Grillo e Conte, o viceversa, fra le polveri delle loro stelle cadenti

         Sotto le cinque stelle un po’ cadenti dopo la scoppola rimediata da Giuseppe Conte nelle elezioni europee del 9 giugno, scendendo a livello nazionale sotto il dieci per cento, accade metaforicamente quello che i pessimisti o gli ottimisti -secondo i gusti- attendono da tempo che succeda fra i magistrati dopo una trentina d’anni di crescita esponenziale del loro ruolo: che si arrestino fra di loro.

Dal blog di Beppe Grillo

         Per carità, Beppe Grillo non ha ammanettato Conte, anche se forse lo avrebbe fatto volentieri se ne avesse avuto la possibilità. Ha fatto di peggio nella logica della sua professione di comico: ha ripreso a dileggiarlo nei suoi spettacoli teatrali come un avversario qualsiasi. E, in una intervista dichiaratamente a se stesso, ha trasferito il dileggio sul suo blog, al cui mantenimeno Conte come presidente del MoVimento 5 Stelle concorre pagando Grillo come consulente della comunicazione, pur non a tempo pieno. Già, perché  il comico è anche statutariamente il garante, l’elevato, l’elevatissimo, l’”essenziale” -ha appena aggiunto- del partito chiamato in altro modo.

Conte e Schlein in Piazza Santi Apostoli, a Roma

         In una situazione del genere, a dir poco paradossale, l’ex premier e non so se ancora aspirante a tornare a Palazzo Chigi come “il punto più alto di riferimento dei progressisti”, secondo la generosa qualifica attribuitagli a suo tempo al Nazareno in un eccesso di masochismo, ha la disinvoltura di partecipare a manifestazioni di piazza contro il precario livello cui starebbe riducendo la democrazia il governo di Giorgia Meloni.  Cioè contro le picconate ch’esso starebbe dando alla Costituzione e ad altro ancora con le riforme tutte anticipate nel programma elettorale che ha portato la leader della destra italiana a Palazzo Chigi, ancora su nomina del presidente della Repubblica, in attesa dell’elezione diretta e del conseguente premierato.

Luigi Pirandello

         Ci vorrebbe un redivivo Luigi Pirandello, purtroppo morto nel lontano 1936, per raccontare la storia di un movimento così poco cosmico approdato in Parlamento nel 2013 e non ancora uscitone, o almeno non uscitone del tutto. Ma in mancanza di Pirandello potrebbe provvedervi, accontentandoci, lo stesso Grillo. Anzi, ha cominciato a farlo. Buon proseguimento. E divertimento, che fa pure rima.

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La guerra della politica al dizionario della lingua italiana

Da Libero

Fa in fondo parte della quasi terza guerra mondiale a pillole, come dice il Papa, anche quella che la politica italiana sta conducendo contro il dizionario in una catena di ossimori.

         Abbiamo una destra dichiaratamente conservatrice, anche nelle parti moderate e non “estreme” immaginate a Berlino dal caudicante cancelliere Sholz, che felicemente innova.

Giorgia Meloni

         Al Senato si è appena consumato il primo dei quattro passaggi parlamentari della riforma della Costituzione che introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Come si eleggono da anni i sindaci dei Comuni e i presidenti delle Regioni senza che né gli uni né le altre siano uscite dalla democrazia.

         Alla Camera è stata approvata definitivamente con legge ordinaria l’attuazione delle cosiddette autonomie differenziate regionali introdotte nel 2001 nella Costituzione dalla sinistra, che corteggiava la Lega di Umberto Bossi sul terreno del federalismo per cercare di impedirne il ritorno all’alleanza con Silvio Berlusconi. Dalla quale era riuscito a sfilarla alla fine del 1994 l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, per niente rassegnato alla calma dopo avere cercato inutilmente di trascinare nella lotta all’allora presidente del Consiglio il quasi vertice della Chiesa. Ne ha appena dato conferma, nel silenzio assordante e imbarazzante, oltre che imbarazzato, di ciò che ancora rimane -cioè parecchio- della sinistra di allora ammantatasi all’alba della seconda Repubblica nei panni dichiaratamente progressisti.

         I progressisti, appunto, ai quali fu iscritto d’ufficio nel 2020 il grillino Giuseppe Conte diventandone addirittura il “punto più avanzato” per dichiarazioni e interviste intrecciatedel segretario del Pd Nicola Zingaretti e del suo “filosofo” di riferimento Goffredo Bettini; i progressisti, dicevo, vogliono adesso andare non avanti ma indietro rispetto alla riforma costituzionale del 2001. E, rovesciandosi addosso secchiate di liquame politico, dipingono la Repubblica delle regioni da loro stessi disegnata 23 anni fa come destinata alla disgregazione, affondata nel disordine e via infernando. Da Inferno, per quanto Papa Francesco ottimisticamente lo immagini da qualche tempo sgomberato.

Enrico Berlinguer

         Non è la prima volta, a dire la verità, che i progressisti italiani hanno il passo del gambero Già nella prima, ormai lontana prima Repubblica ghigliottinata dalla magistratura ribaltando i rapporti con la politica fissati dai costituenti, i progressisti alla Berlinguer, tanto celebrato in questi giorni, scambiarono la Costituzione per un fortino assediato da Bettino Craxi con i suoi progetti di riforma istituzionale. E pure Craxi entrò nel girone dei reazionari, come prima di lui un vecchio campione dell’antifascismo e dell’antifranchismo quale il repubblicano Randolfo Pacciardi.  Che aveva osato raccogliere e rilanciare quelle tracce di presidenzialismo già affiorate nelle discussioni all’Assemblea Costituente. Il povero Pacciardi ne morì quasi di crepacuore, contestato per primo dal leader della sua parte o area politica Ugo La Malfa.

         Neppure la Malfa -pace all’anima sua- scherzava nella guerra al dizionario. Anzi, al buon senso.  Ricordo lo sgomento che mi procurò personalmente nel 1973, rimediando un mezzo insulto quando osai contestaglierlo in un corridoio della Camera.

         Erano i mesi e i giorni in cui il governo della “centralità” Andreotti-Malagodi, come lo chiamava l’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani avendolo fatto realizzare dopo l’uscita dei socialisti dal centrosinistra a causa dell’elezione di Giovanni Leone al Quirinale, veniva spinto verso la crisi da Amintore Fanfani nella Dc e da La Malfa, appunto, fuori dalla Dc.

Ugo La Malfa

         Proprio La Malfa, precedendo formalmente Fanfani che stava scaricando il suo ex delfino Forlani dietro le quinte, notificò lo sfratto ad Andreotti rompendo la maggioranza sulla vertenza del cosiddetto codice postale. Che non era quello da voi giovani forse immaginato pensando ai numeri che precedono le città nella corrispondenza, ma quello allora in discussione anche per  introdurre la televisione a colori. Alla quale La Malfa, sostenuto dal Pci, era contrario per ragioni di austerità, temendo gli sperperi che gli italiani avrebbero fatto cambiando i televisori. Sullo sfondo c’erano formalmente i contrasti sul sistema francese -Secam- o tedesco – Pal- da adottare sul piano tecnico. Diavolo di un progressista, La Malfa, col suo preferito bianco e nero neppure iuventino. La Malfa e i comunisti che gli andavano dietro pur di ottenere una crisi di governo.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 23 giugno

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