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Il “rispetto”, bontà sua, annunciato in retromarcia da Matteo Salvini per il presidente della Repubblica, dopo che il collega di partito e di Parlamento Claudio Borghi ne aveva ventilato le dimissioni per troppo europeismo, non può avere chiuso davvero un incidente che ha messo in imbarazzo la premier e il governo. Dove peraltro il capo della Lega è uno dei due vice presidenti del Consiglio e titolare del Ministero -quello della Infrastrutture- col portafoglio maggiore.
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Il “sovranismo europeo” contestato in un tweet dal senatore Borghi a Sergio Mattarella, e rifiutato anche da Salvini in una intervista televisiva non smentita né smentibile dopo essere stata trasmessa dalla Rai, resta lì a pesare come un macigno sulla immagine di una maggioranza e di un governo che sembravano affrancati dal sospetto di un’adesione opportunistica, per niente convinta, al processo d’integrazione nell’Unione, di cui stiamo per rinnovare il Parlamento. Una Unione che aveva saputo e voluto ritrovare nella difesa dalla pandemia del Covid quello spirito solidaristico smarrito, per esempio, con la crisi del debito pubblico greco. E con la stretta della politica di austerità imposta anche all’Italia.
Non si può dimenticare la caduta dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi, uscito praticamente dalle urne del 2008 e sostituito nell’autunno del 2011 da quello di Mario Monti, avvolto in panni più tecnici che politici. Cui lo stesso Berlusconi all’inizio si piegò, condividendo anche il laticlavio conferito al suo successore, salvo un successivo e clamoroso ripensamento, condito di sospetti e poi accuse addirittura di golpismo consumato a livello europeo contro di lui.
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Col tiro incrociato fra un Borghi esplicito sino alla maleducazione istituzionale e un Salvini recuperato all’ultimo momento almeno al “rispetto”, ripeto, per il presidente della Repubblica al suo secondo mandato, il rapporto italiano col processo d’integrazione europeo è tornato indietro rispetto ai tempi di Mario Draghi a Palazzo Chigi. E alla cordiale staffetta fra lui e Giorgia Meloni nell’ottobre del 2024.
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C’è solo da sperare che la situazione migliori dopo il voto di sabato e domenica prossimi, una volta usciti dall’animosità, anzi tossicità della campagna elettorale, che ha diviso gli schieramenti fra di loro e al loro interno, multipolari o bipolari che siano o diventino. La ricomposizione del quadro, diciamo così, per ora è solo nella fantasia ironica e acrobatica di Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera.