I ballottaggi premiano le opposizioni al governo, unite però solo a livello locale

Dal Corriere della Sera

         La cronaca, senza scomodare la storia invocata e festeggiata dalla segretaria del Nazareno Elly Schlein, credo che possa bastare ed anche avanzare per valutare i cento e poco più ballottaggi locali con i quali si è appena chiuso questo giugno elettorale del 2024, cominciato con le europee dappertutto e col primo turno delle amministrative in più di tremila Comuni. Una cronaca sicuramente consolante per il Pd e, più in generale, per il centrosinistra operante a livello amministrativo, essendone le componenti ancora lontane da un’intesa o combinazione nazionale che possa proporsi come alternativa al governo e alla maggioranza capeggiati da Giorgia Meloni.

         Non andrei oltre, francamente, il misurato, ragionevole titolo di copertina del manifesto che, sovrapposto a una foto d’archivio e di piazza con Elly Schlein, Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni insieme, indica “qualcosa in Comune”. La cui maiuscola sottolinea onestamente il carattere locale, cioè limitato, della convergenza.

         I ballottaggi vinti con “qualcosa in comune”, stavolta al minuscolo, in tutti e cinque i capoluoghi di regione dove si è votato fra domenica e lunedì -Firenze, Perugia, Campobasso, Bari e Potenza, dal Nord al Sud- sono di una evidenza che la destra fa male a negare. Cinque capoluoghi di regione, peraltro, che si aggiungono a Cagliari, acquisita dal centrosinistra nominalistico al primo turno amministrativo.

Antonio Decaro

         Certo, grava su questo risultato l’ulteriore calo dell’affluenza alle urne, precipitato in quindici giorni al 47,7 dal 62 e più per cento delle amministrative, che aveva contenuto la riduzione della partecipazione alle elezioni europee funzionando da traino. La maglia nera dell’assenteismo, come lo chiamiamo abitualmente, se l’è aggiudicata Bari col 37,5 per cento soltanto dell’affluenza, rispetto al quale il 70 per cento e più col quale è stato eletto il capo di Gabinetto del l’ex sindaco Antonio Decaro, assurto all’Europarlamento, sembra più un petardo che una bomba. Ha potuto festeggiare di più a destra, nella stessa regione, Adriana Poli Bortone la sua elezione a sindaco di Lecce col 50 per cento dei voti del 60 per cento dei concittadini andati alle urne.

         Va anche detto tuttavia che a questa ormai cronica, diffusa disaffezione elettorale dobbiamo ormai abituarci. Ne sono colpiti un po’ tutti i partiti, per cui nessuno può onestamente usare l’argomento contro gli avversari. Sarebbe forse il caso di studiare qualche incentivo che non sia naturalmente il cosiddetto voto di scambio.

Il problema purtroppo è quello della qualità della politica e dei suoi attori, protagonisti o comparse che siano, peraltro in un sistema mediatico anch’esso degradato, dove sempre meno si riesce a distinguere il vero dal falso, il percepito dal reale.

Ripreso da http://www.startmag.it

Il mito delle riforme condivise come quello dell’Araba Fenice

Dal Dubbio

Il meglio nemico del bene è un vecchio proverbio adattabile anche alla pretesa -non saprei ormai come definirla diversamente- della maggior parte delle opposizioni, tanto da rasentare il singolare, di trasferire nelle piazze, col richiamo ai “corpi” gridato spesso dalla segretaria del Pd Elly Schlein, il contrasto alle riforme per l’inagibilità parlamentare che deriverebbe dai numeri, dai toni, persino dallo  “spirito” del governo. Che col fatto stesso, per esempio, di proporre direttamente una riforma costituzionale della portata del premierato, con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, avrebbe compromesso un reale, pieno, libero confronto. Una convinzione, questa, che ha portato in passato a tentare interventi sulla Costituzione col percorso delle commissioni bicamerali.

