Da Danzica a Kiev, da Hitler a Putin, da Mattarella a Macron….

Non più tardi dell’anno scorso, il 19 aprile parlando a Cracovia, il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella riandava con la memoria alla domanda che nel 1939 percorreva l’Europa, a cominciare dalla Francia, se valesse la pena “morire per Danzica”. E al “seguito di quelle incertezze”, cioè all’attacco navale tedesco a Danzica all’alba del 1° settembre e alla conseguente seconda guerra mondiale messa mostruosamente nel conto da Hitler d’intesa con la Russia sovietica di Stalin. Che ne sarebbe stata poi investita cambiando fronte.

L’apertura, oggi, di Repubblica

         Il presidente francese Emmanuel Macron, che pure due anni fa era tra quelli che non volevano umiliare la Russia non più sovietica di Putin ma ugualmente cinica, non si è chiesto in questi giorni se valga la pena morire per l’Ucraina invasa e bombardata anche con armi chimiche, ma è andato ancora più in là. Ha manifestato come meglio o più forte non poteva, non bastandogli evidentemente “i piani Nato” in cantiere secondo Repubblica, la tentazione di mandare truppe francesi in Ucraina per impedirne, o cercare di impedirne il crollo. E ha sorpreso il governo italiano più ancora di Putin. Col quale, o con la Russia del quale, il nostro Paese “non è in guerra”, ha ricordato il titolatissimo ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani. Che potrebbe trovarsi fra qualche settimana candidato inconsapevole, come il Cristoforo Colombo scopritore dell’America, al vertice dell’Unione Europea, battendo  paradossalmente il candidato italiano di Macron: volente o volente, l’ex premier Mario Draghi.

La vignetta del Corriere della Sera

         Neppure l’imponente ministro della Difesa Guido Crosetto si sente in guerra con Putin e la sua Russia, pur non dimenticando -ha detto in una intervista al Corriere della Sera- che “ogni giorno vengono sganciati diecimila, ripeto diecimila, granate di artiglieria su obiettivi civili, su persone, su infrastrutture” di un paese che siamo impegnati da più di due anni ad aiutare anche militarmente, cioè a difendere. E nella difesa è obiettivamente difficile, diciamo pure impossibile, se non a costo di mentire o tradire, separarsi dalla guerra in certe condizioni. Che sono poi quelle in cui si trova l’Ucraina ancora non “denazificata” come nei propositi dichiarati urbi ed orbi da Putin, con la benedizione del Patriarca di Mosca, in apertura della sua originaria “operazione speciale” di polizia.

Alessandro Sallusti sul Giornale di ieri

         “Se già in tanti non vogliono “morire per l’Ucraina” -ha scritto ieri il direttore Alessandro Sallusti sul Giornale, come nel 1939, aggiungo io, non volevano morire per Danzica- figuriamoci quanti sarebbero disposti a tirare le cuoia per la Francia di Macron”. Già, perché -è convinto Sallusti, forse anche come Tajani, Crosetto ed altri che non hanno avuto la franchezza di dirlo- Macron si sarebbe inoltrato di più sul terreno della guerra per motivi di bassa, bassissima, fognaria politica interna: per mettere in difficoltà la  destra francese in crescita nei sondaggi elettorali per il voto europeo del 9 giugno.

Carlo Nordio liberato dall’angolo nel quale era stato immaginato….

Dal Corriere della Sera

Altra sorpresa di Giorgia Meloni in questa lunga campagna elettorale per il voto del 9 giugno di rinnovo del Parlamento europeo. Al quale la premier si è candidata come capolista del suo partito in tutte le circoscrizioni non per andare davvero a Strasburgo ma -dichiaratamente e legittimamente, stando alle leggi in vigore- per misurare la sua popolarità. Cioè il suo consenso da leader di partito e da presidente del Consiglio.

