Ma chi si rivede: Mario Draghi, insignito del premio eurospagnolo Carlo V

Draghi col premier spagnolo Sanchez a Madrid

         Escluso dal G7 per mancanza di titoli, diciamo così, non essendo più fra i cosiddetti Grandi della Terra come semplice consulente della presidente uscente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, o dell’intera Commissione, sui temi della competitività comunitaria presente e futura, l’ex premier Mario Draghi si è goduta una giornata di celebrità in terra spagnola. Dove il Re Felipe VI lo ha insignito del prestigioso premio Carlo V istituito nel 1995 a testimonianza dello spirito europeista della Spagna. E il premier Pedro Sanchez lo ha ricevuto nel palazzo della Moncoa, a Madrid, sede del governo.

         In occasione del conferimento di questo premio -andato nelle edizioni precedenti, fra gli altri, a Khol, Gorbaciov e Merkel- l’ex premier italiano ha ribadito la sua convinzione della necessità di un potenziamento del processo d’integrazione europea contro ogni tentazione di protezionismi e atteggiamenti passivi “di fronte -ha detto- a chi minaccia la nostra prosperità”.

Emmanuel Macron

         Le voci, diciamo così, di una partecipazione di Draghi a quella specie di concorso dietro le quinte ad una delle postazioni di vertice dell’Unione dopo le elezioni europee, ormai svoltesi, sembravano indebolite – alla vigilia del G7 in Puglia e in vista del Consiglio Europeo post-elettorale- dalle difficoltà di quello che veniva considerato il suo maggiore sostenitore: il presidente francese Emmanuel Macron, peraltro amico personale. Che dopo la vittoria elettorale della destra francese proprio nelle europee di domenica scorsa non se la passa molto bene né a casa né fuori casa, per quanto cerchi di mostrarsi ancora sicuro di sé e di sorprendere tutti.  Egli ha spiazzato anche il presidente del Consiglio francese -ne esiste ancora uno- convocando elezioni anticipate in questo stesso mese, e aumentando di incognite la vigilia delle decisioni che dovranno essere prese sui nuovi vertici comunitari.

Il Papa e la Meloni al G7

         Guarda caso, proprio in questa vigilia il premio Carlo V ha quasi rimesso in pista, se mai ne fosse davvero uscito, l’ex premier italiano in quella che potremmo chiamare la corsa a Bruxelles. Che formalmente è estranea all’agenda del G7 in Puglia gestita dalla Meloni, avvolta ieri anche nel successo della partecipazione davvero eccezionale del Papa, per la prima volta nella storia di questo tipo di incontri internazionali. Ma figuratevi se fra gli ulivi pugliesi è potuta mancare l’attenzione a ciò che potrebbe accadere a breve al vertice dell’Unione, con la presidente uscente della Commissione, e candidata alla conferma, partecipe dell’evento. Sarà pure stato un argomento “filosofico”, come lo ha definito la premier italiana prima delle elezioni europee parlando proprio del connazionale Draghi, e suo predecessore a Palazzo Chigi, ai soliti giornalisti curiosi, ma -ripeto- difficilmente sarà mancato.

La Schlein spreca un pò la grazia elettorale delle europee

Da Libero

Che peccato, per lei. Mi riferisco a Elly Schlein, la giovane segretaria del Pd uscita personalmente e politicamente meglio dalle elezioni europee dopo Giorgia Meloni, tanto da averne ricevuto per telefono le congratulazioni.  O avergliele fatte, secondo altre versioni. Fa lo stesso. I rapporti fra le due ormai prime donne d’Italia sembravano usciti rafforzati. Una rivincita peraltro di entrambe sui maschietti o maschiacci che, anche all’interno dei loro schieramenti, ne avevano osteggiato sino a riuscirvi il confronto televisivo diretto allestito nella Rai dallo specializzatissimo Bruno Vespa.

         Portato a casa il suo miracoloso, per molti anche al Nazareno, 24 e rotti per cento di voti -per quanto inferiore di un punto alle previsioni formulate dal mio amico, e suo ammiratore, Paolo Mieli- e ridotte con pubblico compiacimento da due a un milione di schede contate nelle urne le distanze fra il suo Pd e il partito della premier, la Schlein poteva godersi finalmente un po’ di riposo e smontare metaforicamente le barriere di protezione che i suoi fans avevano allestito per difenderla da un insuccesso. O comunque da un risultato scarso rispetto alle aspettative o al limite di sicurezza immaginato attorno al 20 per cento, superiore di un punto a quel misero 19 lasciatole in eredità dal predecessore Enrico Letta.

