Meloni gioca di contropiede alla Camera sui nuovi assetti europei

Giorgia Meloni ha giocato di contropiede alla Camera  -per stare nel clima dei campionati europei di calcio in corso- replicando agli interventi nella discussione sulle sue comunicazioni di rito alla vigilia del Consiglio Europeo. Che si aprirà domani ed è stato proceduto da un accordo annunciato fra popolari, socialisti e liberali per confermare la tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles, far salire il portoghese Antonio Costa alla presidenza del Consiglio e destinare l’estone Kaja Kallas al posto di commissaria per gli affari esteri e la sicurezza.

Marianna Madia a Montecitorio

         A difendere e motivare questa intesa era intervenuta nell’aula di Montecitorio l’ex ministra del Pd Marianna Madia richiamandosi alla forza e alla logica dei numeri derivati, secondo lei, dai risultati delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno. Nelle quali hanno riportato più voti, nell’ordine, il Partito Popolare cui appartiene la presidente uscente e rientrante della Commissione, il Partito Socialista cui appartiene l’ex premier del Portogallo Costa e i liberali generalmente riferiti al presidente francese Emmanuel Macron, e rappresentati dalla premier estone Kallas nell’organigramma predisposto negli incontri e contatti informali dei giorni scorsi.

         La premier Meloni ha paradossalmente ringraziato  l’oratrice del Pd, esprimendole anche “simpatia personale”, per avere evocato  “i  numeri”. Che però sono già cambiati dopo le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, avendo il gruppo del partito conservatore da lei guidato, pur fuori dall’assemblea di Strasburgo, sorpassato i liberali con adesioni sopraggiunte alla proclamazione dei risultati. E da terzo partito quello della Meloni rivendica i relativi diritti e ruolo.

         In più, avendo la Madia augurato al governo italiano di ottenere nella nuova Commissione di Bruxelles una presenza autorevole ed efficace come quella del commissario uscente Paolo Gentiloni, del Pd, la premier ha risposto proponendosi per l’Italia di ottenere e soprattutto “fare meglio”.

Il ministro Raffaele Fitto a Montecitorio

         Per il nuovo commissario italiano si parla da giorni dell’attuale ministro per gli affari europei Raffaele Fitto,  amico e collega di partito della Meloni, di provenienza democristiana  e poi forzista. Che oggi in aula ha espresso il parere del governo sulle sette risoluzioni conclusive del dibattito, riconoscendosi per intero solo su quella firmata dai capigruppo della maggioranza. Ma a questo punto nulla potrebbe essere forse considerato scontato, visto il ruolo per niente passivo e rassegnato assegnatosi dalla presidente del Consiglio. Contro la quale il discorso più abrasivo in sede di dichiarazione di voto, ancor più della segretaria del Pd Elly Schlein, è stato pronunciato da Giuseppe Conte.  

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Il ballo di Enrico Letta a Bruxelles per meno di una sola estate

Da Repubblica

         Salvo colpi di scena, peraltro improbabili, derivanti da errori di calcolo di chi a livello europeo, di tipo partitico e istituzionale, sta cercando di forzare le tappe di una trattativa tutta dietro le quinte, precedendo l’insediamento del Parlamento di Strasburgo appena rinnovato, la candidatura dell’ex premier italiano Enrico Letta alla presidenza del Consiglio dell’Unione ha ballato meno ancora della “sola estate” del famoso film svedese romantico e drammatico del 1951. Ha ballato solo qualche giorno, sufficiente comunque a strappare all’interessato la rinuncia quasi o di fatto propedeutica ad un’altra candidatura che forse aveva maggiori probabilità di riuscita: il vertice della prestigiosa scuola internazionale Science Po, a Parigi. Dove  Letta jr dieci anni fa andò a insegnare, dimettendosi da deputato, dopo essere stato sgambettato e sostituito a Palazzo Chigi dal collega di partito Matteo Renzi. Che pure si era appena insediato alla segreteria del Pd esortandolo a stare “sereno” alla guida del governo: aggettivo -quel “sereno”, ripeto-che da allora nessun politico può più usare senza imbarazzo, a dir poco.

Matteo Renzi

         Questa volta però, per consolazione di Enrico Letta, peraltro dichiaratamente ma forse anche scaramanticamente dubbioso di potercela fare sino all’altro ieri. Renzi non c’entra per niente. C’entra solo il Partito Socialista Europeo, del quale Renzi non fa più parte dopo avere lasciato il Pd, che gli ha preferito l’ex premier portoghese Antonio Costa.

L’ultimo libro di Enrico Letta

         Chissà, anche da questa esperienza Enrico Letta trarrà lo spunto per un nuovo libro, dopo i tanti già scritti, l’ultimo dei quali -titolato “Molto più di un mercato” a proposito dell’Unione Europea e ancora fresco di stampa per le edizioni del Mulino- poteva o doveva essere funzionale alla sua corsa Bruxelles. Dove d’altronde un mezzo lavoro l’ex premier ce l’ha già come uno dei consulenti, col connazionale Mario Draghi, della Commissione uscente presieduta dalla rientrante Ursula von der Leyen.

Dal Secolo XIX

         I giornali, e i partiti o schieramenti che li seguono o li ispirano, a seconda dei casi, si sono divisi fra nemici di Giorgia Meloni e del suo governo, che sarebbero rimasti fuori dalla partita- isolati, nell’angolo e simili- e sostenitori o semplicemente più corretti nell’informazione. Che danno invece la Meloni in partita per un in incarico di peso, e doppio, nella Commissione: vice presidente e titolare di competenze importanti.

Dal Riformista

         “Ursula e Giorgia. Il dialogo è Fitto”, ha titolato il Riformista riferendosi alla presidente uscente e rientrante della Commissione, alla premier italiana e al ministro suo collega anche di partito Raffaele Fitto, ormai già di casa a Bruxelles per seguirvi i passaggi del piano di ripresa e resilienza italiano finanziato anche a fondo perduto, oltre che con prestiti, dall’Unione. “Giorgia la spunta”, ha titolato ancora più ottimisticamente Libero.

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Il decalogo del cardinale Ruini per una politica che “non uccida….

Da Libero

Peccato che il cardinale Camillo Ruini, superata a febbraio scorso la vetta venerabile dei 93 anni, abbia perduto un po’ della sua autonomia fisica, come ci ha raccontato qualche giorno fa sul Corriere della Sera il buon Antonio Polito. Che è andato a trovarlo e a raccoglierne ricordi, considerazioni e quant’altro. Dopo quelli, peraltro, già ricevuti dal suo collega di testata Francesco Verderami con la conferma, particolareggiata, del no opposto nel l’estate del 1994 dal cardinale, allora presidente della Conferenza Episcopale Italiana, alla sconcertante richiesta del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro alla Chiesa di aiutarlo a far cadere il governo di Silvio Berlusconi in carica da poco più di due mesi.

Giovanni Paolo II e il cardinale Sodano

         La Chiesa?, voi forse vi chiederete fermandovi alle sole, pur ragguardevoli competenze episcopali italiane del cardinale Ruini,  E sì, la Chiesa, cari miei, perché con Ruini la buonanima di Scalfaro -pace all’anima sua- aveva invitato al Quirinale per quell’incredibile iniziativa contro il governo anche il cardinale segretario di Stato del Vaticano Angelo Sodano e il francese Jean Louis Touran, addetto ai rapporti della Santa Sede con gli Stati.

Jean Louis Tauran

Mancava a quell’incontro conviviale solo il Papa per un atto estremo di discrezione, diciamo così:  il polacco Giovanni Paolo II. Che penso poi informato della vicenda dalle eminenze reduci dal Quirinale, immagino con quale e quanto stupore, per quanto Karol Wojtyla ne avesse viste e sentite già di tutti i colori nel suo paese, salendo anche per questo poi al vertice della Chiesa e dandosi da fare per chiudere la partita col comunismo.

E’ curioso, a dir poco, l’ assordante silenzio della sinistra seguito all’ultimo velo impietosamente tolto da Ruini a quella torrida estate del 1994: torrida un po’ come quella di 30 anni prima. Quando con un altro presidente della Repubblica democristiano al Quirinale, Antonio Segni, con o senza la sua consapevolezza -o “buona fede”, direbbe Ruini, come ha detto di Scalfaro- la politica visse una stagione agitata. Aldo Moro, che si era dimesso da presidente del Consiglio per formare un nuovo governo di centrosinistra dopo un infortunio parlamentare occorso al primo, ritenne opportuno per qualche notte dormire fuori casa. E con lui altri del suo stesso e di altri partiti.