La premier ha tolto il ministro della Giustizia Carlo Nordio -il suo ministro, da lei fortemente voluto in precedenza anche come candidato al Quirinale- dalla naftalina o addirittura dalla cella o cantina dove cronisti e retroscenisti lo avevano metaforicamente collocato, chiuso a chiave praticamente dalla stessa presidente del Consiglio. Che non ne avrebbe condiviso tempi e forse anche contenuti di certe sortite o iniziative nel timore delle reazioni soprattutto del sindacato delle toghe. Del quale Nordio non ha mai fatto parte quando era magistrato, non volendo essere neppure tentato dall’idea di intrupparsi in qualche corrente, e tanto meno sembra temere, ora che è guardasigilli, reazioni o trappole. Egli si vanta, piuttosto, di tenere con i rappresentanti dell’associazione di categoria rapporti persino cordiali, nonostante il dileggio che gli riservano alcuni magistrati eccellenti, diciamo così, ancora in servizio o prevalentemente in pensione.

Luciano Violante

         Con Nordio, appunto, e con gli esperti tecnici e politici della maggioranza la premier ha voluto concordare ieri, fra una rassegna di truppe e altri impegni, le basi delle modifiche costituzionali che saranno proposte a breve al Parlamento per separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e il Consiglio Superiore della Magistratura, che se ne occuperà in due sezioni distinte elette forse con una preventiva selezione effettuata con sorteggio. E per affidare ad un’alta Corte i procedimenti ai quali gli uni e gli altri potranno essere sottoposti, secondo una vecchia proposta avanzata a suo tempo dall’insospettabile Luciano Violante, già magistrato, già presidente della Camera e già responsabile dei problemi della giustizia del Pci, o capo -come fu definito- del “partito dei giudici”, o dei pm più in particolare. Di lui è rimasta famoso anche l’auspicio che la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri fosse evitabile separandole almeno da quelle dei giornalisti.

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Macron fa sorridere Mario Draghi sotto i baffi che non ha….

Macron e Draghi d’archivio

Sarà “filosofia”, come Giorgia Meloni l’ha definita una volta per sottrarsi a Bruxelles alla domanda di un giornalista, ma l’immagine di Mario Draghi in corsa proprio per Bruxelles, alla presidenza della Commissione o del Consiglio dell’Unione, è tornata prepotente nello scenario del dopo-elezioni del 9 giugno con quell’”approccio europeo” riconosciuto da Emmanuel Macron alla pur sovranista premier italiana. Senza il cui consenso, quanto meno, potrebbe diventare irrealizzabile il progetto, il sogno -chiamatelo come volete- del presidente francese di portare proprio il predecessore della Meloni, sorridente sotto i baffi che non ha, al vertice dell’Unione.

Meloni e Crosetto ieri

         E’ significativo, a dir poco, che il riconoscimento dell’”approccio europeo” -ripeto- alla Meloni sia arrivato nel contesto di una sortita del presidente francese sulla possibilità di un intervento di truppe occidentali in Ucraina per evitarne il crollo sotto l’offensiva spietata dei russi, sospettati peraltro di avere già fatto ricorso ad armi chimiche contro il paese limitrofo violando altri trattati internazionali. Sarebbe per l’Europa, anche se con l’intervento delle sole truppe di Francia, cui certo non si aggiungerebbero quelle italiane secondo un annuncio del ministro della Difesa Guido Crosetto, un passo ulteriore verso il modello del continente forte immaginato da Draghi.  Il quale con quella “riforma radicale” dell’Unione prospettata di recente si è praticamente offerto a gestirla.

Draghi e Meloni d’archivio

         Succedutagli a Palazzo Chigi un anno e mezzo fa in continuità di linea sulla politica estera, da lei condivisa nei mesi precedenti anche stando formalmente all’opposizione del governo da lui guidato, la Meloni è in difficoltà non solo “filosofiche”, o di metodo, parlandone o pensandone prima dei risultati elettorali del 9 giugno in una postazione di vertice nell’Unione.

