Anche Giovanni Toti cade nella trappola del “portiere di notte”

Bruno Vespa

Sarà colpa della mia vecchiaia, e di una certa conoscenza che ho del mio mestiere e dei miei colleghi, fra i quali ce ne sono di troppo invidiosi degli altri di maggiore successo e notorietà, per cui si divertono -diciamo così- a contestarli con tutte le pezze di appoggio possibili e immaginabili: dall’Agicom in su e in giù. Ma non riesco ad appassionarmi alla vicenda del duello televisivo fra Giorgia Meloni ed Elly Schlein vanificatosi fra le mani, le parole, le proteste e quant’altro di Bruno Vespa, che riteneva di averlo acquisito nella sua postazione alla Rai come in un fortino.

         Mi interessano, e inquietano, di più le turbe procurate a Giovanni Toti dopo dieci giorni di arresti domiciliari. Ai quali l’ha confinato la magistratura sotto l’accusa di corruzione, falso e non se o cos’altro. Turbe intese come plurale di turba a sua volta intesa, secondo il dizionario della lingua italiana che ho appena consultato, come “disturbo di natura funzionale, anche psichica”.

Dal Corriere della Sera

         Inchiodato, secondo i tifosi dell’accusa e i suoi avversari politici, ma forse anche qualche falso amico o alleato, alle foto scattategli da presidente della regione liguria salendo o scendendo dal ferro da stiro nautico del ricchissimo Aldo Spinelli, e a spezzoni di intercettazioni telefoniche distribuiti e pubblicati a rate giornaliere, Toti non vede l’ora di essere interrogato dagli inquirente perché “dimostrerò -ha titolato in prima pagina il Corriere della Sera-  che non ho commesso reati”. Ma pochi giorni fa, tra le solite proteste dei soliti giustizieri o manettari, è stato proprio un celebre ex pm oggi ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a ricordare che non tocca all’accusato di dimostrare la propria innocenza, garantitagli dalla Costituzione sino a condanna definitiva, ma all’accusa dimostrare le sue contestazioni di reato. Un’accusa, peraltro, che dovrebbe anche cercare, e non occultare, prove a discarico,

         Il povero Toti è insomma caduto, volente o nolente, nella trappola del rapporto distorto fra l’aguzzino e la vittima così ben rappresentato cinematograficamente dal film del 1974 intitolato “Il portiere di notte” e ambientato in un albergo di Vienna del 1957.

Dal Riformista

         Anche queste turbe rimandano alle “mani pulite” di una trentina d’anni fa, di cui il Riformista ha riproposto in prima pagina tre dei protagonisti o attori in una foto con questo titolo: “Non è cambiato niente”. Sommario, o sottotitolo: “Carcere preventivo e diritti negati, il caso Toti ricorda una certa storia”. Spero non comprensiva dei suicidi che allora l’accompagnarono.

Dal Fatto Quotidiano

         Pure Pier Camillo Davigo, uno dei tre pubblici ministeri riproposti in foto dal Riformista, nel frattempo passato per un’esperienza opposta a quei tempi, si è rifatto sentire o leggere, naturalmente sul Fatto Quotidiano, per dire che “solo negli Stati canaglia è lecito il caso Genova”. Che lui naturalmente vede come vedeva ai suoi tempi Tangentopoli e dintorni. Mi fermo qui per risparmiarmi e risparmiarvi altre turbe.

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Mattarella si tira fuori, risentito, dalle polemiche contro il premierato

Dal Dubbio

Un po’ me l’aspettavo, ma è ugualmente clamorosa la reazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella -solitamente paziente e, all’occorrenza, anche spiritoso- al tentativo compiuto, volente o nolente, dal Foglio di attribuirgli l’ispirazione, o qualcosa di simile, del duro intervento della senatrice a vita Liliana Segre nell’aula di Palazzo Madama contro il cosiddetto premierato proposto dal governo di Giorgia Meloni.

         “Affermare -ha scritto Giovanni Grasso, capo dell’ufficio stampa del Quirinale, al giornale fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa- che nei suoi interventi in Senato la senatrice Liliana Segre metta soltanto la sua voce, perché il pensiero non sarebbe suo ma del Presidente della Repubblica, oltre che del tutto infondato, è profondamente offensivo per la senatrice che, non soltanto per la sua storia, ha diritto al più grande rispetto”. Sono seguiti tuttavia i consueti “cordiali saluti”.

L’intervento di Liliana Segre al Senato

         Pur relegata, ma forse anche per questo, nella posta del Foglio come una qualsiasi lettera che si riceve e si è tenuti a pubblicare, e ammantata -ripeto- nella conclusiva cordialità dei saluti, la reazione del Quirinale è di una severità e durezza significative. Ed anche comprensibili per i tentativi ricorrenti da tempo di trascinare il presidente della Repubblica nella polemica su una riforma cui si attribuisce, a torto o a ragione, la volontà o comunque l’effetto di ridurre drasticamente il ruolo del capo dello Stato. Che sarebbe obbligato -come ha appunto detto la senatrice Segre nell’aula di Palazzo Madama intervenendo nella discussione generale-  a “guardare dal basso in alto”, in condizioni di soggezione, un presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo. Mentre lui, il presidente della Repubblica è stato e continuerebbe ad essere eletto solo dal Parlamento, sia pure in seduta congiunta e con la partecipazione dei delegati dei Consigli delle Regioni.

I corazzieri, che proteggono il Capo dello Stato

         A tirarlo fuori da una polemica a dir poco imbarazzante, come parte in causa anche sul piano personale, non sono valse né il silenzio impostosi su questa materia da Mattarella né la fretta, direi la rapidità, con la quale egli a suo tempo con la propria firma autorizzò- secondo il dispositivo del quarto comma dell’articolo 87 della Costituzione- la presentazione alle Camere del disegno di legge del governo sulla riforma che porta ormai il nome del premierato.

         Trovo pertanto comprensibile e condivisibile la reazione opposta dal capo dello Stato all’ultimo tentativo di trascinarlo dove lui non vuole: ultimo in ordine di tempo ma sicuramente penultimo, potendosene e dovendosene prevedere ancora altri per le cattive abitudini di una certa politica e -ahimè- di una certa informazione. Della quale il meno che si possa dire e scrivere è che sia spesso poco corretta.

Lo dico e lo scrivo con levità nonostante  il direttore del Foglio, con la sua ciliegina rossa d’ordinanza, non abbia sentito il bisogno, il dovere e quant’altro di scusarsi ma abbia praticamente insistito nella rappresentazione fatta sul suo giornale del discorso della senatrice a vita Liliana Segre. E abbia declassato a “rettifica” quella che è stata più semplicemente o drasticamente una smentita. Errare è umano ma perseverare è diabolico, dice un vecchio proverbio ereditato dai latini come tanti altri di provata saggezza.

Pubblicato sul Dubbio

Il Quirinale si offende col Foglio che lo aveva visto dietro l’attacco della Segre al premierato

Dalla posta del giornale diretto da Claudio Cerasa

Al Quirinale non hanno per niente gradito il sospetto del Foglio di una mano, o qualcosa del genere, del presidente della Repubblica dietro o nel recente intervento di Liliana Segre, da lui nominata senatrice a vita nel 2018, contro l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Che è contemplata dalla riforma costituzionale proposta dal governo di Giorgia Meloni ed è al primo passaggio parlamentare a Palazzo Madama.  

         Al sospetto, contenuto particolarmente in un articolo di Carmelo Caruso allusivo al discorso della senatrice a vita, analogo per certi versi a quello di Elena Cattaneo, senatrice a vita pure lei, ma nominata nel 2013 dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, il capo dell’ufficio stampa del Quirinale, Giovanni Grasso, ha opposto questa reazione: “Affermare che, nel suo intervento al Senato, la senatrice Liliana Segre metta soltanto la sua voce -perché il pensiero non sarebbe suo ma del presidente della Repubblica, è, oltre che del tutto infondato, profondamente offensivo per la senatrice che, non soltanto per la sua storia, ha diritto al più grande rispetto”.

La senatrice a vita Liliana Segre

         I “cordiali saluti” con i quali si conclude lo stesso la lettera del Quirinale non hanno trattenuto il direttore del Foglio Claudio Cerasa da una replica nella quale in pratica è stato ribadito il sospetto. “Massimo rispetto”, ha assicurato Cerasa firmandosi con la solita ciliegina rossa. “Abbiamo scritto però -ha puntualizzato il direttore- questo: “Si sa che la voce è di Segre, ma i pensieri di Segre nascono dagli scambi con Mattarella”. Si parlava di premierato. Registriamo la rettifica. Grazie”.

