secondo le convinzioni e le accuse del Cremlino, da essersi incamminata sulla strada dell’adesione all’Unione Europea. Che evidentemente negli incubi di casa al Cremlino dev’essere “denazificata” anch’essa.

Da Riformista

Non parliamo poi della Nato, dove il povero Silvio Berlusconi ancora presidente del Consiglio pensò 22 anni fa di portare anche Putin. O di farne quanto meno un interlocutore costruttivo nella difesa delle democrazie minacciate da dittatori e terroristi. Era ogni tanto, la buonanima del Cavaliere, non il furbissimo e spregiudicato avventuriero immaginato, temuto, contrastato dagli avversari, e trattato nei tribunali -ancora oggi, peraltro, da morto- come un delinquente seriale, ma un uomo troppo ottimista. Un ingenuo, diciamo così.  

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I ringraziamenti e le promesse di Putin all’Italia poco belligerante in Ucraina

         Escluso dalle celebrazioni dello sbarco degli alleati in Normandia di 80 anni fa, Putin si è consolato giustamente, dal suo punto di vista, con le divisioni che è riuscito a creare in Occidente, e più in particolare in Europa sulla guerra in Ucraina. Che doveva concludersi in una quindicina di giorni, nei piani della cosiddetta “operazione speciale” annunciata a Mosca, ma che sta durando da più di due anni grazie agli aiuti occidentali, appunto, arrivati al paese aggredito.  

La guerra in Ucraina

         Nelle divisioni che il prolungamento della guerra ha creato l’Italia si è guadagnata l’attenzione compiaciuta di Putin. E non a torto, debbo riconoscere, essendosi il governo schierato come l’opposizione di sinistra contro la possibilità, ventilata dal segretario generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg, e via via diffusasi fra le cancellerie occidentali, di autorizzare gli ucraini a usare le armi ad essi fornite per colpire anche il territorio russo da cui partono i missili contro obiettivi civili e non solo militari del paese aggredito.

Matteo Salvini

         Non più tardi di ieri sera, ospite del salotto televisivo di Lilli Gruber, su la 7, nell’ennesima riedizione di un programma che potrebbe anche essere chiamato tutti contro uno quando l’ospite è un esponente del governo; non più tardi di ieri sera,  dicevo, il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini ha annunciato che il suo partito smetterà di  votare per altre forniture militari all’Ucraina se non otterrà l’assicurazione ancora più esplicita di quella già avuta che nessun missile, nessun “proiettile” italiano sarà destinato contro il territorio della Russia. Con la quale l’altro vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, il forzista Antonio Tajani, va ripetendo da sempre che l’Italia “non è in guerra”, pur non avendo condiviso l’attacco all’Ucraina, almeno per come è andato sviluppandosi dai piani originari. Che erano stati prospettati da Putin all’allora vivo Silvio Berlusconi come una mezza scampagnata a Kiev per rimuovere il presidente Zelensky e sostituirlo con un altro “signore perbene” disposto a sottomettersi al Cremlino.

“In Italia-si è accorto Putin in una intervista all’Ansa– non monta una russofobia da cavernicoli e lo teniamo in conto. Speriamo che alla fine andremo d’accordo con l’Italia. Sarà possibile ripristinare le relazioni, forse anche più velocemente che con qualsiasi altro paese europeo”. Magari, gli verrà presto la voglia di restituire alla famiglia Merloni, da non confondere con Meloni, la fabbrica e tutto il resto dell’Ariston da poco requisita di fatto in Russia.

Antonio Tajani

  In fondo -perché non dimenticarlo? – gli italiani riuscirono a guadagnarsi in Russia la definizione di “brava gente” anche dopo avere partecipato all’invasione nazista. E nonostante Palmiro Togliatti ancora a Mosca, respingendo le sollecitazioni umanitarie che gli venivano dai compagni, scriveva che i prigionieri italiani in Russia meritavano il duro trattamento che ricevevano, morendo di stenti.

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Il governo reclamato dalle opposizioni come preposto a meno ancora degli affari correnti

Da Libero

Fra le curiosità, le stranezze, le sorprese, diciamo pure le scemenze di questa campagna elettorale finalmente agli sgoccioli, tossici come tutti i passaggi precedenti, c’è anche la pretesa di fior di costituzionalisti, e non solo degli oppositori non titolati, di aspettarsi praticamente dal governo in carica la rinuncia ai suoi diritti e doveri. Come se fosse meno ancora di un governo dimissionario autorizzato solo ai cosiddetti affari correnti.

Anche le riunioni del Consiglio dei Ministri, i disegni di legge o decreti legge che ne sono derivati, o soltanto gli argomenti discussi sono stati contestati come prepotente, abusiva partecipazione alla campagna elettorale, o promozione dei suoi aspetti o momenti peggiori. E più suscettibili di incidere sulle scelte degli elettori distorcendone la vista e gli umori.

Mattarella e Meloni al Quirinale

         Eppure disegni di legge e decreti legge non possono cadere sul selciato anche di una campagna elettorale a capriccio, solo per decisioni e scelte del presidente del Consiglio, volendone parlare al maschile come preferisce la pur prima donna arrivata alla guida di un governo in Italia. Gli uni e gli altri passano per il vaglio del presidente della Repubblica: gli uni per l’autorizzazione alla presentazione alle Camere, richiesta dal quarto comma -scusate l’orrenda tecnicalità giuridica- dell’articolo 87 della Costituzione, e gli altri per “l’emanazione”, cioè la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e l’effettiva, immediata entrata in vigore, di cui -scusate quest’altra orrenda tecnicalità- al comma immediatamente successivo dello stesso articolo.

Nordio e Mantovano alla Camera

         Per quanto l’interessato possa sentirsi “dovuto” a entrambi i passaggi, il Capo dello Stato conserva le sue capacità di discernimento, di obbiezione e persino di rifiuto. Gli si mancherebbe di rispetto se lo si negasse. Anche la tanto contestata riforma costituzionale della giustizia, comprensiva della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, scambiata per “vendetta” dai magistrati in agitazione, è approdata in Consiglio dei Ministri dopo un’informazione del guardasigilli Carlo Nordio e del sottosegretario di Palazzo Chigi Alfredo Mantovano al Quirinale: entrambi peraltro con la toga nel cuore, che non si smette mai di indossare nell’intimo, come diceva ai suoi tempi, prima di salire al Quirinale come inquilino, il già magistrato -pure lui- Oscar Luigi Scalfaro.

         Trovo alquanto schizofrenica un’opposizione, volendone parlare generosamente al singolare, che da una parte si arrocca nella difesa delle prerogative e della stessa figura del capo dello Stato che sarebbero minacciate da un’altra riforma costituzionale, quella del cosiddetto premierato, e dall’altra ne disconosce e contesta gli atti concreti. O accusa di fatto il presidente della Repubblica di avere assecondato il governo nelle sue iniziative, anche le più  discutibili.  O lo immagina o la rappresenta come avvolto in un involucro di ghiaccio.

 “Gelo al Quirinale”, si è letto sulla Repubblica di carta a proposito dell’accoglienza riservata dal presidente della Repubblica vera alla riforma della giustizia. Ma chi e con quale termometro misura la temperatura di quel grandissimo congelatore che sarebbe diventato il Quirinale per conservare al meglio il capo dello Stato e restituirlo scongelato e vivo agli italiani se e dopo che le opposizioni, questa volta debitamente al plurale, avranno visto realizzato il sogno di una rovinosa e irreversibile caduta del governo Meloni? A saperlo.

Rido alla sola idea di vedere il segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti, che ho conosciuto quand’era funzionario e infine segretario generale della Camera dei Deputati, col termometro in mano a misurare il suo stesso congelamento.

Le opposizioni in camicia al Senato

         Con le opposizioni, tornando a parlarne al plurale, ridotte a togliersi la giacca per protesta nell’aula del Senato contro il premierato avviato verso il primo dei quattro voti parlamentari necessari per l’approvazione finale e l’eventuale passaggio referendario; opposizioni forse pronte a togliersi anche i pantaloni al passaggio o all’occasione successiva, credo si sia raggiunto qualche giorno fa il colmo del ridicolo. Così come credo che si sia raggiunto il colmo o l’apice di certa amministrazione della giustizia con la retata di arresti, domiciliari e non, avvisi di garanzia e interrogatori in Liguria sotto campagna elettorale, decapitandone la regione. E definendo, da parte dei soliti sostenitori del primato della giustizia sulla politica, una “sfida” alla magistratura, anzi alla legge, la sfiducia al presidente detenuto domiciliare Giovanni Toti negata dalla maggioranza del Consiglio regionale. Il ponte di Toti, diversamente da quello di Riccardo Morandi nel 2018, è rimasto in piedi.