Giorgia e Ursula d’archivio

Ci sono motivi molto meno filosofici e assai più concreti e imbarazzanti che frenano la premier. Innanzitutto -credo- ci sono i rapporti notoriamente eccellenti con la presidente uscente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, candidata alla conferma dal Partito Popolare di appartenenza, sia pure senza un consenso unanime di quella formazione politica.

Antonio Tajani

         Altre resistenze derivano paradossalmente dalla nazionalità dell’interessato, che potrebbe penalizzare ambizioni del centrodestra italiano, cui egli non appartiene perché apartitico. Ambizioni anche di altissimo livello che potrebbe già avere, per quanto negate, o potrebbe maturare un altro appartenente al Partito Popolare, addirittura uno dei vice presidenti, come Antonio Tajani: il successore di Silvio Berlusconi alla guida di Foza Italia.  

Tajani peraltro è già stato presidente del Parlamento di Strasburgo, conservando relazioni personali importanti sopravvissute a momenti di difficoltà vissuti quando Berlusconi cantò fuori comprendendo Putin nello scontro con l’Ucraina. Ed è tuttora vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri nel governo Meloni 

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Quanti soccorsi al generale Vannacci nella contestata corsa all’Europarlamento

il generale Roberto Vannacci

Com’è accaduto col suo primo libro sul “mondo al contrario”, ma pare non si stia ripetendo col secondo sul suo “coraggio” e le sue “incursioni”, gli avversari o soltanto critici del generale Roberto Vannacci sono anche i suoi soccorritori. Ora, aumentandone la notorietà, gli stanno tirando la volata nelle elezioni europee alle quali Matteo Salvini lo ha candidato nelle liste della Lega non so, francamente, se per aumentarne la pescosità, come deve avere pensato, o ridurla ulteriormente. Come pare che siano in molti fra i leghisti a temere, ma un po’ anche a sperare per poi processare meglio, o di più, un capo salito troppo in alto nelle precedenti elezioni europee, superando il 34 per cento dei voti, per sopravvivere più di tanto sotto il 10, e persino il 7 per cento cui è sceso nelle ultime elezioni locali e nei sondaggi a livello nazionale.

Vannacci ostenta l’invettiva del Pd

         Vannacci…tuoi, sussurrano gli antipatizzanti non rendendosi conto che anche questa imprecazione rischia di favorirlo. Come la paura avvertita dalla titolare di quell’auditorium o teatro di Cremona che prima gli ha concesso e poi negato l’ospitalità per la presentazione elettoralistica della sua seconda fatica letteraria. Si è spaventata, la poveretta o sventurata, della mobilitazione della Digos per garantire la sicurezza al candidato sinora più alto in grado, almeno militare, al Parlamento europeo.  Che, contestatissimo ieri con disordini anche a Napoli, ha ripiegato verso una quindicina di chilometri di distanza da Cremona accettando la sala consiliare offertagli per il 10 maggio dal Comune di Robecco d’Oglio, di poco più di duemila abitanti ma provvisto di due frazioni, entrambe a 48 metri di altezza, protette con l’intero territorio municipale da san Biagio. Che è anche, a livello mondiale, il protettore dei malati di gola: non nel senso gastronomico, di amanti cioè dei dolci ed esposti al rischio di diabete.

Umberto Bossi

         Soccorrono il generale, vittimizzandolo forse più di quanto non meriti, anche quelli che si sono proposti di contestarne la candidabilità -codice militare in mano- per avere lavorato al servizio dell’Esercito, e della Patria naturalmente, con le dovute maiuscole, in una delle circoscrizioni dove Salvini lo ha messo in pista per il volo a Strasburgo.  Male che vada, gli resteranno le altre piste, si sarà detto il vice presidente del Consiglio, ministro delle Infrastrutture e conduttore del Carroccio. Dove il generale potrà aiutarlo a restare, ma anche a scendere facendosi assai male sotto gli occhi soddisfatti di Umberto Bossi in marcia verso il compimento tardo-estivo, il 19 settembre, degli 83 anni. Vergine, di segno zodiacale, contro i pesci di Salvini e la bilancia di Vannacci.

