Il ricordo personalissimo dell’inizio dell’avventura del Giornale di Indro Montanelli

Da Libero

Domani sarà martedì come lo era il 25 giugno 1974, quando esordì Il Giornale fondato da Indro Montanelli dopo avere lasciato il Corriere della Sera e avere accettato una breve ospitalità alla Stampa.

         Che fatica e che caldo in quei giorni nella soffitta di Piazza di Pietra, dove Gianni Granzotto aveva trovato e affittato la sede della redazione romana, scelta per la vicinanza non so se più alla Camera, al Senato e a Palazzo Chigi o all’abitazione capitolina di Indro Montanelli. Che era in Piazza Navona.

         A piedi veniva, dall’albergo di Piazza Montecitorio dove alloggiava quando era a Roma, anche Giovanni Spadolini: più frequentemente e lestamente dello stesso Montanelli, al quale peraltro doveva in tutti i sensi l’elezione al Senato nel 1972. Era stato Montanelli a perorarne la candidatura all’amico Ugo La Malfa nelle liste del Partito Repubblicano, dopo il licenziamento da direttore del Corriere per essere sostituito da Piero Ottone. Che poi si sarebbe lasciato portar via -per sua stessa ammissione- “l’argenteria” di via Solferino, a Milano, da Montanelli e da Enzo Bettiza.

Giovanni Spadolini

         Spadolini, che qualche mese dopo sarebbe arrivato al governo, nel bicolore Moro-La Malfa, per capeggiare il Ministero dei Beni Culturali allestitogli con un decreto legge, aveva praticamente trasformato quella nostra soffitta in un supplemento del proprio ufficio. Veniva in ogni ora della giornata, si accomodava alla prima postazione libera che trovava, purchè provvista di telefono, tirava fuori la rubrica e chiamava un’infinità di persone. A volte arrivava Montanelli e lui neppure si alzava a salutarlo, tanto era preso dalle ricognizioni telefoniche. E Montanelli ci guardava come per scusarsi al suo posto e chiederci comprensione.

Cesare Zappulli e Indro Montanelli

         A parte il caldo malamente fronteggiato da un condizionatore più volte guasto che funzionante, l’aria che doveva respirarsi in quella soffitta, come nella più ampia sede milanese, avrebbe dovuto essere rigorosamente laica. Oltre allo Spadolini occupante della redazione romana, era stato fino ad allora dichiaratamente, orgogliosamente  elettore repubblicano Montanelli. Liberale di cultura già quando era stato selezionato e assunto da giovane come funzionario del Pci da Giancarlo Pajetta, il mio amico Bettiza era tornato ad esserlo a tutti gli effetti guadagnandosi politicamente a Milano una corte a dir poco spietata di Giovanni Malagodi. Liberale, destinato a diventare pure lui senatore, come Bettiza, era anche Cesare Zappulli, pur esponendo nella sua stanza, a Roma, l’immagine inseparabile di San Gennaro. Davanti alla quale egli si faceva il segno della croce prima di sedersi o di scrivere il suo articolo di giornata. Di cui Montanelli si doleva quasi sistematicamente perché finiva per essere, di contenuto e di lunghezza, diverso da quello su cui si erano accordati a voce.

Enrico Berlinguer

          L’aria, dicevo, doveva essere rigorosamente e compiutamente laica col permesso di San Gennaro. Ma con l’avventura del Giornale quel diavolaccio di Montanelli aveva deciso di aiutare più la Dc che i partiti laici per proteggerla insieme dai tentacoli del “compromesso storico”, allungati dal segretario del Pci Enrico Berlinguer, e dal rischio di un sorpasso comunista generale. Che minacciava lo scudo crociato dopo la sconfitta referendaria sul divorzio proprio di quel 1974, cui sarebbe seguito il sorpasso nelle elezioni regionali del 1975. Pancia a terra, naso turato e tutti a votare -era praticamente la linea di Montanelli- per la Democrazia Cristiana. Che non poteva recuperare voti o guadagnarne di nuovi se non a scapito dei vecchi e minori alleati laici.