Pubblicato su Libero

Che brutta aria che tira in questo finale di campagna elettorale

La vignetta del Foglio

         Con l’aria che tira – non quella dell’omonima trasmissione televisiva che ha già accumulato più di 2100 puntate, ma quella della politica alle prese sempre con qualche campagna elettorale- manca solo che Giorgia Meloni venga sospettata di averci messo maleficamente del suo nell’infortunio occorso al serbo Novak Djokovic per fare salire “sul tetto del mondo” del tennis Jannik Sinner, di nome tedesco ma di nazionalità fortunatamente italiana. E mettere anche questo evento del parigino Roland Garros, a pochi giorni dal voto di sabato e domenica prossima per il Parlamento europeo, e per un lungo elenco di amministrazioni locali, in una specie di patrimonio del governo di centrodestra, o di destra-centro.

         Vicino, quanto meno, al paradosso del  nuovo numero uno del tennis sbandierabile come un trofeo dalla Meloni, già espostasi di recente in altre occasioni sportive mescolandole alla sua campagna elettorale, si è già spinto quel diavolo di Makkox con una vignetta sul Foglio in cui la premier esulta per il successo di Sinner e del tennis italiano arrivato “dopo solo 18 mesi di governo”.

Giovanni Spadolini nel 1982

D’altronde, anche la buonanima di Giovanni Spadolini, all’epoca della cosiddetta prima Repubblica, da presidente del Consiglio si avvolse non solo metaforicamente, fra Palazzo Chigi e Montecitorio, nella bandiera nazionale onorata dai mondiali di calcio vinti a Madrid dalla squadra d’Italia battendo nella partita finale la Germania ancora dell’Ovest. Era esattamente l’estate del 1982. La Dc, che proprio a Spadolini aveva ceduto la guida del governo, s’impensierì a tal punto da farlo cadere l’anno dopo anticipando le elezioni. Ma spianando autolesionisticamente la strada a Bettino Craxi, che arrivò a Palazzo Chigi nel 1983 per restarvi sino al 1987: quattro lunghissimi anni vissuti come una specie di inferno dall’allora segretario dello scudo crociato Ciriaco De Mita.

         Per mettere la politica, oltre che i suoi leader di turno, al riparo dalla possibilità, tentazione e altro ancora di strumentalizzazione di eventi esterni, chiamiamoli cosi, bisognerebbe proibirli o ordinarne la censura. Così come, a tutela delle opposizioni o minoranze di turno, bisognerebbe vietare sedute del Consiglio dei Ministri e adozione di provvedimenti urgenti o solo ordinari in pendenza di una campagna elettorale riguardante tutto o parti consistenti del territorio nazionale.

Da Repubblica

E’ appena scattata la campagna -stavolta delle opposizioni- contro il “il bluff del governo”, denunciato in particolare dal quotidiano La Repubblica a proposito degli interventi appena disposti a Palazzo Chigi  per cercare di ridurre, quanto meno, le liste d’attesa negli ospedali.

Anche la magistratura dovrebbe darsi una regolata nelle campagne elettorali. Ma questo non si può dirlo e tanto meno chiederlo senza essere accusati di volerne compromettere l’indipendenza e l’autonomia. E calpestare naturalmente  l’obbligatorietà costituzionale dell’azione penale. 

Quel “rispetto” restituito da Salvini, bontà sua, a Mattarella

Dalla Stampa

         Il “rispetto”, bontà sua, annunciato in retromarcia da Matteo Salvini per il presidente della Repubblica, dopo che il collega di partito e di Parlamento Claudio Borghi ne aveva ventilato le dimissioni per troppo europeismo, non può avere chiuso davvero un incidente che ha messo in imbarazzo la premier e il governo. Dove peraltro il capo della Lega è uno dei due vice presidenti del Consiglio e titolare del Ministero -quello della Infrastrutture- col portafoglio maggiore.