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Tutte le …sfortunate vittorie italiane nelle elezioni europee

Dal Dubbio

Fratelli e sorelle d’Italia, lanciati al seguito di Giorgia Meloni verso il traguardo elettorale del 9 giugno con buone probabilità di tagliarlo da vincitori a livello nazionale, non sono evidentemente scaramantici. Hanno sfidato e stanno sfidando anche la sorte, essendo solido l’elenco delle vittime, paradossalmente, delle vittorie in questo tipo di elezioni.

I funerali di Enrico Berlinguer nel 1984

         Il Pci dell’Enrico Berlinguer appena scomparso nel giugno del 1984,  favorito anche dall’emozione popolare provocata da quella morte del leader sul campo, colto da ictus durante un comizio, sorpassò la Dc, sia pure di poco, anzi pochissimo. L’una si fermò al 32,9 e l’altro salì al 33,3 per cento dei voti.  Ma non più tardi dell’anno dopo, sotto la guida di Alessandro Natta che ne aveva ereditato anche il proposito di sfidare il governo di Bettino Craxi sulla strada di un referendum contro i tagli anti-inflazionistici alla scala mobile dei salari, perse rovinosamente. Quasi come nel 1974 era accaduto alla Dc guidata da Amintore Fanfani nel referendum contro il divorzio.

Silvio Berlusconi e Umberto Bossi prima della rottura nel 1994

         Silvio Berlusconi con la sua Forza Italia vinse nel 1994 le elezioni europee salendo in pochi mesi dal 20 per cento e rotti delle politiche di marzo al 30 per cento di giugno. Ma creò un tale panico nell’alleata Lega di Umberto Bossi- scesa dall’8 e rotti per cento al 6,5 – da subirne l’abbandono e la conseguente crisi di governo. Che fu aperta con la garanzia data al “senatur” dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che non avrebbe pagato lo scotto di elezioni immediatamente anticipate. Esse sarebbero arrivate l’anno dopo, quando la sinistra sotto l’Ulivo si era attrezzata con Romano Prodi per una rivincita.

Matteo Renzi

         Una ventina d’anni dopo ancora Matteo Renzi, fresco di conquista della segreteria del Pd e della presidenza del Consiglio, ai danni di un Enrico Letta illusosi della serenità promessagli dall’allora amico, superò addirittura il 40 per cento dei voti nelle europee. Ma  meno di due anni dopo sarebbe rimasto con le pezze al sedere, sconfitto prima nel referendum sulla sua riforma costituzionale e poi nella scissione del partito promossa da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Roberto Speranza, in ordine rigorosamente alfabetico. Seguì naturalmente la sconfitta nelle elezioni ordinarie del 2018: quelle della vittoria delle 5 Stelle grilline, arrivate addirittura alla guida del governo con l’allora quasi sconosciuto ma orgogliosamente “avvocato del popolo” Giuseppe Conte.

Matteo Salvini al Papeete nel 2019

         L’anno dopo ancora la Lega  guidata da Matteo Salvini, e autorizzata dall’ancora alleato elettorale Berlusconi a sperimentare la collaborazione di governo con i grillini, sbaragliò tutti nelle europee col 34,26 per cento dei voti. Proprio tutti: da Berlusconi a Grillo. E, inebriato da quella vittoria più che dagli aperitivi del Papeete contati dai cronisti sulle spiagge romagnole, “il capitano” promosse una crisi di governo. Che però lo avrebbe portato non alle elezioni anticipate, accarezzate inutilmente come da Berlusconi quando era caduto per mano di Bossi, ma al suo passaggio all’opposizione, E alla nascita del secondo governo Conte, che lui -sempre Salvini- non aveva messo nel conto fidandosi dell’impegno pubblicamente preso dall’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti di non muoversi dall’opposizione senza un passaggio elettorale.

