La guerra della politica al dizionario della lingua italiana

Da Libero

Fa in fondo parte della quasi terza guerra mondiale a pillole, come dice il Papa, anche quella che la politica italiana sta conducendo contro il dizionario in una catena di ossimori.

         Abbiamo una destra dichiaratamente conservatrice, anche nelle parti moderate e non “estreme” immaginate a Berlino dal caudicante cancelliere Sholz, che felicemente innova.

Giorgia Meloni

         Al Senato si è appena consumato il primo dei quattro passaggi parlamentari della riforma della Costituzione che introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Come si eleggono da anni i sindaci dei Comuni e i presidenti delle Regioni senza che né gli uni né le altre siano uscite dalla democrazia.

         Alla Camera è stata approvata definitivamente con legge ordinaria l’attuazione delle cosiddette autonomie differenziate regionali introdotte nel 2001 nella Costituzione dalla sinistra, che corteggiava la Lega di Umberto Bossi sul terreno del federalismo per cercare di impedirne il ritorno all’alleanza con Silvio Berlusconi. Dalla quale era riuscito a sfilarla alla fine del 1994 l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, per niente rassegnato alla calma dopo avere cercato inutilmente di trascinare nella lotta all’allora presidente del Consiglio il quasi vertice della Chiesa. Ne ha appena dato conferma, nel silenzio assordante e imbarazzante, oltre che imbarazzato, di ciò che ancora rimane -cioè parecchio- della sinistra di allora ammantatasi all’alba della seconda Repubblica nei panni dichiaratamente progressisti.

         I progressisti, appunto, ai quali fu iscritto d’ufficio nel 2020 il grillino Giuseppe Conte diventandone addirittura il “punto più avanzato” per dichiarazioni e interviste intrecciatedel segretario del Pd Nicola Zingaretti e del suo “filosofo” di riferimento Goffredo Bettini; i progressisti, dicevo, vogliono adesso andare non avanti ma indietro rispetto alla riforma costituzionale del 2001. E, rovesciandosi addosso secchiate di liquame politico, dipingono la Repubblica delle regioni da loro stessi disegnata 23 anni fa come destinata alla disgregazione, affondata nel disordine e via infernando. Da Inferno, per quanto Papa Francesco ottimisticamente lo immagini da qualche tempo sgomberato.

Enrico Berlinguer

         Non è la prima volta, a dire la verità, che i progressisti italiani hanno il passo del gambero Già nella prima, ormai lontana prima Repubblica ghigliottinata dalla magistratura ribaltando i rapporti con la politica fissati dai costituenti, i progressisti alla Berlinguer, tanto celebrato in questi giorni, scambiarono la Costituzione per un fortino assediato da Bettino Craxi con i suoi progetti di riforma istituzionale. E pure Craxi entrò nel girone dei reazionari, come prima di lui un vecchio campione dell’antifascismo e dell’antifranchismo quale il repubblicano Randolfo Pacciardi.  Che aveva osato raccogliere e rilanciare quelle tracce di presidenzialismo già affiorate nelle discussioni all’Assemblea Costituente. Il povero Pacciardi ne morì quasi di crepacuore, contestato per primo dal leader della sua parte o area politica Ugo La Malfa.

         Neppure la Malfa -pace all’anima sua- scherzava nella guerra al dizionario. Anzi, al buon senso.  Ricordo lo sgomento che mi procurò personalmente nel 1973, rimediando un mezzo insulto quando osai contestaglierlo in un corridoio della Camera.

         Erano i mesi e i giorni in cui il governo della “centralità” Andreotti-Malagodi, come lo chiamava l’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani avendolo fatto realizzare dopo l’uscita dei socialisti dal centrosinistra a causa dell’elezione di Giovanni Leone al Quirinale, veniva spinto verso la crisi da Amintore Fanfani nella Dc e da La Malfa, appunto, fuori dalla Dc.

Ugo La Malfa

         Proprio La Malfa, precedendo formalmente Fanfani che stava scaricando il suo ex delfino Forlani dietro le quinte, notificò lo sfratto ad Andreotti rompendo la maggioranza sulla vertenza del cosiddetto codice postale. Che non era quello da voi giovani forse immaginato pensando ai numeri che precedono le città nella corrispondenza, ma quello allora in discussione anche per  introdurre la televisione a colori. Alla quale La Malfa, sostenuto dal Pci, era contrario per ragioni di austerità, temendo gli sperperi che gli italiani avrebbero fatto cambiando i televisori. Sullo sfondo c’erano formalmente i contrasti sul sistema francese -Secam- o tedesco – Pal- da adottare sul piano tecnico. Diavolo di un progressista, La Malfa, col suo preferito bianco e nero neppure iuventino. La Malfa e i comunisti che gli andavano dietro pur di ottenere una crisi di governo.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 23 giugno

Una rimozione sorprendente

         Ma che succede a facebook? Un mio articolo sulla cena recente dei vertici europei a Bruxelles in apertura della partita per i nuovi assetti dell’Unione è stato rimosso ripetutamente, ogni volta che ho cercato di condividerlo. Non andava bene il titolo ispirato al famoso dramma di Sem Benelli e al film omonimo della cena delle beffe? Incredibile.

Fra il primo sì del Senato al premierato e l’ultimo della Camera alle autonomie differenziate

Titolo di Avvenire

         C’è chi si rassegna su posizioni critiche o preoccupate, espresse di recente dal presidente della Conferenza Episcopale Italiana Matteo Zuppi, e titola realisticamente su Avvenire “Riforme al dunque” di fronte al primo sì del Senato al cosiddetto premierato e all’ultimo sì, definitivo, della Camera alle cosiddette autonomie differenziate delle regioni arrivato al termine di una seduta fiume imposta dall’ostruzionismo delle opposizioni.

Titolo di Repubblica

         C’è invece chi non si rassegna e sale metaforicamente in montagna titolando, come la Repubblica di carta, sul “Fronte dell’Opposizione”, al maiuscolo e al singolare, radunato dalla segretaria del Pd Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratojanni, Angelo Bonelli ed altri volenterosi nella piazza romana di ripiego nella protesta – intitolata ai Santi Apostoli- rispetto a quelle maggiori del Popolo e di San Giovanni.

In Piazza Santi Apostoli a Roma

         Questo spettacolo delle Camere che legiferano su proposta del governo e della maggioranza usciti dalle urne del 2022, e confermati da quelle del 9 giugno scorso per le europee, e delle piazze più o meno larghe o lunghe come il campo dell’aspirante alternativa, che si avvolgono nelle bandiere del no e della paura, sembra ormai destinato ad accompagnare la legislatura sino al suo compimento ordinario, nel 2027.

Il voto della Camera sulle autonomie

I primi 109 si del Senato all’elezione diretta del presidente del Consiglio, ferma restando quella parlamentare del presidente della Repubblica, e i 172 della Camera alle autonomie differenziate delle regioni, messe in Costituzione -non dimentichiamolo- dalla sinistra nel 2001 per travestirsi da federalista agli occhi di una Lega che stava tornando all’alleanza con Berlusconi, sono numeri reali. Quelli vantati dalle opposizioni in piazza, o pensando ai referendum da promuovere contro il governo, sono immaginari, ipotetici e quant’altro.

Mattarella ieri in Moldavia

         Il Paese nel frattempo dovrà fare i conti, senza contare -scusate la ripetizione- sulle opposizioni, neppure su quelle ombratili dei terzopolisti mancati di Carlo Calenda e Matteo Renzi, troppo impegnati a farsi la guerra tra loro, con i problemi che l’assediano. A cominciare dalle guerre ai confini o dentro l’Europa, come quella dell’Ucraina, su cui non passa quasi giorno senza che faccia sentire la sua voce il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che le opposizioni ritengono minacciato dal premierato. Una voce non certo ostile alla maggioranza com’era quella trent’anni fa, proprio di questi tempi, di Oscar Luigi Scalfato che convocava al Quirinale le maggiori autorità della Chiesa non per pregare insieme ma per chiedere ad esse aiuto contro il governo Berlusconi da lui stesso nominato a maggio. Una storia molto poco commendevole che uno dei convocati o invitati -il cardinale Camillo Ruini- ha appena confermato al Corriere della Sera nel silenzio assordante, e ancora più clamoroso, delle opposizioni di allora e di adesso. Che tristezza, per non dire scandalo.

Ripreso da http://www.startmag.it

 

La cena delle beffe a Bruxelles per i nuovi assetti europei

Si è rivelata un po’ la cena delle beffe, parafrasando l’omonimo dramma di Sem Benelli e il film derivatone da Alessandro Blasetti del 1942, quella con la quale si è aperta a Bruxelles la partita sui vertici apicali dell’Unione Europea dopo le elezioni del 9 giugno. E’ successo tutto e niente in un clima di tensioni e manovre, tutti ben sapendo che siamo solo agli inizi.