Screenshot

         Il “sovranismo europeo” contestato in un tweet dal senatore Borghi a Sergio Mattarella, e rifiutato anche da Salvini in una intervista televisiva non smentita né smentibile dopo essere stata trasmessa dalla Rai, resta lì a pesare come un macigno sulla immagine di una maggioranza e di un governo che sembravano affrancati dal sospetto di un’adesione opportunistica, per niente convinta, al processo d’integrazione nell’Unione, di cui stiamo per rinnovare il Parlamento. Una Unione che aveva saputo e voluto ritrovare nella difesa dalla pandemia del Covid quello spirito solidaristico smarrito, per esempio, con la crisi del debito pubblico greco. E con la stretta della politica di austerità imposta anche all’Italia.

         Non si può dimenticare la caduta dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi, uscito praticamente dalle urne del 2008 e sostituito nell’autunno del 2011 da quello di Mario Monti, avvolto in panni più tecnici che politici. Cui lo stesso Berlusconi all’inizio si piegò, condividendo anche il laticlavio conferito al suo successore, salvo un successivo e clamoroso ripensamento, condito di sospetti e poi accuse addirittura di golpismo consumato a livello europeo contro di lui.

Draghi e Meloni d’archivio

         Col tiro incrociato fra un Borghi esplicito sino alla maleducazione istituzionale e un Salvini recuperato all’ultimo momento almeno al “rispetto”, ripeto, per il presidente della Repubblica al suo secondo mandato, il rapporto italiano col processo d’integrazione europeo è tornato indietro rispetto ai tempi di Mario Draghi a Palazzo Chigi. E alla cordiale staffetta fra lui e Giorgia Meloni nell’ottobre del 2024.

La vignetta del Corriere della Sera

         C’è solo da sperare che la situazione migliori dopo il voto di sabato e domenica prossimi, una volta usciti dall’animosità, anzi tossicità della campagna elettorale, che ha diviso gli schieramenti fra di loro e al loro interno, multipolari o bipolari che siano o diventino. La ricomposizione del quadro, diciamo così, per ora è solo nella fantasia ironica e acrobatica di Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera.

Eccezionale testimonianza d’accusa al falso mito di “Mani pulite”

Dal Corriere della Sera di ieri

Finalmente. A 32 anni di distanza dalle falsamente mitiche “mani pulite”, destinate a travolgere la cosiddetta prima Repubblica, l’onestissimo post-comunista Giovanni Pellegrino -che all’epoca era presidente della giunta delle immunità del Senato, dove approdavano le richieste della magistratura contro i politici indagati per corruzione, concussione eccetera eccetera- ha raccontato in una intervista al Corriere della Sera la verità, tutta la verità nei dettagli politici più clamorosi. Sbagliando però il finale ottimisticamente dicendo che il piano teso a imporre “il primato del potere giudiziario”, come lui lo ha chiamato, non si è realizzato per merito, iniziativa e quant’altro della stessa magistratura. Che avrebbe saputo trovare al suo interno la forza di resistere alle spinte estremistiche.

Il racconto dell’ex senatore Giovanni Pellegrino

         “La magistratura -ha detto, in particolare, Pellegrino- è un potere diffuso. Ognuno fa come gli pare. Infatti la Procura di Brescia colpì Di Pietro, che aveva ambizioni politiche”, solo in parte realizzate diventando “ministro di Prodi e poi leader di partito”, come lo ha interrotto l’intervistatore Francesco Verderami. “Ma la sua ambizione -lo ha interrotto a sua volta Pellegrino- era diventare presidente del Consiglio”.

         “Se penso a quegli anni -ha continuato e insistito Pellegrino- mi viene da piangere. Mani pulite non realizzò il suo disegno ma distrusse il sistema dei partiti. Avevo stima dei magistrati di Milano. Borrelli lo guidava benissimo. Ma il loro principio, che si basava sul primato del potere giudiziario, era in contrasto con il disegno costituzionale”.

Massimo D’Alema

         Le prime preoccupazioni contro quel “principio” sovversivo avvertito dalla sua postazione parlamentare Pellegrino le espose ad un Massimo D’Alema che conosceva già bene e dal quale forse si aspettava comprensione. Ma D’Alema lo deluse parlandogli di una “rivoluzione” ormai avviata, per la quale si potevano pagare anche i prezzi degli eccessi: dalle manette ai processi surreali. E allo scambio per corruzione di qualsiasi finanziamento illegale o irregolare: un fenomeno praticato da tutti -ma proprio tutti- i partiti in campo, compreso quello di Pellegrino e D’Alema, ha spiegato e raccontato lo stesso Pellegrino.  

