Fantasie, speranze, illusioni sul silenzio post-elettorale di Mattarella

         Obbligato dal suo ruolo al silenzio neutrale, e forse qualche volta anche sofferto, prima, durante e dopo le campagne elettorali, Sergio Mattarella non ha avuto giustamente remore a correre ieri allo stadio olimpico di Roma per festeggiare le vittorie italiane nei campionati continentali di atletica.

         Ma fino a quanto può ritenersi sofferto -ripeto- il silenzio del capo dello Stato sui risultati delle elezioni europee, e di quelle amministrative che le hanno accompagnate? A saperlo, pur al netto del compiacimento che si può immaginare per il 24 per cento del Pd cui lui fece in tempo ad aderire prima di salire sul Quirinale nel 2015 succedendo a Giorgio Napolitano.  E venendo riconfermato come lui alla scadenza del primo mandato settennale, ma -diversamente da lui- per un altro mandato pieno, non ridotto da ragioni di politica o di salute, o di entrambe.

         I retroscenisti più maliziosi, e spesso anche i più immaginari, immagineranno Mattarella “freddo”, persino sotto zero, per l’avanzata della destra in Europa, in generale, e per la conferma di quella al governo in Italia. Non a caso anche oggi qualche giornale tiene a ricordare che il disegno di legge di riforma costituzionale della giustizia -con la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri e i due conseguenti Consigli Superiori della Magistratura, dove le toghe resteranno in maggioranza ma sorteggiate- non ha ancora ottenuto la firma di autorizzazione del capo dello Stato per l’approdo in Parlamento. Ma arriverà, si mettano pure in pace critici ed avversari, se non è già arrivata mentre scrivo.

Mattarella e Crosetto

         Una testimonianza di un atteggiamento del Quirinale verso il governo in carica per niente prevenuto è appena arrivata, in una intervista di ieri a Repubblica, dal ministro della Difesa e collega di partito della premier Guido Crosetto. Che per le sue funzioni in questa congiuntura internazionale alquanto difficile -con guerre in corso ai confini dell’Europa, se non dentro, essendo l’Ucraina, per esempio, socia aspirante dell’Unione proprio dopo l’aggressione della Russia di Putin- è forse l’interlocutore più frequente del presidente della Repubblica, nonché capo delle Forze Armate e presidente del Consiglio Supremo di Difesa,

Crosetto ieri a Repubblica

         “Non mi pare -ha detto Crosetto rispondendo ad una domanda proprio sui rapporti fra governo e Quirinale dopo attacchi rivolti a Mattarella dal senatore leghista Claudio Borghi- che il centrodestra o il governo abbiano alcun problema con il Colle. Io ho un rapporto non solo politico, ma personale con il Presidente. Straordinario, voglio dirlo. In lui ho sempre trovato un consiglio o un aiuto verso il sottoscritto o Meloni”.

Dalla Notizia contiana

         Sarà così -presumo- anche nella preparazione confermata dallo stesso Crosetto del nuovo decreto di nuove forniture militari all’Ucraina. Contro il quale è già insorto il giornale dichiaratamente pentastellato La Notizia con questo titolo molto contiano: “Nuovo pacchetto armi all’Ucraina. A urne chiuse il governo Meloni si rimette l’elmetto”.

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Tutte le prime volte di Giorgia Meloni in meno di 20 mesi di governo

Da Libero

Diavola di una donna, la prima alla guida di un governo in Italia, e per la prima volta di destra nei 78 anni della Repubblica, Giorgia Meloni riuscirà a sfatare -un’altra prima volta nella sua esperienza politica- il mito un po’ sinistro della sfortuna riservata ai vincitori delle elezioni europee. Che nel 1994, per esempio, agli albori della cosiddetta seconda Repubblica, costarono a Silvio Berlusconi la rottura con lo spaventatissimo alleato Umberto Bossi, lasciatosi convincere da Oscar Luigi Scafaro al Quirinale a disarcionare il Cavaliere da Palazzo Chigi, con la garanzia che non avrebbe pagato pegno in un ricorso anticipato alle urne.