Dalla Repubblica

         La difficoltà di una diversa, definitiva lettura del confronto conviviale fra i capi di Stato e di governo sta nella valutazione opposta, per esempio, di due giornali italiani che pure fanno parte dello stesso gruppo editoriale di John Elkann. “La ritirata di Meloni”, ha titolato la Repubblica. “La sfida di Meloni”, ha titolato La Stampa.

Dalla Stampa

         La sfida di Meloni è quella ai suoi interlocutori di chiudere un accordo teorizzato, in particolare, dal negoziatore polacco dei popolari per un bis di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles facendo a meno appunto della Meloni. E affrontando su queste posizioni il voto del Parlamento europeo a luglio. Dove la prima a temere di perdere è proprio la presidente uscente della Commissione, consapevole come uno dei suoi predecessori, l’italiano Romano Prodi, che il voto segreto a Strasburgo, come spesso nel Parlamento italiano, è quello più della vendetta che della disciplina, o della riconoscenza.

         Al passaggio parlamentare di Strasburgo si arriverà peraltro dopo altri vertici europei, ma soprattutto dopo la soluzione del giallo francese, chiamiamolo così, diffuso nelle librerie e nelle piazze dallo stesso presidente Emmanuel Macron. Che, sconfitto nelle europee dalla destra, ha cercato di contenerne gli effetti sciogliendo l’Assemblea Nazionale e rimandando i connazionali alle urne a tamburo battente, anche a costo di dovere poi nominare un presidente del Consiglio di destra e conviverci per il resto del suo mandato.

Elly Schlein al Gay Pride

         Ma c’è un giallo anche a Berlino, dove il cancelliere considera di estrema destra in Europa la Meloni dopo essere stato praticamente battuto dall’estrema destra, davvero, in Germania. La premier italiana invece non ha gialli da sfogliare in casa, disponendo di una maggioranza sicura, per quanto facile a cadere nelle provocazioni d’aula parlamentari delle opposizioni che sventolano contro il governo bandiere tricolori prima di portarle in piazza. Dove oggi, per esempio, la segretaria del Pd Elly Schlein ritorna con Giuseppe Conte e altri amici contro autonomie differenziate e premierato, dopo essere salita festosamente la settimana scorsa sui carri del Gay Pride.

Dal Corriere della Sera

         Il Conte in piazza con la Schlein è lo stesso al quale Beppe Grillo in uno spettacolo non so se alternativo o di contorno ad un suo incontro con lui a Roma, ha rimproverato di avere preso nelle elezioni europee “meno voti di Berlusconi da morto”. E -aggiungo- di essere stato molto più che doppiato dal Pd: 9,9 per cento contro il 24 e oltre.   

Da Scalfaro a Mattarella al Quirinale, da Berlusconi a Meloni a Palazzo Chigi

Dal Dubbio

Certo, dopo la conferma datane in una intervista al Corriere della Sera dal cardinale Camillo Ruini, si può ben dire che Oscar Luigi Scalfaro la fece grossissima invitandolo a pranzo nell’estate del 1994 con l’allora Segretario di Stato del Vaticano Angelo Sodano e con monsignor Jean Luis Turan, Segretario dei rapporti della Chiesa con gli Stati, per chiedere di essere da loro “aiutato -testuale- a far cadere” il governo formato il 10 maggio da Silvio Berlusconi. Un governo nominato dallo stesso Scalfaro, e poi regolarmente fiduciato dalle Camere. Ma nominato tanto malvolentieri che il Capo dello Stato aveva consegnato al presidente del Consiglio una lettera inusuale in cui erano praticamente indicate le linee politiche generali alle quali avrebbe dovuto attenersi.

         Chiunque altro forse avrebbe rifiutato un’investitura del genere ma Berlusconi, pur avendo vinto le elezioni politiche proponendosi agli elettori proprio come capo del governo, aveva accettato, su suggerimento del suo braccio destro, e sinistro, Gianni Letta, consigliatogli d’altronde dallo stesso Scalfaro come principale, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nella consapevolezza o persino stordimento di una così eccezionale esperienza istituzionale come la sua: un esordiente politico, nel senso letterale della parola, per quanto già imprenditore di grande successo, arrivato direttamente al vertice del governo.