Quell’impegno fu tradito dal fratello del commissario Montalbano con il consenso,  anzi sotto la spinta di un Renzi ancora per poco nel Pd, da cui sarebbe uscito ad operazione compiuta per meglio sabotare dall’interno il nuovo governo lungo la strada. Che fu breve, essendo il Conte numero 2  durato faticosamente per meno di un anno e mezzo, sostituito da Sergio Mattarella con Mario Draghi avvertito un po’ dal premier uscente come un carro attrezzi.

Giorgia Meloni a Pescara domenica scorsa

E’ tutta non dico storia, anche se siamo partiti dal lontano 1984, cioè dal secolo scorso, ma cronaca incontrovertibile. Che fratelli e sorelle d’Italia -ripeto- baldanzosamente guidati da Giorgia, il cui nome deve bastare ed avanzare per essere votata, anzi plebiscitata, stanno coraggiosamente sfidando, bisogna a questo punto ammettere. “Audentes fortuna iuvat”, dicevano i latini.

Pubblicato sul Dubbio

Il bacio galeotto della ginestra fra Conte e la Schlein, o viceversa

Gli ombrelli al Circo Massimo di Roma

Più per i comizi di rigore dei sindacalisti, più per la pioggia dispettosa, più per il concertone tra l’acqua e il fango del Circo Massimo a Rona, la festa del lavoro di questo 2024 forse passerà non dico alla storia ma almeno alla cronaca politica per quel bacio che si sono scambiati Giuseppe Conte ed Elly Schlein sui prati di Portella della Ginestra. Che il 1° maggio del 1947 furono insanguinati dall’irruzione della banda di Giuliano col bilancio di undici morti e numerosi feriti.

La segretaria del Pd a Piana degli Albanesi

         Giunti separatamente sul posto, a Piana degli Albanesi, e rimasti a lungo separati nelle cerimonie e manifestazioni rievocative, ma anche di impegno politico e sindacale per il futuro, i due concorrenti alla guida di quello che, più o meno largo, dovrebbe essere o diventare “il campo dell’alternativa” al centrodestra al governo, come lo chiama Pier Luigi Bersani, si sono salutati e appunto baciati.

La Schlein sui Prati della Ginestra

         Il fair play, diciamo così, è salvo. Non si sa se risulterà salvo anche il destino della Schlein come segretaria nel Pd con l’aria elettorale che tira al Nazareno anche o soprattutto a causa dei rapporti non di alleanza ma di concorrenza persino feroce cercata dall’ex premier grillino, e subìta dalla sua controparte, sia pure tra qualche strappo verbale. E particolarmente rumoroso nella Puglia di un governatore piddino, Michele Emiliano, che fa ben poco per non apparire  condizionato più da Conte che dalla segretaria del proprio partito.

Quel riguardo politico, più che garantista, riservato ancora a Fini

La mancata uscita dei giornali per la festa del lavoro ha allungato la vita a quelli di ieri. Dove la condanna di Gianfranco Fini, in primo grado, a 2 anni e 8 mesi di carcere in un processo per riciclaggio durato 7 anni si trovava sulle prime pagine. Non tutte però. La notizia era relegata all’interno, senza nemmeno un rigo di richiamo in prima su non pochi quotidiani: dal Secolo XIX di Genova ad Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, dal Gazzettino di Venezia al Mattino di Napoli, dalla Gazzetta del Mezzogiorno di Bari al manifesto ancora orgogliosamente comunista, dalla Ragione di Davide Giacalone al Riformista di Claudio Velardi, che da buon garantista attende l’eventuale condanna definitiva, improbabile anche per l’incombente prescrizione, dal Quotidiano del Sud a ItaliaOggi, dal Secolo d’Italia del fu partito di Fini al -pensate un po’- Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che vive di condanne di primo grado sparate come definitive, a soprattutto Repubblica.