Magistrati di “Mani pulite” in galleria a Milano

         Poi, quando in un momento stagionale di riposo o distrazione una magistrata a Milano -la famosa Tiziana Parenti, destinata anch’essa ad un’esperienza politica, ma sul versante opposto a quello di D Pietro- prese di mira il segretario amministrativo del Pds-ex Pci, D’Alema si svegliò da quella specie di sonno in cui, secondo Pellegrino, lo aveva messo “Luciano”, cioè Violante, dicendogli che il già partito comunista sarebbe stato praticamente risparmiato dalla rivoluzione giudiziaria. Egli spronò quindi Pellegrino a parlare e a muoversi contando su di lui, che non poteva esporsi più di tanto in prima persona avendo sulle spalle il fiato giustizialista dell’allora segretario del partito, Achille Occhetto.

Da Libero

         Ho avuto l’occasione di conoscere Pellegrino quando gli toccò di presiedere la commissione parlamentare di indagine sulle stragi impunite. E ci trovammo d’accordo nella valutazione di alcuni misteri -rimasti ancora tali- della tragedia di Aldo Moro, che fu possibile anche per la capacità avuta dal terrorismo di infilarsi nelle maglie dello Stato. Intuisco pertanto quanto possa essere costato umanamente, oltre che politicamente, all’ex parlamentare della sinistra parlare finalmente di “mani pulite” come ha fatto col Corriere. Cioè lamentando e sotto certi aspetti denunciando limiti e colpe della sua parte politica in quella che io considero -diversamente da lui- la resa finale della politica ad una magistratura avida di potere. Una magistratura che -credo, non a caso- attraverso i suoi organismi sindacali sostenuti dal solito e solido schieramento mediatico sta respingendo come una “vendetta” e un attacco alla Costituzione la riforma della giustizia appena proposta dal governo.

Essa osa -pensate un po’- tentare davvero, questa volta che ci sono i numeri parlamentari per farlo, di separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. E applicare il principio del “processo giusto” introdotto nella Costituzione nel 1999: un processo “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a giudice terzo e imparziale”. Ciò che manca, direi, alla sconfitta vera del progetto di “mani pulite” di imposizione del potere giudiziario su ogni altro, a cominciare dalla politica per finire con l’informazione. Sì, anche l’informazione, che ora scimmiotta la resistenza di certa magistratura alla prospettiva di rientrare nei ranghi immaginati dai padri costituenti.

Il tempo probabilmente non è trascorso invano.

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La festa della Repubblica guastata dall’ormai solita Lega di Salvini

Mattarella ai prefetti

La festa della Repubblica è stata rovinata dalla Lega, esasperata in una rivendicazione di sovranismo nazionale a pochi giorni dalle elezioni -sabato e domenica prossimi- per il rinnovo del Parlamento europeo. Un Parlamento nel quale il Capo dello Stato Sergio Mattarella, parlando ai prefetti, aveva visto e indicato “la sovranità” -testuale- della “più ampia comunità dell’Unione Europea cui abbiamo deciso di dar vita con gli altri paesi liberi del continente”. Un’estensione interpretativa -ha cercato di spiegare il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda- dell’articolo 11 della Costituzione, che prevede “limiti alla sovranità” quando si aderisce a organizzazioni internazionali finalizzate alla pace.

Salvini e Borghi d’archivio

         Il senatore leghista Claudio Borghi, non nuovo a sortite sovranistiche e sofferente -diciamo così- sin dalla creazione dell’euro, ha diffuso un tweet contro Mattarella prospettandone le dimissioni “se pensa davvero -ha scritto- che la sovranità sia dell’Unione Europea e non dell’Italia”.

Da Repubblica

         Intervistato da Monica Maggioni, della Rai, il leader leghista Matteo Salvini non si è lasciato trattenere dalla doppia carica di governo che ricopre come vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture. Pur con l’aria di non avere letto il tweet dell’amico e collega di partito, ed evitando di parlare pure lui di dimissioni di Mattarella, ha sostanzialmente ripetuto concetti e proteste di Borghi sull’eccesso, diciamo così, di sovranità europea in cui sarebbe incorso il presidente della Repubblica. “Rincara la dose”, ha titolato Repubblica.