         Il cardinale Ruini, oggi novantatreenne, era allora -già dal 1991- presidente della conferenza episcopale italiana. E tale sarebbe rimasto sino al 2007. La richiesta di Scalfaro superava per novità, clamore e quant’altro la sorpresa da lui riservata all’esordio da presidente della Repubblica, nel 1992, estendendo le consultazioni per la formazione del governo -il primo della legislatura nata dalle elezioni del 5 e 6 aprile- al capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli. Al quale egli aveva chiesto se nelle indagini in corso sul finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica risultasse già coinvolto anche il leader socialista Bettino Craxi, che democristiani e alleati della maggioranza avevano deciso di proporgli come presidente del Consiglio.

Non si è mai conosciuta bene la risposta di Borrelli, ma si ricorda bene la decisione dell’allora capo dello Stato di negare a Craxi il ritorno a Palazzo Chigi, dove già era stato fra il 1983 e il 1987, quando lo stesso Scalfaro gli era stato fedele ministro dell’Interno. Tanto fedele, come ha ricordato lo stesso cardinale Ruini nell’intervista al Corriere della Sera, da avere rifiutato l’offerta dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, nel 1987, di sostituirlo al vertice del governo. Il che lo avrebbe poi aiutato ad arrivare al Quirinale nel 1992 con l’appoggio in qualche modo riconoscente del leader socialista.

Il cardinale Ruini con Berlusconi

Per tornare alla clamorosa richiesta del 1994 di un aiuto della Chiesa a far cadere il governo Berlusconi da poco formato, Ruini ha raccontato: “La nostra decisione di opporci a quella che ci appariva come una manovra -al di là della indubbia buona fede di Scalfaro- fu unanime”.  E fu preceduta, ha raccontato ancora Ruini, da “un silenzio imbarazzato”.  Berlusconi per le eminenze invitate al Quirinale poteva anche essere un peccatore, come tanti altri fedeli bisognosi della confessione e dell’assoluzione, ma non era entrato in politica e conquistato il governo avendo “fini eversivi”, come ha spiegato Ruini al Corriere aggiungendo: “I problemi della Repubblica semmai erano altri”.

A questo punto si può forse dire che anche oggi i problemi della Repubblica sono altri rispetto a quelli evocati dalle opposizioni più accanite, che vedono la Costituzione minacciata dalle riforme proposte dal governo di Giorgia Meloni. E ogni tanto mostrano, a dir poco, di aspettarsi da Sergio Mattarella al Quirinale un’azione di contenimento, se non di contrasto anche clamoroso, non ravvisabile solo dietro qualche iniziativa, parola o silenzio. Ma Mattarella non è Scalfaro, per fortuna della Meloni. E la Chiesa è è cambiata meno di quanto si creda.

Papa Francesco e Giorgia Meloni al G7

Anche se al vertice della Cei c’è il cardinale Matteo Zuppi, apparso recentemente preoccupato per l’elezione diretta del presidente del Consiglio proposta dal governo, e per le autonomie differenziate in arrivo a livello regionale, l’argentino Papa Francesco, come il papa polacco Giovanni Paolo II con Berlusconi, ha un rapporto per niente cattivo con la Meloni. Alla quale ha appena accordato  il momento forse più alto e significativo del “suo” G7, in Puglia. Cui è stato il primo Pontefice invitato e accorso nella storia di questo tipo di summit internazionale.

Pubblicato sul Dubbio

L’appetito tutto politico della Meloni al vertice conviviale di Bruxelles

La guerra in Ucraina

Al vertice conviviale europeo di stasera a Bruxelles sarà tutto politico l’appetito di Giorgia Meloni, reduce dalla vittoria elettorale del 9 giugno, mancata invece agli altri maggiori governi continentali. E poi dalla presidenza di un G7 particolarissimo anche per la prima partecipazione di un Papa e dalla conferenza svizzera di pace, augurabile, dopo più di due anni di guerra. in Ucraina. Dove Putin pensava di liquidare in quindici giorni l’odiato Zelensky e si è invece infilato in un’avventura dalla quale neppure lui sa come uscire, al netto della sua spavalderia, delle sue minacce anche nucleari e dei diversivi che alimenta in altre parti del mondo: da Gaza all’Africa e ai Caraibi, dove i sommergibili russi sono tornati come ai tempi di Kruscev e di John Kennedy.

         L’appetito politico della Meloni non è tanto di posti quanto di ruoli nei nuovi assetti dell’Unione Europea dopo il rinnovo del Parlamento di Strasburgo e il monito da lei già rivolto ai suoi interlocutori dalla conferenza stampa conclusiva del G7, in Puglia, a tenere conto delle “competenze” italiane e delle novità emerse dal voto del 9 giugno. Da cui è uscito alquanto compromesso il tradizionale e privilegiato asse franco-tedesco nella conduzione dell’Unione. La Francia è rimasta senza governo col ricorso di Macron alle elezioni anticipate dopo la sconfitta procuratagli dalla destra di Marine Le Pen. La Germania ha un cancelliere in difficoltà solo apparentemente minori del presidente francese.

