L’appetito tutto politico della Meloni al vertice conviviale di Bruxelles

La guerra in Ucraina

Al vertice conviviale europeo di stasera a Bruxelles sarà tutto politico l’appetito di Giorgia Meloni, reduce dalla vittoria elettorale del 9 giugno, mancata invece agli altri maggiori governi continentali. E poi dalla presidenza di un G7 particolarissimo anche per la prima partecipazione di un Papa e dalla conferenza svizzera di pace, augurabile, dopo più di due anni di guerra. in Ucraina. Dove Putin pensava di liquidare in quindici giorni l’odiato Zelensky e si è invece infilato in un’avventura dalla quale neppure lui sa come uscire, al netto della sua spavalderia, delle sue minacce anche nucleari e dei diversivi che alimenta in altre parti del mondo: da Gaza all’Africa e ai Caraibi, dove i sommergibili russi sono tornati come ai tempi di Kruscev e di John Kennedy.

         L’appetito politico della Meloni non è tanto di posti quanto di ruoli nei nuovi assetti dell’Unione Europea dopo il rinnovo del Parlamento di Strasburgo e il monito da lei già rivolto ai suoi interlocutori dalla conferenza stampa conclusiva del G7, in Puglia, a tenere conto delle “competenze” italiane e delle novità emerse dal voto del 9 giugno. Da cui è uscito alquanto compromesso il tradizionale e privilegiato asse franco-tedesco nella conduzione dell’Unione. La Francia è rimasta senza governo col ricorso di Macron alle elezioni anticipate dopo la sconfitta procuratagli dalla destra di Marine Le Pen. La Germania ha un cancelliere in difficoltà solo apparentemente minori del presidente francese.

Dal Foglio

         Nella “pazzia europea”, come l’ha chiamata Il Foglio, la “sorpresa” è “la normalità della muova Italia” governata appunto dalla Meloni. Che, per quanto ancora relegata all’”estrema destra” dal cancelliere tedesco, rimediando da Antonio Tajani la collocazione ritorsiva  all’”estrema sinistra”, sa di poter giocare una buona partita a Bruxelles. Forse anche oltre l’obbiettivo, il traguardo e quant’altro di “un commissario forte e la vice presidenza” della Commissione indicato proprio oggi in una intervista al Corriere della Sera da Antonio Tajani. Che conosce bene Bruxelles per essere stato commissario, vice presidente dell’esecutivo e presidente del Parlamento europeo. E ha ereditato da Silvio Berlusconi anche la partecipazione della sua Forza Italia al maggioritario Partito Popolare Europeo. Non a caso nelle scorse settimane, quando la conferma della presidente uscente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, proposta dal Ppe, sembrava a rischio, anche Tajani è entrato nella partita. Almeno mediaticamente, pur cercando di tenersene fuori con le parole.  

Dal Fatto Quotidiano

         Il protagonismo acquisito dalla Meloni a livello internazionale accentua in Italia le difficoltà degli avversari, spingendoli a provocazioni parlamentari, come quella dei grillini riuscita con disordini alla Camera, e alla piazza. Dove la segretaria del Pd si muove ora con più disinvoltura del suo concorrente a sinistra Giuseppe Conte, costretto ad ammettere sul Fatto Quotidiano la propria “sconfitta” nelle urne.

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Quella volta che Scalfaro chiese aiuto a Ruini per rovesciare Berlusconi

Da Libero

Imperdibile l’intervista nella quale il cardinale Camillo Ruini, 93 anni compiuti a febbraio, ha raccontato al Corriere della Sera passaggi clamorosi della sua lunga esperienza -dal 1991 al 2007- alla presidenza della conferenza episcopale italiana, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica.

         Toccò a lui, per esempio, raccogliere la richiesta del laicissimo presidente del Senato Giovanni Spadolini di dissuadere gli amici democristiani, che nel 1981 lo avevano mandato a Palazzo Chigi, tre anni prima che vi arrivasse Bettino Craxi, dalla decisione di rinunciare al fortunato, secondo lui, nome del loro partito per tornare a quello sturziano, ormai troppo lontano, di Partito Popolare Italiano.