Alessandro Sallusti al Foglio

         La riguardosa  distrazione, chiamiamola così, del Fatto è in qualche modo coerente con tutta la simpatia che a suo tempo Fini si guadagnò da certe parti contestando nel centrodestra Silvio Berlusconi e tentando, pur da presidente della Camera eletto su sua sostanziale designazione, o rassegnazione, di rovesciarne il governo. La distrazione di Repubblica ha forse qualcosa a che fare, sul filo della coerenza e della memoria, con una circostanza ricordata da Alessandro Sallusti parlando col Foglio dello scoop del suo Giornale sulla vendita di una casa del partito di Fini a Montecarlo, da cui sono nate la lunga vicenda giudiziaria e la fine della carriera dell’ex leader della destra italiana. “Certa stampa, Repubblica in testa, si limitò a scrivere articoli feroci contro di noi: doveva essere tutta una montatura organizzata da Berlusconi e dai suoi servi”, ha detto Sallusti, sarcastico.

Dalla prima pagina del Foglio di ieri

         Ma il direttore del Giornale ha ricordato anche altro, utile a valutare uomini e situazioni. Egli ha raccontato che l’inchiesta del Giornale sulla casa di Montecarlo divenne il settimo di nove punti elencati da Fini, in un incontro con Berlusconi, per trattare la sua permanenza nel centrodestra, dove scalciava da tempo, insofferente della leadership dell’uomo di Arcore. Egli chiese il licenziamento dello stesso Sallusti e di Vittorio Feltri dal giornale di famiglia, cui Berlusconi cercò di sottrarsi dicendo a Sallusti per telefono, alla presenza dell’interessato, che bisognava “chiedere scusa a Fini e pubblicare un relativo articolo in prima pagina”, di cui era stata già preparata “una bozza”. Salvo poi telefonare a bassa voce “dal cesso” allo stesso Sallusti per dirgli: “Ma tu sarai mica matto a pubblicare quella roba lì”. “Tutta una sceneggiata. Era fatto così il Cavaliere”, lo rimpiange ancora il direttore del Giornale.

      Fini leggendo sarà rimasto peggio che sentendo la sentenza di condanna in piedi, fra i suoi avvocati, nell’aula del tribunale di Roma prima di sedersi e bere un po’ d’acqua.

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Quel sindaco senza la fascia d’ordinanza per ricordare il delitto Ramelli

Più che minore, come potrà essere apparsa ad altri di fronte a tutto ciò che più vistoso e persino sanguinario ci accade di vedere, mi sembra miserabile la vicenda della celebrazione, a Milano, del 49.mo anniversario della morte dell’attivista di destra Sergio Ramelli, ucciso a sprangate dagli antagonisti di sinistra.

         “In nome di una pacificazione nazionale che accomuna in una unica pietà tutte le vittime innocenti della nostra storia e come monito alle generazioni future affinchè simili fatti non debbano più accadere”, dice giustamente un ceppo sul quale è stata deposta una corona del Comune ambrosiano

Il sindaco di Milano Beppe Sala alla cerimonia per Sergio Ramelli

         Il sindaco di Milano Beppe Sala ha ereditato l’abitudine -sembra, essendosi la cosa ripetuta anche ad opera del suo predecessore di sinistra Giuliano Pisapia- di partecipare a questa celebrazione dimenticando, omettendo o quant’altro di indossare la fascia tricolore che ne contraddistingue generalmente  carica e funzioni.

         Il presidente del Senato Ignazio La Russa, milanese di consolidata adozione e siciliano di vantate origini, se n’è doluto.  A mio modesto avviso, non a torto. E alle spiegazioni di più o mena natura casuale date dal sindaco, che non ha risparmiato o negato la fascia tricolore solo a questa cerimonia, egli ha reagito osservando, anzi ripetendo ironicamente il vecchio proverbio sull’abito che non fa il monaco. Neppure un sindaco, quando non lo è. Ma Sala purtroppo lo è. Ne può essere considerato o scambiato per qualche figura del teatro pirandelliano.

La celebrazione ….privata del delitto Ramelli

         Di fronte a celebrazioni di pacificazione che diventano di controversa lettura e comvinzione, a dir poco, non può stupire che le parti, non sentendosi per niente pacificate e moralmente risarcite,  continuino a muoversi e manifestare alla loro maniera, di permanente lotta: con braccia levate, annessi e connessi, nella commemorazione- nel nostro caso- del povero Ramelli, tra le proteste e le polemiche strumentali alla lotta politica del momento.    