         Il Quirinale insomma è offeso. Ma un po’ lo sembra anche Il Foglio, che rimane convinto, nonostante “la rettifica”, cioè la smentita, che lo zampino di Mattarella nel discorso della senatrice Segre ci sia stato. In quello della senatrice Cattaneo, sia pure di diversa e più vecchia nomina presidenziale, non si sa.

Giovanni Grosso, portavoce del presidente della Repubblica

         La polemica non è per niente marginale, specie considerando che non è la prima volta che si sia tentato -e non sarà probabilmente neppure l’ultima- di trascinare il capo dello Stato nella controversia sulla riforma costituzionale all’esame del Senato sostenendo che le sue prerogative siano desinate ad essere mutilate dall’elezione diretta del presidente del Consiglio. Che, scelto direttamente dai cittadini, sovrasterebbe per rappresentatività ed altro sul presidente della Repubblica eletto “solo” dal Parlamento.

         Mattarella ha voluto tenersi rigorosamente fuori da questa polemica rappresentazione di una riforma il cui disegno di legge si è affrettato a controfirmare per l’”autorizzazione” alla presentazione alle Camere richiesta dall’articolo 87 della Costituzione. Egli ha pertanto tutto il diritto, a mio personale avviso, di sentirsi offeso se qualcuno cerca, pur nel legittimo esercizio della libertà di stampa e simili, di coinvolgerlo in cose dalla quali si è tenuto rigorosamente fuori.

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Gli effetti controversi della scarcerazione di Ilaria Salis a Budapest

Ilaria Salis

         Al netto dell’enfatica, per quanto metaforica, statua eretta dal manifesto per celebrarne la scarcerazione disposta finalmente dai giudici di Budapest per lasciarle attendere in libertà, col braccialetto di sorveglianza al posto, l’esito del suo processo, la vicenda di Ilaria Salis mi sembra essersi complicata, piuttosto che semplificata, alleggerita e quant’altro. Mi sembra pertanto prematura anche la ricerca, nella quale si sono impegnati in tanti, della giusta destinazione dei ringraziamenti per l’uscita della giovane italiana dal carcere ungherese dove è stata trattenuta per 15 mesi sotto l’accusa di avere aggredito dei manifestanti di estrema destra, ostentatamente nazisti.

Da Libero

         Il governo italiano ha rivendicato col vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani la quota di grazie che gli spetterebbe per l’azione svolta dietro le quinte. Il padre della giovane, “ingrato” secondo la protesta di Libero su tutta la sua prima pagina di oggi, non ha gradito e tanto meno condiviso, attribuendo probabilmente il merito della scarcerazione alla visibilità politica assicurata alla figlia dalla sinistra che l’ha candidata alle elezioni europee. Ma una sinistra -quella rossoverde di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli- cosi scarsa nei sondaggi, così al di sotto della soglia del 4 per cento dei voti richiesta per l’accesso al Parlamento europeo, da essere sospettata di avere cavalcato il caso di Ilaria più per sé che per lei.

Dalla Verità

         Proprio la scarcerazione nel frattempo intervenuta, togliendo alla candidata l’urgenza di una condizione di europarlamentare che avrebbe dovuto obbligare la magistratura ungherese a rilasciarla, rischia di nuocere al successo della corsa a Strasburgo. E’ il sospetto, fra gli altri, della Verità di Maurizio Belpietro. Che, reduce da una giornata dedicata alla premier Giorgia Meloni, ha oggi titolato che “i giudici rovinano la campagna elettorale a Fratoianni”.

La Salis ancora in manette al processo

         Per quello che può contare, per carità, è anche il mio sospetto. E forse pure quello di chi al Nazareno nelle scorse settimane è stato prima tentato e poi dissuaso dall’idea di candidare Ilaria Salis alle europee nelle liste del Pd già così affollate di esterni e simili. Dei quali si potrà vedere solo il 9 giugno, quando si cominceranno a contare i voti, se e quale contributo potranno avere dato al successo o insuccesso, o solo al mancato successo del partito guidato da più di un anno da Elly Schlein. Che in questa partita si gioca politicamente tutto, o quasi, comunque più di tutti i suoi concorrenti, peraltro inseguita da Giuseppe Conte nella corsa alla leadership di un pur improbabile -per ora- cartello elettorale antimeloniano,  quando si andrà a votare per il Parlamento italiano, e non europeo.

         In questa partita così lunga e complessa la parte attribuitasi da Ilaria Salis, o attribuitale da chi l’ha messa in gara per Strasburgo, è obiettivamente modesta, direi minima.