I vertici dello Stato alla parata del 2 giugno

         Alle opposizioni, ma anche a componenti della maggioranza di governo come la Forza Italia del vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, non è parso vero di potere spargere benzina sul fuoco, o immergere il cucchiaio nella brodaglia. E di contribuire così anche loro a guastare la festa della Repubblica appena conclusasi con la parata militare ai Fori Imperiali e le frecce tricolori svettanti nel cielo di Roma pur disturbato dalle nuvole. Che sono state niente rispetto a quelle politiche addensatesi sulla parte finale di questa lunghissima campagna elettorale cominciata ben prima del suo inizio formale.

Dal Corriere della Sera

         La premier Giorgia Meloni, alla quale il Corriere della Sera ha attribuito una “richiesta di marcia indietro” a Salvini, avrebbe fatto volentieri a meno di questa “bufera”, come ha titolato lo stesso Corriere. Ma le è toccata anche questa ciliegina tossica sulla torta del voto del’8 e 9 giugno. Si vedrà se e con quali effetti sull’affluenza alle urne e sul risultato di ciascun partito, di maggioranza e di opposizione, in una competizione a sistema completamente proporzionale.

Amintore Fanfani

         Ai suoi tempi Amintore Fanfani invitava perentoriamente e toscanamente i suoi amici di partito a coprirla quando la facevano grossa. Chissà se la Meloni lo sa  ed è in grado, o le viene voglia, di imitarlo in romanesco. 

La Meloni non si diverte ma neppure si annoia a Palazzo Chigi e dintorni

Da Repubblica

         Neppure la festa della Repubblica ha attenuato l’ossessione di un certo antifascismo nei riguardi di Giorgia Meloni ospite di Sergio Mattarella al Quirinale, fra saloni e giardini. Stefano Cappellini, che evidentemente contende sulle pagine di Repubblica, quella di carta, a Massimo Giannini il primato dell’avversione alla premier, ne ha raccontato e commentato così la presenza, partecipazione e quant’altro alla festa sul Colle: “In fondo, una Repubblica l’aveva creata già Lui, Repubblica sociale italiana, Rsi, e bastò cambiare una lettera per avere il partito madre, o padre, di Fdi”, cioè dei fratelli d’Italia.

Meloni al comizio in Piazza del Popolo

         “Lui” naturalmente è Benito Mussolini. La “lettera” cambiata è la M -sempre come Mussolini- che avrebbe consentito il passaggio dalla Rsi alla sigla del Movimento Sociale: Msi. Tutto torna nella immaginazione e quant’altro di Cappellini. Che non si è lasciato distrarre neppure dall’abito appena indossato dalla Meloni, correndo  alla festa al Quirinale, per dimenticare la tenuta di combattimento, diciamo così, lasciata in Piazza del Popolo, sempre a Rona. Dove la premier aveva  arringando la folla degli elettori del voto europeo di sabato e domenica prossimi. Un comizio nel quale Cappellini è riuscito a intravvedere “il manganello, solo dialettico, per carità”. Il manganello evidentemente avvertito, sempre metaforicamente, nell’urlo levatosi sotto il Pincio dalla Meloni verso la lontanissima segretaria del Pd Elly Schlein per farla dissociare almeno dal candidato della sinistra alla presidenza della nuova commissione europea che aveva appena negato alla premier italiana il diritto di sentirsi democratica.

Elly Schlein

Niente. Elly non solo non l’ha difesa- come non difese la Meloni dalla “stronza”, “stracciarola” eccetera affibbiate a suo tempo alla premier dal governatore piddino della Calabria Vincenzo De Luca- ma ha aggiunto di suo l’accusa alla rivale politica  di “togliere la libertà” agli italiani, tra premierato, separazione delle carriere giudiziarie e altro. E’ l’antifascismo, bellezza.

Dal Corriere della Sera

         Appartiene un po’ a questo filone ossessivo anche l’ironica domanda rivolta alla Meloni, proprio nei giardini del Quirinale, da un apparentemente spiritoso Francesco Rutelli: “Ti diverti?”, evidentemente a Palazzo Chigi e dintorni. E lei: “Non mi annoio, ma tra un non mi annoio e un mi diverto ne passa”.