         Il povero Ruini, che era d’accordo con la lettura di uno storico peraltro di grandissima qualità come il suo interlocutore, ci provò ma inutilmente, neppure pronosticando a Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della Dc, non più del 15 per cento dei voti, uno in meno di quello che poi egli, dimettendosi immediatamente, avrebbe preso nelle urne del 1994.  I cui risultati portarono a sorpresa il politico esordiente Silvio Berlusconi direttamente alla guida del governo, sorpassando anche la “gioiosa macchina da guerra” allestita a sinistra da Achille Occhetto.

L’intervista del cardinale Ruini al Corriere della Sera

         Della vittoria di Berlusconi il cardinale Ruini non so se fosse rimasto sorpreso pure lui, come Occhetto e Martinazzoli allora su fronti diversi, non ancora assemblati, ma di certo non allarmato. “Penso che Berlusconi -ha detto l’altissimo prelato a Francesco Verderami- abbia mostrato i suoi pregi e i suoi limiti, come tutti gli altri politici, ma che non abbia avuto in alcun modo fini eversivi. I pericoli per la Repubblica semmai erano altri”. Come lo sono, penso, anche oggi che la sinistra sta ripetendo contro il governo Meloni la campagna condotta a suo tempo contro chi osò batterla all’alba della seconda Repubblica.

         Sorpreso o non sorpreso che fosse stato dalla vittoria del Cavaliere, il cardinale Ruini dovette rimanere esterrefatto nel sentirsi invitato dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a prodigarsi dalla sua importante postazione episcopale a far cadere il primo governo di centrodestra.

         Invitato dall’intervistatore a dire se davvero nell’estate del 1994, come raccontato in un libro edito dallo stesso Corriere della Sera, Scalfaro lo avesse invitato a pranzo con il cardinale Angelo Sodano e monsignor Jean Louis Tauran per chiedere loro di essere “aiutato a far cadere il governo Berlusconi” raccogliendone un “silenzio imbarazzato”, Ruini ha testualmente risposto: “Effettivamente andò così. La nostra decisione di opporci a quella che ci appariva come una manovra -al di là della buona fede di Scalfaro- fu unanime”.  Manovra tentata da Scalfaro anche con Umberto Rossi, come raccontato dallo stesso leader leghista allora ancora alleato di Berlusconi, e riuscita. In effetti Bossi provocò la crisi entro l’anno, protetto dalla garanzia di Scalfaro che non ci sarebbero state elezioni rapidamente anticipate.

         “E pensare -ha raccontato ancora impietosamente Ruini- che Scalfaro era stato per me un grande amico. Rammento quando De Mita nel 1987 gli aveva offerto di diventare presidente del Consiglio, in opposizione a Craxi e con la benevolenza del Pci. Scalfaro allora era venuto da me e mi aveva detto che avrebbe rifiutato. “Fa bene”, avevo risposto. E infatti a Palazzo Chigi sarebbe poi andato Amintore Fanfani” per gestire le elezioni anticipate fortemente volute dall’allora segretario democristiano.

Oscar Luigi Scalfaro

         Fu quel rifiuto che cinque anni dopo procurò a Scalfaro, ancora fresco di elezione a presidente della Camera, l’appoggio fiduciario di Craxi alla sua elezione a capo dello Stato nell’emergenza politica e istituzionale creatasi con l’attentato mafioso di Capaci a Giovanni Falcone. Ma, una volta al Quirinale, oltre a negargli l’incarico di presidente del Consiglio, Scalfaro non rispose alle lettere con le quali Craxi gli segnalava la “severità senza uguali” -per ripetere un’espressione di Giorgio Napolitano dopo molti anni al Quirinale- praticatagli dalla magistratura di “Mani pulite”.

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