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Un pò troppo fuori misura le critiche delle senatrici a vita al premierato

Dal Dubbio

Gli interventi contrari delle senatrici a vita Liliana Segre ed Elena Cattaneo nella discussione generale sul premierato proposto dal governo potevano, forse anche dovevano essere in una pur improbabile regia d’alto livello immaginata da qualche malizioso retroscenista, un prezioso soccorso alle opposizioni di natura esclusivamente politica. Che sono arrivate all’appuntamento in ordine tanto rumoroso quanto pasticciato e contraddittorio, avendo il Pd -per esempio- dimenticato la strada del premierato, appunto, imboccata nel 1997 dalla insospettabile commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da un pezzo grosso, allora ma in fondo anche oggi che è  in pensione, come Massimo D’Alema. E con un altro pezzo grosso come Romano Prodi a Palazzo Chigi, succeduto in ordine rigorosamente cronologico a Silvio Berlusconi e a Lamberto Dini.

          Gli interventi, ripeto, delle due senatrici a vita dal prestigio indiscutibile e dall’età venerabile come quella, in particolare, della quasi 94.enne Liliana Segre, scampata all’Olocausto, potevano e forse dovevano essere un prezioso soccorso ad opposizioni un pò malmesse. Ma -ahimè- sono andati sopra le righe in alcuni passaggi che le parlamentari potevano entrambe risparmiarsi proprio per il loro livello intellettuale, morale e persino scientifico.

            Ho trovato eccessiva, per esempio, la demonizzazione del “capo” – o capocrazia”, come la chiama il costituzionalista Michele Ainis- col richiamo della Segre alle “tribù preistoriche”, cioè cavernicole. Qui siamo, per fortuna, al 2024 dopo Cristo. E per quanto possa dispiacere la Meloni, anche per quel suo promuoverei alla sola Giorgia, e proporsi in una formula populista di gusto discutibile, mi sembra smodato ridurla o immaginarla in qualche grotta. Via, senatrice, lei che di grotte odiose nel secolo scorso ne ha viste e provate davvero, per fortuna sopravvivendovi.

Elena Cattaneo nel 2013, appena nominata senatrice a vita da Giorgio Napolitano

           La senatrice Cattaneo, da biologa e scienziata quale è davvero, è accorsa al capezzale di un Parlamento che, già in mancanza di ossigeno per i troppi decreti-legge del governo che ne assorbono quasi interamente l’attività, rischierebbe la morte per soffocamento con lo scioglimento anticipato nelle mani non più del presidente della Repubblica da esso stesso eletto ma di un presidente del Consiglio scelto direttamente dai cittadini. Che il capo dello Stato, tornando alle immagini della senatrice Segre, sarebbe condannato a vedere “dal basso in alto”, cioè in condizioni di sconveniente soggezione.

        È vero, il Parlamento è in uno stato di sofferenza, specie il Senato nelle dimensioni cui lo hanno ridotto le forbici grilline: duecento membri elettivi rispetto ai quali i cinque senatori a vita di nomina presidenziale per alti meriti, previsti ancora oggi dall’articolo 59 della  Costituzione, sarebbero tanti che la riforma del premierato ne ha dovuto prevedere la soppressione per il futuro, lasciando in carica quelli in carica come la Segre e la Cattaneo, rispettivamente, dal 2018 e dal 2013. Ma il soffocamento delle Camere da decreti-legge è avvenuto col permesso, il consenso e quant’altro dei presidenti della Repubblica succedutisi al Quirinale. Dove sarebbe forse bastato un vaglio più rigoroso, o meno generoso, dei requisiti di urgenza invocati dagli inquilini di turno a Palazzo Chigi per evitare le attuali condizioni di obbiettivo, imbarazzante appesantimento, a dir poco.

        L‘ultima parola sul premierato comunque, non essendo concreta la prospettiva di un’approvazione parlamentare con la maggioranza dei due terzi, che gli risparmierebbe ogni altro passaggio, spetterà al popolo col referendum di verifica eventualmente confermativa.  I conti con la democrazia mi sembrano francamente a posto.