Beppe Grillo a Roma

         Ma soprattutto la Schlein poteva godersi, naturalmente in un educato e anche un po’ opportunistico silenzio, le difficoltà del suo concorrente a sinistra Giuseppe Conte. Che ora, con quel misero 10 per cento neppure tondo cui ha ridotto il MoVimento 5 Stelle, si è autocondannato ad una estate di amare riflessioni. E forse anche di paura di qualche sortita di Beppe Grillo. Del quale si è scritto -senza che l’interessato o altri abbiano ancora smentito- che né l’8 né il 9 giugno si sia scomodato a votare, preferendo la Sardegna alla sezione elettorale ligure assegnatagli dall’anagrafe.

         Poteva, sempre la Schlein, godersi -ripeto- la crisi politicamente identitaria del suo concorrente sulla strada del cosiddetto campo largo, o soltanto giusto, dell’alternativa al centrodestra sognata in tutti i salotti televisivi da quel simpatico battutista Pier Luigi Bersani. E magari lavorare dietro le quinte a favore, come suggeritole in tante interviste da Goffredo Bettini, della nascita di qualcosa di nuovo, e di utile al Pd, in quell’area centrale dissestata da Carlo Calenda e Matteo Renzi, in ordine rigorosamente alfabetico: i due politici che si detestano di più fra di loro. Due che, se fossero omosessuali, potrebbero cinematograficamente allestire una coppia per una guerra competitiva con quella eterosessuale dei Roses che ci godemmo nel 1989, a costo di distrarci dalla caduta del muro di Berlino, annessi e connessi.

Giuseppe Conte

         Poteva tutto questo, ripeto, la segretaria del Pd. Che invece, spiazzando tutti, ha soccorso Conte difendendone il deputato Lorenzo Donno che ha conquistato le prime pagine dei giornali con quella bandiera tricolore nella quale voleva avvolgere per protesta, nell’emiciclo di Montecitorio, il ministro leghista Roberto Calderoli impegnato a spingere verso il traguardo finale il disegno di legge sulle cosiddette autonomie differenziate.

Lorenzo Donno

Ne è derivato tutto il casino -mi scuso per la parolaccia- che sapete e che ha conteso lo spazio mediatico persino al G7 preparato con tanta cura dalla Meloni facendo arrivare in Puglia i Grandi della Terra, con le dovute maiuscole, qualcuna magari immeritata. Un casino -ripeto- derubricato a “disordini” nei verbali parlamentari e    tradottosi in una squadra di undici giocatori sospesi per un certo tempo dal campo, compreso Donno. Che si è beccato quattro giorni di allontanamento dall’aula: in verità, espulso immediatamente dalla seduta movimentata con la sua bandiera ma portato via in carrozzella perché ferito in una rissa a partecipazione multipla, secondo gli accertamenti immediatamente disposti alla Camera dal presidente leghista Lorenzo Fontana. Che è stato implacabile nella severità, sino a comminare il massimo della pena -15 giorni di sospensione- al collega di partito Igor Iezzi.

Giacomo Matteotti

Non voglio mancare, per carità, di rispetto all’onorevole Donno, giunto al suo secondo e ultimo mandato parlamentare secondo le regole grilline, salvo modifiche dopo le riflessioni di Conte sul flop elettorale di domenica scorsa. Nato 38 anni fa a Galatina, in Puglia, e titolare -leggo su Google- di un’impresa specializzata in climatizzazione, riscaldamento ed energie rinnovabili, fedelissimo naturalmente di Conte, mi sembra esageratamente paragonato dalla Schlein, per quanto gli è successo alla Camera, al compianto Giacomo Matteotti nel centenario del suo discorso antifascista, sempre a Montecitorio, e del barbaro assassinio che ne seguì.

Pubblicato su Libero

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I disordini che non sono mani mancati nel Parlamento italiano

Dal Dubbio

Non voglio togliere o contestare nulla dei 15 giorni di sospensione dall’aula di Montecitorio comminati giustamente al deputato leghista Igor Iezzi per avere sferrato un pugno sulla fronte del collega pentastellato Leonardo Donno e avere tentato -per suo stesso racconto- di colpirlo anche al torace in una poco memorabile seduta della Camera sulle cosiddette autonomie differenziate.