         Nel 2014 toccò a Matteo Renzi, ancora fresco di Palazzo Chigi e della segreteria del Pd, al Nazareno, di perdere praticamente la testa per la vittoria alle elezioni europee con più del 40 per cento dei voti. E infilarsi in un’avventura politica e umana che lo portò nel giro di tre anni a perdere la guida prima del governo, con la bocciatura referendaria della sua riforma costituzionale, e poi del partito.

Meloni ai 5 minuti di Vespa

         Nel 2019 toccò a Matteo Salvini prima di vincere le elezioni europee, col 34 per cento dei voti, e poi di perdere la partita ingaggiata contro l’allora alleato leghista Giuseppe Conte. La rottura fu clamorosa anche sul piano scenico: nell’aula del Senato, con l’avvocato presidente del Consiglio nei doppi panni di pubblico ministero e giudice, che lo mandò all’opposizione alleandosi a sorpresa con un Pd -capriola nella capriola- a rimorchio dell’ex segretario Renzi. Che lo convinse a cambiare schieramento senza il passaggio elettorale cui si era impegnato il segretario di turno, Nicola Zingaretti.

Meloni prima del voto

         Ora è toccato vincere le elezioni europee a Giorgia Meloni, appunto. Ma in dimensioni e in circostanze tali, nel contesto di un terremoto politico a livello continentale, e alla vigilia di un G7 a guida italiana, che la mettono in quella che possiamo chiamare la classica botte di ferro.

         L’unica incognita che mi sembra sia davanti alla premier riguarda solo la modalità e la consistenza della sua scontata partecipazione alla definizione dei nuovi equilibri al vertice dell’Unione Europea, e ai relativi passaggi parlamentari di Strasburgo.

Meloni al voto

         Sul piano interno, quello della nostra politica domestica, come la chiamano gli americani, non c’è partita per gli avversari e i concorrenti, reali o potenziali che siano, effettivi o immaginari, della premier appena gratificata peraltro di circa due milioni e mezzo di preferenze.  Che non le servivano e non le servono per andare a Strasburgo, in un gioco fatto peraltro a carte scoperte, e quindi senza l’”inganno” denunciato con particolare furore da Giuseppe Conte prima di entrare mestamente in una riflessione a dir poco critica, ma bastano e avanzano per consolidare al suo posto in Italia la o il presidente del Consiglio. Come l’interessata preferisce essere chiamata in un maschile neutro che personalmente non mi piace, a prescindere dall’opinione, verdetto e quant’altro persino dell’Accademia della Crusca.

         Anche per ragioni direi anagrafiche, senza continuare a perdere il nostro tempo appresso alle vecchie categorie della destra e della sinistra, cui penso che rinuncerebbe anche il mitico Norberto Bobbio se fosse vivo, la Meloni è in linea di continuità con le tradizioni repubblicane. I 45 anni da lei portati all’arrivo alla guida del governo non sono poi molto distanti dai 46 anni di Amintore Fanfani nel 1954, dei 47 di Aldo Moro nel 1963, dei 49 di Bettino Craxi nel 1983, dei 51 anni di Francesco Cossiga nel 1979, dei 49 di Massimo D’Alema nel 1998: il primo post-comunista arrivato al vertice del governo con la spinta di Cossiga, prim’ancora che il post-comunista Giorgio Napolitano arrivasse al vertice dello Stato nel 2006, confermato nel 2013 per la prima volta nella storia del Quirinale repubblicano.

Uno sconsolato Giuseppe Conte

         Che cosa voglio dire con questa rassegna di date e dati ? Semplicemente che avversari, concorrenti e quant’altro di Gorgia Meloni, dentro ma anche fuori d’Italia, dovranno mettersi il cuore o l’anima in pace e rassegnarsi al suo turno di leadership guadagnatosi sul campo, da non predestinata come lei stessa si vantò di sentirsi al suo esordio alla testa del governo.  Per i rosiconi c’è spazio, in fondo a destra o a sinistra, come preferiscono.

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