Francesco Rutelli

Non si annoiava neppure Rutelli quando era sindaco di Roma e poi vice presidente del Consiglio e ministro di Romano Prodi e infine cofondatore del Pd. Dal quale i post-comunisti lo fecero scappare, senza più farlo tornare indietro, quando decisero di fare di quel partito solo o soprattutto la prosecuzione del Pci. Fu troppo anche per Rutelli, di provenienza o formazione radical-pannelliana.

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Il curioso antifascismo di chi rimpiange il codice Rocco fascistissimo

Da Libero

Fra i morti evocati nelle polemiche sulla riforma costituzionale della giustizia appena varata dal governo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, e di Carlo Nordio in via Arenula, ce n’è uno è sfuggito ai titoli dei giornali.  Che sono stati tutti concentrati -nel bene e nel male- su Silvio Berlusconi, Bettino Craxi, Giovanni Falcone e Licio Gelli, in ordine semplicemente alfabetico, senza voler fare torto a nessuno di loro, e tanto meno metterli davvero insieme.

Pier CamilloDavigo

         Pier Camillo Davigo -sì, proprio lui, il “dottor Sottile” del pool milanese mani pulite del 1992, come lo definivano i colleghi ammirati della sua preparazione, poi spinto da circostanze più o meno diaboliche dall’altra parte del bancone della giustizia come imputato- sta tentando inutilmente di trascinare nel processo alla riforma anche il compianto Giuliano Vassalli. Vi ha tentato -se non mi sono sfuggiti altri interventi- prima sul Fatto Quotidiano e poi sul Corriere della Sera con un’intervista in cui si è, fra l’altro, contrapposto al collega di un tempo Antonio Di Pietro. Al quale tuttavia, pur dissentendo dalla valutazione favorevole alla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, egli ha riconosciuto la “ragione” quando contesta i richiami a Berlusconi e Craxi per liquidare una riforma che sarebbe “sbagliata di suo”.

Davigo e D Pietro d’archivio

Già in questo però Davigo si contraddice perché agli altri morti lui, nel tentativo di demolizione del progetto governativo, ha sostanzialmente aggiunto o persino sovrapposto Vassalli, appunto Dalla cui riforma del processo penale, entrata in vigore nel 1989, quando Vassalli era ministro della Giustizia, prima che passasse alla Corte Costituzionale, sarebbe nato un lungo elenco di inconvenienti. Chiuso per ora dalla prospettata separazione delle carriere dei magistrati del giudizio e dell’accusa. Chissà cos’altro dovremmo ancora aspettarci.

         Fra gli inconvenienti della riforma della buonanima di Giuliano Vassalli ci sarebbe da mettere, sempre secondo Davigo, la correlata modifica dell’articolo 111 della Costituzione. Che dal 1999 parla di “giusto processo regolato dalla legge”, da svolgersi “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”, e di “ragionevole durata”.

Carlo Nordio

         Il processo precedente a questo articolo della Costituzione e alla riforma Vassalli del 1989, come ricorda spesso Carlo Nordio aggiungendo anche la memoria della medaglia della Resistenza a Vassalli, era quello disciplinato sotto il fascismo nel 1930 dal giurista Alfredo Rocco.

Alfredo Rocco

          Da tutto ciò si deve dedurre, se la logica ha ancora un senso, un valore, chiamatelo come volete, che l’antifascismo militante, secondo il quale la Meloni ci starebbe riportando al fascismo anche con la separazione delle carriere giudiziarie, oltre che col premierato e tutto il resto, è semplicemente impazzito. Esso dimentica che l’indipendenza, l’autonomia e quant’altro della magistratura minacciate ora dalla Meloni e dalle sue squadracce in nuce, tra Parlamento e piazze, tra sberleffi e comizi, costituiscono un’eredità lasciata alla Democrazia e alla Repubblica, con le dovute maiuscole, dal fascistissimo codice Rocco.

         Avrei ancora altro da scrivere, ma non riesco ad andare oltre, scusandomi col direttore e col pubblico di questa brevità d’intervento, perché in preda ad una incontenibile voglia mista di riso e di sdegno, naturalmente antifascista. Mi chiedo se sia troppo provocatorio un invito alla riflessione all’agguerritissima associazione nazionale -e combattentistica, direbbe Sabino Cassese- dei magistrati.

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