Pubblicato sul Dubbio

Parole…a vita contro il premierato al Senato della Repubblica

Titolo dell’Unità

Sarebbe sciocco, oltre che inutile, negare la valenza del discorso pronunciato contro il premierato nella discussione generale a Palazzo Madama da Liliana Segre, superstite dell’Olocausto, 94 anni da compiere a settembre. Di cui 6 trascorsi da senatrice a vita su nomina dell’attuale presidente della Repubblica per avere “illustrato la Patria- dice l’articolo 59 della Costituzione- per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Il campo, nel caso della Segre, è naturalmente quello sociale, attenendosi ai termini della Costituzione e non chiamandolo “storico”, come forse meriterebbe di più.

Massimo D’Alema

Gli oppositori strettamente o maggiormente politici del premierato hanno trovato una voce prestigiosa che temo non meritassero e non meritino per la disinvoltura, la spregiudicatezza, la contraddittorietà con la quale essi sono insorti contro la riforma proposta dal governo di Giorgia Meloni, dimenticando peraltro che la porta a questa soluzione fu aperta nel 1997 dalla commissione bicamerale per la riforma costituzionale presieduta da Massimo D’Alema: ripeto, Massimo D’Alema. A Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, non Silvio Berlusconi, già rovesciato dopo nove mesi di governo dall’alleato elettorale Umberto Bossi, capo della Lega.

Fra “vari aspetti allarmanti” del premierato la senatrice Segre ha messo anche il danno che ne riceverebbe il Capo dello Stato eletto dal Parlamento e costretto a guardare dal basso in alto, in condizioni cioè di inferiorità, un capo del governo eletto direttamente dai cittadini. Beh, con tutto il rispetto che le è dovuto e che ha meritato con la sua storia personale, la senatrice Segre deve convenire che può avere contribuito a farle avvertire questo “allarme” il laticlavio ottenuto a suo tempo proprio dal presidente della Repubblica.

Giorgia Meloni, ospite della Verità

Non mi è inoltre sembrato personalmente felice, all’altezza del suo prestigio, e della misura che lei abitualmente mostra, neppure il richiamo della senatrice Segre alle “tribù della preistoria” che avevano anch’esse “un capo”. Mi pare francamente un po’ troppo scambiare per cavernicola la giovane premier, confermatasi decisa a portare avanti il suo programma in una intervista a Maurizio Belpietro.  O la ministra delle riforme e già presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, per la quale – ma solo per lei- la senatrice ha voluto usare parole di riguardo, spiacendosi di dovere dissentire da lei.  

Elena Cattaneo

Anche la senatrice a vita Elena Cattaneo, 62 anni da compiere, nominata nel 2013 dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha parlato contro il premierato. Che rischierebbe di togliere, con lo scioglimento anticipato nelle mani del presidente del Consiglio, quel poco di ossigeno che resterebbe ad un Parlamento già “malato” di suo, secondo la diagnosi della biologa e scienziata, per lo spazio sottrattogli dalla decretazione d’urgenza e altro dei governi. Ma ciò è avvenuto con il consenso del Quirinale, ignorato dalla senatrice di nomina presidenziale.

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La Meloni un pò troppo assediata dai guai sulla strada elettorale di giugno

Matteo Salvini

   Già volteggiava e volteggia sulla pur combattiva e fiduciosa Giorgia Meloni la maledizione delle vittorie nelle elezioni europee. Esse costarono care nel 1994 a Silvio Berlusconi, fatto poi cadere da Umberto Bossi;  nel 2004 a Matteo Renzi, contemporaneamente segretario del Pd e presidente del Consiglio ma destinato a non essere più ne’ l’uno né l’altro nel giro di quattro anni; nel 2019 a Matteo Salvini, avvitatosi in una crisi di governo dalla quale praticamente non si è più ripreso, neppure ora che è vice presidente del Consiglio, ma precipitato dal 34 per cento dei voti di cinque anni fa all’8 per cento dei sondaggi attuali.

Guido Crosetto

        Poi è calata sulla premier come una strega la “opposizione giudiziaria” temuta, preannunciata e quant’altro dall’evidentemente informatissimo ministro della Difesa Guido Crosetto nell’autunno scorso con una intervista dalle forti ricadute anche parlamentari, e non solo mediatiche.

Giovanni Toti

Siamo ormai a una riedizione della Tangentopoli di una trentina d’anni fa, come va dicendo o auspicando Giuseppe Conte dopo le avvisaglie della Puglia, della Sicilia, del Piemonte e ora della Liguria. Il cui governatore di centrodestra Giovanni Toti è finito agli arresti domiciliari, e nel solito processo sommario dei giornali e delle piazze alimentato giorno dopo giorno dalle notizie diffuse o lasciate trapelare dagli inquirenti.

Titolo della Stampa

         Come se non bastasse questa opposizione giudiziaria -ripeto, nel linguaggio di Crosetto- si è aggiunta quella di carattere dichiaratamente e irriducibilmente “culturale e costituzionale” preannunciata dal presidente dell’associazione nazionale dei magistrati Giuseppe Santalucia, e confermata per acclamazione dal congresso della categoria appena conclusosi a Palermo, contro la riforma della giustizia in cantiere fra Palazzo Chigi e via Arenula. Che comprende la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, la divisione del Consiglio Superiore della Magistratura in due sezioni ed altre cose che, unite al progetto più generale del premierato, configurerebbe nell’immaginario collettivo della sinistra e affini una svolta autoritaria. Saremmo alla “capocrazia” proposta alla letteratura  dal costituzionalista Michele Ainis.

Antonio Tajani e Giancarlo Giorgetti

         A tutto questo, che di per sé già intorbida abbastanza le acque della campagna elettorale per il voto europeo dell’8 e 9 giugno, e per il consistente turno amministrativo che l’accompagna, si è aggiunta una certa, persino torbida esasperazione della competizione -elettorale anch’essa- fra le componenti della maggioranza. La più vistosa e clamorosa delle quali è quella è esplosa fra il vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani e il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti sul modo in cui fronteggiare la voragine finanziaria del cosiddetto superbonus edilizio varato a suo tempo da Conte, ma consentitogli da parecchi che ora sono spaventati dagli effetti sui conti – al minuscolo e al plurale- dello Stato.

Mattarella difeso dal premierato, che lo minaccerebbe, ma disatteso nei richiami

Dal Dubbio

Ma come? Non stavamo, anzi non stiamo rischiando di compromettere con la riforma del premierato proposta dal governo d Giorgia Meloni il ruolo prezioso, persino sacrale, del presidente della Repubblica svolto meritoriamente da Sergio Mattarella? Che, eletto dal Parlamento in seduta congiunta con le modalità sancite dall’articolo 83 della Costituzione, potrebbe essere ridotto ad una comparsa di fronte ad un presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini. Non servirà anche a difendere Mattarella la manifestazione annunciata dalla segretaria del Pd Elly Schlein per il 2 giugno, festa della Repubblica, contro la “capocrazia”, come l’ha definita il costituzionalista Michele Ainis, insita nel premierato che la Meloni si è proposta di somministrare agli italiani come l’olio di ricino dei fascisti cento anni fa?

Dal Fatto Quotidiano del 10 maggio

         Già l’insospettabile Marco Travaglio, a dire la verità, dovendogli essere riconosciuto ciò che merita, sia pure di rado, ha avuto qualcosa da ridire, e da scrivere, sulla piazza mobilitata dalla Schlein per opporre anche i corpi, oltre che le parole, ai liberticidi progetti attribuiti alla Meloni. “A parte il fatto che l’aveva già proposta l’Ulivo nella Bicamerale del 1997, l’elezione diretta del premier non ripristina la Monarchia né altera la forma repubblicana dello Stato”, ha fatto osservare venerdì 10 maggio il direttore del Fatto Quotidiano, che spero sia stato letto con la solita attenzione anche dall’ex presidente del Consiglio e ora presidente solo delle 5 Stelle grilline Giuseppe Conte, contrarissimo alla riforma all’esame del Senato.

Eugenia Roccella

         Ma un colpo al ruolo così meritoriamente svolto, ripeto, e rivendicato per il presidente felicemente in carica con il lungo mandato rinnovatogli poco più di due anni fa è stato  dato da alcuni eccellenti estimatori, fra i quali il mio amico Paolo Mieli, condividendo in modo alquanto contraddittorio, direi paradossale, la solidarietà espressa doppiamente, con una telefonata e un comunicato del Quirinale, alla ministra della famiglia Eugenia Roccella. Che, sospettata di volere ostacolare l’aborto, era stata appena contestata da una trentina di studenti in un convegno sulla natalità con cartelli e grida prevaricatrici.

         A sentire Mieli e Andrea Scanzi, del Fatto Quotidiano, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, a leggere il manifesto, e ad andare appresso alle dichiarazioni del “verde” Angelo Bonelli e di alcuni esponenti del Pd, Mattarella si sarebbe lasciato prendere un po’ troppo la mano, il cuore, l’emozione difendendo la ministra con lo scudo della Costituzione.  Eugenia Roccella sarebbe stata intempestiva, anzi intollerante nella reazione ai contestatori armati solo di parole e di cartelli.