I recenti disordini alla Camera

E’ maledettamente estate anche adesso, nell’anno del Signore 2024. E il governo di Giorgia Meloni, a sentire quelli che gli si oppongono anche nelle piazze, non bastando loro le aule del Parlamento neppure tanto quiete, con tutto quello sventolio di bandiere, annessi e connessi, che accompagnano ogni legge che passa senza il loro consenso, insidierebbe la democrazia. Un governo che, sempre a sentire lor signori, scimmiotterebbe il fascismo di più di 100 anni fa, se non quello proprio di 100 anni fa, quando gli sgherri di Benito Mussolini uccisero Giacomo Matteotti. Al quale la segretaria del Pd Elly Schlein ha paragonato senza arrossire di imbarazzo il deputato pentastellato Leonardo Donna. Che si è avventurato con una bandiera nell’aula di Montecitorio contro il ministro Roberto Calderoli finendo atterrato fra spintoni, calci e pugni mentre veniva espulso dall’aula. Dalla quale poi avrebbe rimediato cinque giorni di sospensione: un terzo di quelli comminati al leghista Igor Iezzi, colpevole confesso di un pugno quasi centrato sulla fronte e di altri solo tentati contro il torace del grillino.

Tanto è bastato, ripeto, per riesumare Matteotti e il fascismo squadristico sulla cui strada si sarebbe messo il governo Meloni inutilmente orgoglioso del G7 in Puglia: un vertice internazionale, con la partecipazione straordinaria di Papa Francesco, sopravvissuto mediaticamente e politicamente alle cronache da Montecitorio, ma anche dal Senato rumoreggiante contro il primo passaggio del premierato.  Rumoreggiante, comunque, non tanto da spingere le opposizioni, come nel 1953 ai tempi della cosiddetta legge elettorale truffa voluta da Alcide De Gasperi, da divellere banchi e quant’altro e lanciarne pezzi anche contro il presidente dell’assemblea Meuccio Ruini, portato in infermeria senza pantaloni. Sotto i banchi del governo fu costretto invece a rifugiarsi il giovane sottosegretario del presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, uscendone ingobbito, come avrebbe poi scherzato dopo molti anni con gli amici, quando la gobba era diventata più evidente.

A dispetto della rappresentazione che se ne sta facendo o tentando, più che un governo prevaricatore e squadristico la politica con la “dialettica amico-nemico” lamentata proprio dal cardinale Ruini è alle prese con un’opposizione -parliamone pure al singolare, come vorrebbero i coltivatori del cosiddetto campo largo- alla quale lo stesso cardinale, parlandone con Polito, ha ricordato metaforicamente il quinto dei dieci comandamenti: non uccidere.

Benemerito cardinale Ruini. Che nei lunghi 17 anni della presidenza della Conferenza Episcopale, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica, fra il 1991 e il 2008, seppe tenere a bada anche quelli che da “cattolici adulti”, come Romano Prodi a Palazzo Chigi e dintorni, anticipavano i diritti civili in una versione a dir poco lontana dai principi già allora “irrinunciabili” difesi dalla Chiesa.

Una Comunione di Ruini a Romano Prodi

Fra Prodi e Ruini si consumò una clamorosa rottura anche pubblica. Eppure i due sono nati a distanza di 8 anni e di soli 11 chilometri e mezzo fra di loro: a Scandiano l’uno e a Sassuolo l’altro, nelle province rispettivamente di Reggio Emilia e di Modena.  Erano stati amici anche di famiglia, ma con una devozione, da parte di Prodi, rivelatasi meno salda di quanto l’alto prelato si aspettasse pur nella consuetudine dei loro rapporti.

Papa Francesco e Giorgia Meloni al G7

Con la sua memoria, e una fermezza invariata nei 30 anni trascorsi dal 1994, il cardinale Ruini cerca di difendere anche la Meloni, come Berlusconi ai suoi tempi, dalla demonizzazione che ne tentano gli avversari. Possiamo parlare di un  “decalogo Ruini”.

Pubblicato su Libero

                            

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