Dal Foglio

         Nella “pazzia europea”, come l’ha chiamata Il Foglio, la “sorpresa” è “la normalità della muova Italia” governata appunto dalla Meloni. Che, per quanto ancora relegata all’”estrema destra” dal cancelliere tedesco, rimediando da Antonio Tajani la collocazione ritorsiva  all’”estrema sinistra”, sa di poter giocare una buona partita a Bruxelles. Forse anche oltre l’obbiettivo, il traguardo e quant’altro di “un commissario forte e la vice presidenza” della Commissione indicato proprio oggi in una intervista al Corriere della Sera da Antonio Tajani. Che conosce bene Bruxelles per essere stato commissario, vice presidente dell’esecutivo e presidente del Parlamento europeo. E ha ereditato da Silvio Berlusconi anche la partecipazione della sua Forza Italia al maggioritario Partito Popolare Europeo. Non a caso nelle scorse settimane, quando la conferma della presidente uscente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, proposta dal Ppe, sembrava a rischio, anche Tajani è entrato nella partita. Almeno mediaticamente, pur cercando di tenersene fuori con le parole.  

Dal Fatto Quotidiano

         Il protagonismo acquisito dalla Meloni a livello internazionale accentua in Italia le difficoltà degli avversari, spingendoli a provocazioni parlamentari, come quella dei grillini riuscita con disordini alla Camera, e alla piazza. Dove la segretaria del Pd si muove ora con più disinvoltura del suo concorrente a sinistra Giuseppe Conte, costretto ad ammettere sul Fatto Quotidiano la propria “sconfitta” nelle urne.

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Quella volta che Scalfaro chiese aiuto a Ruini per rovesciare Berlusconi

Da Libero

Imperdibile l’intervista nella quale il cardinale Camillo Ruini, 93 anni compiuti a febbraio, ha raccontato al Corriere della Sera passaggi clamorosi della sua lunga esperienza -dal 1991 al 2007- alla presidenza della conferenza episcopale italiana, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica.

         Toccò a lui, per esempio, raccogliere la richiesta del laicissimo presidente del Senato Giovanni Spadolini di dissuadere gli amici democristiani, che nel 1981 lo avevano mandato a Palazzo Chigi, tre anni prima che vi arrivasse Bettino Craxi, dalla decisione di rinunciare al fortunato, secondo lui, nome del loro partito per tornare a quello sturziano, ormai troppo lontano, di Partito Popolare Italiano.

         Il povero Ruini, che era d’accordo con la lettura di uno storico peraltro di grandissima qualità come il suo interlocutore, ci provò ma inutilmente, neppure pronosticando a Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della Dc, non più del 15 per cento dei voti, uno in meno di quello che poi egli, dimettendosi immediatamente, avrebbe preso nelle urne del 1994.  I cui risultati portarono a sorpresa il politico esordiente Silvio Berlusconi direttamente alla guida del governo, sorpassando anche la “gioiosa macchina da guerra” allestita a sinistra da Achille Occhetto.

L’intervista del cardinale Ruini al Corriere della Sera

         Della vittoria di Berlusconi il cardinale Ruini non so se fosse rimasto sorpreso pure lui, come Occhetto e Martinazzoli allora su fronti diversi, non ancora assemblati, ma di certo non allarmato. “Penso che Berlusconi -ha detto l’altissimo prelato a Francesco Verderami- abbia mostrato i suoi pregi e i suoi limiti, come tutti gli altri politici, ma che non abbia avuto in alcun modo fini eversivi. I pericoli per la Repubblica semmai erano altri”. Come lo sono, penso, anche oggi che la sinistra sta ripetendo contro il governo Meloni la campagna condotta a suo tempo contro chi osò batterla all’alba della seconda Repubblica.

         Sorpreso o non sorpreso che fosse stato dalla vittoria del Cavaliere, il cardinale Ruini dovette rimanere esterrefatto nel sentirsi invitato dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a prodigarsi dalla sua importante postazione episcopale a far cadere il primo governo di centrodestra.