Dal Corriere della Sera del 23 giugno

         A chi è ancora persuaso di questo percorso preferibile ad ogni altro suggerisco la lettura dell’intervista appena rilasciata al Corriere della Sera da Gianni Cuperlo per raccontare il fallimento -ahimè- dell’ultima commissione bicamerale. Che fu presieduta nel 1997 dall’amico personale e di partito dello stesso Cuperlo di nome Massimo e cognome D’Alema: mica un esponente minore della sinistra, peraltro preferito ad altri in quel ruolo dal leader allora dell’opposizione di centrodestra Silvio Berlusconi. A Palazzo Chigi sedeva, per la sua prima esperienza in quel posto, Romano Prodi. Cui poi lo stesso D’Alema sarebbe succeduto, pur reduce -o proprio perché reduce, come fosse preferirebbe dire chi conosce bene il temperamento dell’interessato- dall’epilogo negativo di quella commissione.

         Anche Cuperlo, in verità, attribuisce la formale responsabilità di quella conclusione infausta a Berlusconi. Che, diversamente dall’ancora alleato Gianfranco Fini, preferì evitare, ciò impedire il passaggio dalla commissione all’aula di Montecitorio per portare avanti il progetto che era andato delineandosi. Ma neppure Prodi francamente mi sembrava entusiasta della crescita del ruolo e delle prospettive di D’Alema presidente della commissione bicamerale e potenziale padre di una riforma che avrebbe potuto rendere effettiva, e non solo nominalistica, la cosiddetta seconda Repubblica. Che era stata avvertita, vista, indicata nel passaggio dal vecchio sistema elettorale proporzionale ad uno misto di maggioritario prevalente sul proporzionale.

Arnaldo Forlani

         Come era già accaduto alla precedente commissione bicamerale presieduta da Ciriaco De Mita, e poi da Nilde Iotti, colpita dagli anatemi minacciosi dei magistrati ordinari che avevano rovesciato gli equilibri nei rapporti con la politica durante la stagione delle “mani pulite”, quella di D’Alema aveva dovuto subire le minacce dei magistrati amministrativi. Cuperlo ha raccontato di una lettera anonima ricevuta dal presidente della Commissione su carta e busta intestata della Corte dei Conti. Che può far male anche più di un tribunale penale e civile alle tasche personali di chi governa contestandone le scelte. Per essere stato presidente del Consiglio, ad esempio, Arnaldo Forlani negli anni Ottanta rischiò di rimetterci la casa con la decisione della pubblicazione delle liste della loggia massonica segreta P2, dove c’era anche il suo capo di Gabinetto, dopo che i magistrati inquirenti  avevano cominciato a lasciarle diffondere a rate dai giornali intossicando le cronache politiche. Quanti si ritennero danneggiati ingiustamente reclamarono danni per centinaia di milioni di lire.

Cuperlo al Corriere della Sera

         Per tornare ai tempi di D’Alema alla Bicamerale del 1997, non era aria di riforme davvero condivise, come le definiscono e auspicano in tanti.  Non è aria neppure oggi. E non lo sarà forse mai, essendo francamente, onestamente irripetibili le circostanze eccezionali nelle quali i costituenti avevano potuto, oltre che voluto lavorare fra il 1946 e il 1947, dopo una guerra che era finita per essere anche civile. E non credo che potrebbero ricreare miracolosamente quel clima le piazze  contrapposte in questi giorni al governo Meloni, al Parlamento e alle leggi che esso produce con una maggioranza di centrodestra. Leggi delle  quali  peraltro si continua a ignorare, o sottovalutare, il fatto che fra i vari passaggi da superare contengano quello iniziale -di autorizzazione- e quello finale- di firma per la promulgazione- del presidente della Repubblica. Che peraltro non mi sembra proprio sospettabile di scarsa o mancata vigilanza. Sergio Mattarella ha appena fatto sapere che vuole prendersi tutto il tempo consentitogli dalla Costituzione -un mese- per valutare la legge sulle autonomie approvata in via definitiva dalla Camera nella scorsa settimana.  

Pubblicato sul Dubbio 

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