Gianfranco Piazzesi

         A Gianfranco Piazzesi, proveniente pure lui dal Corriere, chiamato in redazione “il chiorba” come Montanelli “il cilindro”,arrivò subito al naso   odore di un qualche accordo con i comunisti, considerandolo “ineluttabile” quasi quanto Ugo La Malfa vice di Moro a Palazzo Chigi dal novembre 1974. E provò a convincere Montanelli che non sarebbe poi stata la fine del mondo. Ma si procurò una ramanzina, tutta aspirata toscanamente, dalla quale -presente allo scontro- capii che le loro strade erano destinate a separarsi. Come poi del resto, ai tempi successivi di Bettino Craxi, erano destinate anche le nostre.

Giulio Andreotti

         Ma non solo a Piazzesi nella soffitta romana di Piazza San Pietro ma anche all’amico La Malfa in persona e in pubblico Montanelli riservò un trattamento abrasivo per contestarne la rassegnazione, e qualcosa forse di più,  ad un passaggio che sarebbe stato poi definito di “solidarietà nazionale”. Scrisse di lui come di un “irriconoscibile”, che aveva “perduto la testa”. Poi naturalmente si riconciliarono, come con Giulio Andreotti. Che una volta, ricevendolo nel suo studio dove lo avevo accompagnato, anche quello a pochi passi dalla redazione romana del Giornale, disse ironicamente a Montanelli di togliersi pure la molletta dal naso per parlargli. Un po’ come di recente il saluto della Meloni al presidente della regione campana che le aveva dato della “stronza”.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 25 giugno

Che noia nei seggi elettorali anche dei ballottaggi comunali

L’apertura di Repubblica

         Fra la speranza, coltivata per esempio da Repubblica nel titolo di apertura, che al Quirinale prevalgano “i dubbi” e le opposizioni ottengano un clamoroso rinvio alle Camere della contestata legge sulle cosiddette autonomie differenziate, e la preoccupazione per la fuga dalle urne nel centinaio di ballottaggi comunali con cui si sta concludendo questo giugno elettorale in Italia, mi pare che prevalga la seconda nei giornali.

Dal Corriere della Sera

         Non a caso il Corriere della Sera, da tempo in testa nella graduatoria commerciale delle testate, diversamente da Repubblica, ripeto, ha preferito aprire con “l’affluenza in calo” ai seggi, risultata alle ore 19 di ieri sera ferma al 28 per cento. Quattro ore dopo, alla interruzione notturna delle votazioni, è risultata al 37 per cento: troppo poco per sperare che fra la riapertura delle sezioni questa mattina e la chiusura pomeridiana e definitiva delle urne si possa raggiungere il miracoloso 62 per cento e oltre di votanti registrato al primo turno, quindici giorni fa, negli oltre 100 Comuni interessati ai ballottaggi: una percentuale che, avendo funzionato da traino, aveva contenuto l’8 e 9 giugno scorso la caduta dell’affluenza alle urne nelle elezioni europee sotto il 50 per cento: esattamente 49,69.

Dalla Gazzetta del Mezzogiorno

         A Bari, dove pure l’amministrazione comunale uscente si è divisa fra cronache politiche e giudiziarie, i dati dell’affluenza si sono rivelati i più bassi d’Italia, sotto il 20 per cento alle ore 19 di ieri: il 18,53 su cui ha titolato sconsolatamente la locale ma storica Gazzetta del Mezzogiorno.

Dall’Ansa

         I ballottaggi che hanno fatto la fortuna di alcuni sistemi elettorali, per esempio quello francese, che fior di costituzionalisti in Italia indicano come esempio non sembrano dunque funzionare da noi neppure a livello amministrativo. E da parecchio, tanto che i leghisti ne sostengono l’abolizione ma non sono riusciti a convincere la maggioranza di cui fanno parte, risparmiandole un altro fronte di guerra, per quanto di carta e di parole, con le opposizioni dopo le già ricordate autonomie in attesa di giudizio al Quirinale, il premierato appena passato in prima lettura dal Senato alla Camera, la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e altro ancora.

La bandiera della Svizzera

         E’ difficile dire di chi sia, o di chi più di altri, la responsabilità di questa disaffezione elettorale, ormai a tutti i livelli. E’ francamente difficile dire anche se questo fenomeno debba ancora ritenersi davvero patologico, tanto da considerare in crisi la democrazia e quasi moribonda la rappresentatività degli organismi elettivi, o non debba invece ritenersi ordinario, ed eccezionali invece i dati ai quali eravamo abituati in passato. Certo è che nella confinante Svizzera, senza che nessuno si strappi le vesti nella stessa Confederazione e altrove, si legifera ormai a suon di referendum cui partecipa di solito il 40 per cento degli elettori.

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