         Invitato dall’intervistatore a dire se davvero nell’estate del 1994, come raccontato in un libro edito dallo stesso Corriere della Sera, Scalfaro lo avesse invitato a pranzo con il cardinale Angelo Sodano e monsignor Jean Louis Tauran per chiedere loro di essere “aiutato a far cadere il governo Berlusconi” raccogliendone un “silenzio imbarazzato”, Ruini ha testualmente risposto: “Effettivamente andò così. La nostra decisione di opporci a quella che ci appariva come una manovra -al di là della buona fede di Scalfaro- fu unanime”.  Manovra tentata da Scalfaro anche con Umberto Rossi, come raccontato dallo stesso leader leghista allora ancora alleato di Berlusconi, e riuscita. In effetti Bossi provocò la crisi entro l’anno, protetto dalla garanzia di Scalfaro che non ci sarebbero state elezioni rapidamente anticipate.

         “E pensare -ha raccontato ancora impietosamente Ruini- che Scalfaro era stato per me un grande amico. Rammento quando De Mita nel 1987 gli aveva offerto di diventare presidente del Consiglio, in opposizione a Craxi e con la benevolenza del Pci. Scalfaro allora era venuto da me e mi aveva detto che avrebbe rifiutato. “Fa bene”, avevo risposto. E infatti a Palazzo Chigi sarebbe poi andato Amintore Fanfani” per gestire le elezioni anticipate fortemente volute dall’allora segretario democristiano.

Oscar Luigi Scalfaro

         Fu quel rifiuto che cinque anni dopo procurò a Scalfaro, ancora fresco di elezione a presidente della Camera, l’appoggio fiduciario di Craxi alla sua elezione a capo dello Stato nell’emergenza politica e istituzionale creatasi con l’attentato mafioso di Capaci a Giovanni Falcone. Ma, una volta al Quirinale, oltre a negargli l’incarico di presidente del Consiglio, Scalfaro non rispose alle lettere con le quali Craxi gli segnalava la “severità senza uguali” -per ripetere un’espressione di Giorgio Napolitano dopo molti anni al Quirinale- praticatagli dalla magistratura di “Mani pulite”.

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Giorgia Meloni orgogliosa del “suo” G7, gli avversari per niente

Dal Fatto Quotidiano

         Dichiaratamente orgogliosa della conclusione del “suo” G7 ospitato in Italia, Giorgia Meloni non si è sottratta a quella conferenza stampa che secondo gli avversari lei detesterebbe per temperamento, per indole, per vocazione autoritaria, diciamo così. E ciò anche ora che persino sul solito Fatto Quotidiano hanno smesso nelle vignette di rappresentarla in nero in marcia su Roma, come i fascisti più di cento anni fa, e la propongono “in bragoni rosa”, declassando la marcia in “marcetta”. Che tuttavia avrebbe allungato il percorso per spingersi sino a Bruxelles. Dove la Meloni intende ottenere una maggiore o migliore presenza dell’Italia negli assetti di vertice dell’Unione Europea, ora che il Parlamento continentale è stato rinnovato con una maggiore presenza della destra.

L’editoriale della Stampa

         Uscita indenne anche dalle domande dei giornalisti, la premier si è procurata lo stesso trattamenti abrasivi, a dir poco. Nei quali si è distinta La Stampa, il giornale storicamente, geograficamente, familiarmente più vicino all’editore anche di altri quotidiani nipote del mitico e compianto Gianni Agnelli, Johnn Elkann. Che penso ne sarà rimasto sorpreso, avendo di recente cambiato il direttore di quel giornale sostituendo l’ipercritico Massimo Giannini col meno noto o esposto Andrea Malaguti. Il quale però ha sorpassato il predecessore con un editoriale dal titolo “L’euro-Meloni e l’inutile spettacolo di Borgo Egnazia”. Inutile, ripeto, per quanto vi abbia contribuito, il primo nella storia di questo evento, un Papa.

Dall’editoriale della Stampa

         Alla Meloni, come se ne fosse stata la responsabile, e non la vittima per l’incauto comportamento di parlamentari anche della sua parte politica caduti nelle ordinarie provocazioni parlamentari delle opposizioni, il direttore del giornale torinese ha rimproverato “un Parlamento svuotato delle sue funzioni e trasformato in ring da qualche selvaggio pagato dai contribuenti”. Come lo erano nel 1953 i senatori della sinistra che devastarono i banchi di Palazzo Madama e ferirono il presidente dell’assemblea nell’assalto ad una riforma della legge elettorale con premio di maggioranza liquidata come “truffa”. Che poi la sinistra avrebbe adottato, quando evidentemente le fece comodo.