         Abbiano appena festeggiato, pur tra polemiche, denunce, tensioni di piazza e simili, i 79 anni dalla liberazione dal nazifascismo. Oggi festeggiamo la festa del lavoro, e del ponte che si è portato appresso. Quando festeggeremo finalmente il ritorno al buon senso, che d’altronde rimpiangeva già Alessandro Manzoni raccontando della peste proprio a Milano del lontano 1630  nel suo bellissimo romanzo mai abbastanza letto e riletto? Nel quale possiamo ben ritrovarci troppo di frequente, sia a sinistra, sia a destra, sia al centro. Desolatamente.

La parabola della destra, ma al rovescio, da Fini alla Meloni

La lettura della sentenza di condanna dell’ex presidente della Camera

         Giorgia Meloni -o Giorgia, come preferisce essere chiamata e votata alle elezioni europee di giugno- ha dietro di sé un anno e mezzo di guida del governo e davanti altri tre e mezzo, prima delle elezioni del 2027 per il rinnovo ordinario del Parlamento. Gianfranco Fini, già suo mentore e leader, che la portò prima alla vice presidenza della Camera e poi al governo come ministra di Silvio Berlusconi, spera tra appello, forse anche Cassazione e prescrizione di risparmiarsi i due anni e otto mesi di carcere rimediati ieri a Roma, dopo ben sette anni di processo, per l’affaraccio di Montecarlo. Dove autorizzò -come le ha contestato la sentenza- la vendita a buon mercato di una casa ricevuta dal suo partito in eredità da una generosa e nobile elettrice e diventata oggetto di un’avventurosa, a dir poco, speculazione.

   Prima ancora della condanna pur provvisoria di un tribunale della Repubblica, che gli dà il diritto, per carità, di godere della cosiddetta presunzione di innocenza, Fini ha subìto per quella disgraziata vicenda la fine della sua carriera politica. Concretizzatasi, in particolare, nella mancata rielezione al Parlamento, pur da presidente uscente della Camera, sulla scialuppa offertagli nel 2013 dall’allora premier Mario Monti.  

Fini dei tempi d’oro con una giovanissima Giorgia Meloni

         Fra i due fatti, situazioni, circostanze di incontrovertibile realtà ricordati all’inizio c’è tutta la parabola, paradossalmente al rovescio, della destra italiana sdoganata da Berlusconi più di trent’anni fa inserendola nella coalizione improvvisata con successo per evitare la vittoria della “gioiosa macchina da guerra” -ricordate?- allestita da Achille Occhetto: l’ultimo segretario del Pci travolto dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo e primo del Pds contrassegnato da una quercia. Ai cui piedi erano stati deposti la falce e il martello della precedente formazione politica. O “ditta”, come forse già allora Pier Luigi Bersani.

Titolo della Notizia

          C’è una certa, dovuta e anche meritata tristezza per Fini constatandone le condizioni e paragonandole a quelle della sua ex collega di partito Meloni. Una tristezza aggravata, non attenuata, dalla guardia incautamente abbassata da lui, che pure sembrava così attento, in un’attività politica svolta anche con coraggio, sino a fare uscire la destra dalla vecchia “casa del padre”, come la chiamò, e da riconoscere “il male assoluto” nel fascismo da cui provenivano i più anziani, o meno giovani, dell’allora Alleanza Nazionale, già Movimento Sociale.  Lo ha tradito non solo e non tanto la disinvoltura storicistica rimproveratagli nella sua area di provenienza, o l’insofferenza per la leadership di Berlusconi, che egli voleva superare o archiviare anzitempo, quanto il cuore. Cioè, banalmente l’amore per una donna e la partecipazione alla sua famiglia, dove quell’affaraccio di Montecarlo si sviluppò. Diavolo di un uomo, reso evidentemente non abbastanza scaltro dalla politica, che pure di scaltrezza è scuola, come dimostra la nuova leader della destra.

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