Né voglio aggiungere qualcosa ai tre giorni di prognosi dati dai medici a Donno in ospedale, anche se tre giorni non si negano a nessuno in un pronto soccorso, come una volta si diceva dei sigari e poi, o insieme, di un titolo onorifico.

Voglio solo ricordare ai più giovani, o meno anziani, come preferite, che il Parlamento ha trascorso altri giorni e momenti tumultuosi nei 78 anni della nostra Repubblica, ben prima dell’arrivo di Giorgia Meloni alla guida di un governo, e per giunta -agli occhi, al cuore e alle viscere di certe opposizioni- non di centrodestra ma di destra-centro.

         Per non starvela a raccontare troppo lunga evoco la seduta del Senato del 1953 in cui il presidente dell’assemblea Meuccio Ruini fu colpito alla testa da un banco divelto dal seggio da un senatore contrario alla legge su cui si stava discutendo e votando. Una legge elettorale chiamata “truffa” dalla sinistra perché istituiva un premio di maggioranza. Che, reintrodotto molti anni dopo da un’altra legge, nella ormai cosiddetta seconda Repubblica, avrebbe permesso di conquistare la guida del governo prima a Silvio Berlusconi e poi, sul fronte opposto di sinistra, a Romano Prodi.

De Gasperi e il suo sottosegretario Andreotti

         Ruini, di origini socialiste, che era stato uno dei protagonisti dell’assemblea Costituente, dovette ricorrere all’infermeria del Senato riprendendone subito la guida per onorare l’impegno assunto nel succedere a Giuseppe Paratore, che si era dimesso perché sopraffatto dall’opposizione ostruzionistica e animata alla riforma elettorale voluta da Alcide De Gasperi. L’impegno di Ruini era quello di svolgere il suo ruolo “con la stessa fermezza” -aveva annunciato lui stesso nel discorso di insediamento- con la quale” era andato “con i capelli già grigi sul Carso”, nella prima guerra mondiale.

         In quella stessa seduta al Senato il giovane sottosegretario di De Gasperi destinato dopo molti anni a succedergli, Giulio Andreotti, per proteggersi dalle tavolette e altri oggetti che volavano in aula s’infilò sotto i banchi del governo. E ne uscì -mi raccontò una volta con la sua immancabile ironia- scoprendo accentuata la sua gobba incipiente.

Screensico giornale del Pci esultante nel 1953

         Quella legge elettorale “truffa” -ripeto- per definizione dei suoi oppositori era stata tanto diabolicamente predisposta o voluta da De Gasperi che non scattò per pochi voti. Tanto pochi che il suo ministro dell’Interno Mario Scelba voleva ordinare una verifica dei risultati in un campione di seggi. Ma a fermarlo fu proprio De Gasperi. Altri tempi davvero, altri uomini, altri leader. Lo penso e lo scrivo con una certa mestizia pensando non solo a Iezzi, Donno e agli altri nove deputati -undici in tutto, come una squadra di calcio- protagonisti o attori dei “disordini” appena verbalizzati a Montecitorio, ma anche alla giovane segretaria del Pd Elly Schlein.

Quest’ultima nell’annunciare e motivare una manifestazione di protesta per martedì a Roma, in Piazza Santi Apostoli, ha parossisticamente e praticamente paragonato il deputato pentastellato Donno a Giacomo Matteotti nel centenario del suo ultimo discorso di denuncia delle irregolarità e violenze del fascismo e della condanna a morte con esso procuratasi.

La segretaria del Pd Elly Schlein

         Vi deve pur essere -penso- una misura in tutto. Anche nell’uso della storia e nell’opposizione: ieri, anzi l’altro ieri, contro la legge per niente “truffa”, destinata ad essere replicata dalla stessa sinistra dopo decenni, e oggi contro – per tornare al Senato dove Ruini fu ferito al banco di presidenza- contro la riforma costituzionale che contempla l’elezione diretta del presidente del Consiglio: Tutto ciò in un paese -mi permetto di ricordare pur senza titoli accademici o politici- dove si eleggono da tempo direttamente i sindaci  dei Comuni e i presidenti delle Regioni. E il presidente del Consiglio inteso o auspicato come “sindaco d’Italia” è stato già oggetto di dibattiti politici e mediatici senza lasciare per strada, o su un pavimento parlamentare, feriti e tanto meno morti. Un po’ di misura, ripeto.

Pubblicato sul Dubbio

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