Sempre dall’editoriale della Stampa

         Il direttore della Stampa ha voluto “rubare” il passaggio di un articolo della sua giornalista Flavia Perina, peraltro già direttrice del Secolo d’Italia, storica testata della destra italiana, per contestare la scelta di “un resort da vacanza” per un vertice internazionale “mentre il pianeta fa i conti con tre conflitti”. “Non dico -aveva scritto la Perina mandando Malaguti in brodo di giuggiole- che i Grandi dovessero andare a Yalta o in un convento. Ma un filo in più di gravitas avrebbe aiutato”.

         Se questo è diventato il livello della polemica, la Meloni può probabilmente continuare a dormire fra i classici due guanciali, tanto è evidente l’animosità preconcetta di chi la contesta. E non ne sopporta quasi fisicamente la presenza.  

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Ma chi si rivede: Mario Draghi, insignito del premio eurospagnolo Carlo V

Draghi col premier spagnolo Sanchez a Madrid

         Escluso dal G7 per mancanza di titoli, diciamo così, non essendo più fra i cosiddetti Grandi della Terra come semplice consulente della presidente uscente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, o dell’intera Commissione, sui temi della competitività comunitaria presente e futura, l’ex premier Mario Draghi si è goduta una giornata di celebrità in terra spagnola. Dove il Re Felipe VI lo ha insignito del prestigioso premio Carlo V istituito nel 1995 a testimonianza dello spirito europeista della Spagna. E il premier Pedro Sanchez lo ha ricevuto nel palazzo della Moncoa, a Madrid, sede del governo.

         In occasione del conferimento di questo premio -andato nelle edizioni precedenti, fra gli altri, a Khol, Gorbaciov e Merkel- l’ex premier italiano ha ribadito la sua convinzione della necessità di un potenziamento del processo d’integrazione europea contro ogni tentazione di protezionismi e atteggiamenti passivi “di fronte -ha detto- a chi minaccia la nostra prosperità”.

Emmanuel Macron

         Le voci, diciamo così, di una partecipazione di Draghi a quella specie di concorso dietro le quinte ad una delle postazioni di vertice dell’Unione dopo le elezioni europee, ormai svoltesi, sembravano indebolite – alla vigilia del G7 in Puglia e in vista del Consiglio Europeo post-elettorale- dalle difficoltà di quello che veniva considerato il suo maggiore sostenitore: il presidente francese Emmanuel Macron, peraltro amico personale. Che dopo la vittoria elettorale della destra francese proprio nelle europee di domenica scorsa non se la passa molto bene né a casa né fuori casa, per quanto cerchi di mostrarsi ancora sicuro di sé e di sorprendere tutti.  Egli ha spiazzato anche il presidente del Consiglio francese -ne esiste ancora uno- convocando elezioni anticipate in questo stesso mese, e aumentando di incognite la vigilia delle decisioni che dovranno essere prese sui nuovi vertici comunitari.

Il Papa e la Meloni al G7

         Guarda caso, proprio in questa vigilia il premio Carlo V ha quasi rimesso in pista, se mai ne fosse davvero uscito, l’ex premier italiano in quella che potremmo chiamare la corsa a Bruxelles. Che formalmente è estranea all’agenda del G7 in Puglia gestita dalla Meloni, avvolta ieri anche nel successo della partecipazione davvero eccezionale del Papa, per la prima volta nella storia di questo tipo di incontri internazionali. Ma figuratevi se fra gli ulivi pugliesi è potuta mancare l’attenzione a ciò che potrebbe accadere a breve al vertice dell’Unione, con la presidente uscente della Commissione, e candidata alla conferma, partecipe dell’evento. Sarà pure stato un argomento “filosofico”, come lo ha definito la premier italiana prima delle elezioni europee parlando proprio del connazionale Draghi, e suo predecessore a Palazzo Chigi, ai soliti giornalisti curiosi, ma -ripeto- difficilmente sarà mancato.

La Schlein spreca un pò la grazia elettorale delle europee

Da Libero

Che peccato, per lei. Mi riferisco a Elly Schlein, la giovane segretaria del Pd uscita personalmente e politicamente meglio dalle elezioni europee dopo Giorgia Meloni, tanto da averne ricevuto per telefono le congratulazioni.  O avergliele fatte, secondo altre versioni. Fa lo stesso. I rapporti fra le due ormai prime donne d’Italia sembravano usciti rafforzati. Una rivincita peraltro di entrambe sui maschietti o maschiacci che, anche all’interno dei loro schieramenti, ne avevano osteggiato sino a riuscirvi il confronto televisivo diretto allestito nella Rai dallo specializzatissimo Bruno Vespa.

         Portato a casa il suo miracoloso, per molti anche al Nazareno, 24 e rotti per cento di voti -per quanto inferiore di un punto alle previsioni formulate dal mio amico, e suo ammiratore, Paolo Mieli- e ridotte con pubblico compiacimento da due a un milione di schede contate nelle urne le distanze fra il suo Pd e il partito della premier, la Schlein poteva godersi finalmente un po’ di riposo e smontare metaforicamente le barriere di protezione che i suoi fans avevano allestito per difenderla da un insuccesso. O comunque da un risultato scarso rispetto alle aspettative o al limite di sicurezza immaginato attorno al 20 per cento, superiore di un punto a quel misero 19 lasciatole in eredità dal predecessore Enrico Letta.

Beppe Grillo a Roma

         Ma soprattutto la Schlein poteva godersi, naturalmente in un educato e anche un po’ opportunistico silenzio, le difficoltà del suo concorrente a sinistra Giuseppe Conte. Che ora, con quel misero 10 per cento neppure tondo cui ha ridotto il MoVimento 5 Stelle, si è autocondannato ad una estate di amare riflessioni. E forse anche di paura di qualche sortita di Beppe Grillo. Del quale si è scritto -senza che l’interessato o altri abbiano ancora smentito- che né l’8 né il 9 giugno si sia scomodato a votare, preferendo la Sardegna alla sezione elettorale ligure assegnatagli dall’anagrafe.

         Poteva, sempre la Schlein, godersi -ripeto- la crisi politicamente identitaria del suo concorrente sulla strada del cosiddetto campo largo, o soltanto giusto, dell’alternativa al centrodestra sognata in tutti i salotti televisivi da quel simpatico battutista Pier Luigi Bersani. E magari lavorare dietro le quinte a favore, come suggeritole in tante interviste da Goffredo Bettini, della nascita di qualcosa di nuovo, e di utile al Pd, in quell’area centrale dissestata da Carlo Calenda e Matteo Renzi, in ordine rigorosamente alfabetico: i due politici che si detestano di più fra di loro. Due che, se fossero omosessuali, potrebbero cinematograficamente allestire una coppia per una guerra competitiva con quella eterosessuale dei Roses che ci godemmo nel 1989, a costo di distrarci dalla caduta del muro di Berlino, annessi e connessi.

Giuseppe Conte

         Poteva tutto questo, ripeto, la segretaria del Pd. Che invece, spiazzando tutti, ha soccorso Conte difendendone il deputato Lorenzo Donno che ha conquistato le prime pagine dei giornali con quella bandiera tricolore nella quale voleva avvolgere per protesta, nell’emiciclo di Montecitorio, il ministro leghista Roberto Calderoli impegnato a spingere verso il traguardo finale il disegno di legge sulle cosiddette autonomie differenziate.

Lorenzo Donno

Ne è derivato tutto il casino -mi scuso per la parolaccia- che sapete e che ha conteso lo spazio mediatico persino al G7 preparato con tanta cura dalla Meloni facendo arrivare in Puglia i Grandi della Terra, con le dovute maiuscole, qualcuna magari immeritata. Un casino -ripeto- derubricato a “disordini” nei verbali parlamentari e    tradottosi in una squadra di undici giocatori sospesi per un certo tempo dal campo, compreso Donno. Che si è beccato quattro giorni di allontanamento dall’aula: in verità, espulso immediatamente dalla seduta movimentata con la sua bandiera ma portato via in carrozzella perché ferito in una rissa a partecipazione multipla, secondo gli accertamenti immediatamente disposti alla Camera dal presidente leghista Lorenzo Fontana. Che è stato implacabile nella severità, sino a comminare il massimo della pena -15 giorni di sospensione- al collega di partito Igor Iezzi.

Giacomo Matteotti

Non voglio mancare, per carità, di rispetto all’onorevole Donno, giunto al suo secondo e ultimo mandato parlamentare secondo le regole grilline, salvo modifiche dopo le riflessioni di Conte sul flop elettorale di domenica scorsa. Nato 38 anni fa a Galatina, in Puglia, e titolare -leggo su Google- di un’impresa specializzata in climatizzazione, riscaldamento ed energie rinnovabili, fedelissimo naturalmente di Conte, mi sembra esageratamente paragonato dalla Schlein, per quanto gli è successo alla Camera, al compianto Giacomo Matteotti nel centenario del suo discorso antifascista, sempre a Montecitorio, e del barbaro assassinio che ne seguì.

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