         La ministra avrebbe dovuto pazientare ancora, dopo le due ore attese per cercare di prendere la parola, e mettersi seduta o restare in piedi ad aspettare che la contestazione finisse per stanchezza. Invece lei, furbissima come la premier che le sarebbe andata dietro con una protesta da Palazzo Chigi, avrebbe colto la palla al volo per praticare il solito “vittimismo”, particolarmente utile in questa campagna elettorale in corso per il voto europeo dell’8 e 9 giugno.

La guerra in Ucraina

         Se quello della Roccella e della Meloni è stato un calcolo, secondo questo tipo di lettura dell’accaduto, quello di Mattarella, non volendogli dare del complice, dev’essere stato quanto meno un errore di ingenuità commesso nell’esercizio delle sue funzioni. Un presidente un po’ svanito, direbbe un critico irrispettoso e per niente convinto, per esempio, neppure degli insistenti interventi di Mattarella a favore dell’Ucraina e contro la Russia di Putin che l’ha invasa. Roba quasi da vilipendio del capo dello Stato previsto dall’articolo 278 del codice penale, per il quale “chiunque offende l’onore o il prestigio del presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.

Paolo Mieli

Non vorrei dover portare le solite, abusate arance al mio amico Mieli finito imprudentemente, alla sua età, e col suo ricchissimo curriculum professionale, in qualche carcere già sovraffollato del nostro sempre più imprevedibile e paradossale paese, con la minuscola, senza scomodare la Nazione preferita dalla premier ancora sprovvista di elezione diretta.

Pubblicato sul Dubbio

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Giuseppe Conte da avvocato del popolo ad avvocato dei magistrati

La vignetta del Corriere della Sera

“In cauda venenum”, dicevano i latini. Veleno nella coda è stato anche l’intervento di Giuseppe Conte, non credo casuale ma programmato a dovere, alla giornata conclusiva del congresso dell’associazione nazionale dei magistrati. Ai quali, sorpassando la segretaria del Pd Elly Schlein che l’aveva preceduto sabato, l’ex premier si è proposto come il difensore maggiore delle toghe che si sentono minacciate dalla riforma della giustizia in cantiere. Una riforma “ad orologeria”, secondo la loro impressione recepita nella vignetta odierna del Corriere della Sera, più delle inchieste giudiziarie che incrociano la politica.

Licio Gelli

         Da “avvocato del popolo” del suo primo arrivo a Palazzo Chigi Conte è passato quindi ad avvocato dei magistrati. Ad essi, incoraggiandone la mobilitazione contro il governo deciso a separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, ha praticamente spiegato, questa volta come professore non di diritto ma di storia, che è ormai in via di esecuzione prima ancora del programma del governo in carica, derivato dagli impegni elettorali ricordati al congresso dei magistrati dal guardasigilli Carlo Nordio, quello del defunto Licio Gelli. Che da capo della P2 aveva cercato, non riuscendovi, di torcere la cosiddetta prima Repubblica in senso autoritario. Poi essa finì per via giudiziaria come una specie di gigantesca associazione a delinquere, secondo la rappresentazione che dei loro partiti facevano un bel po’ di magistrati inquirenti, ed anche giudicanti, per via del finanziamento illegale.

         Il finanziamento alla politica, oltre che privatizzato, in questa seconda o terza o quarta Repubblica, secondo il conteggio preferito, si è regolarizzato con tanto di versamenti iscritti nei bilanci dei donatori e dei riceventi, ma la loro natura o puzza corruttiva non sarebbe cambiata. E infatti Conte -sempre lui- parla di una nuova Tangentopoli, all’ombra della quale, come reazione, egli forse immagina di poter anche tornare a Palazzo Chigi. La cui via è lastricata di cronache politiche frammiste a cronache giudiziarie e condite di processi sommari, prima nelle piazze e poi nei tribunali.

La strage di Capaci nel 1992

         Fra l’ovazione ottenuta all’apertura del congresso dell’associazione nazionale dei magistrati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e gli applausi quasi conclusivi riservati all’aspirante capo dell’opposizione ad un governo avvertito dalle toghe come il loro nemico c’è un filo non certo di continuità per il rispetto che si deve al capo dello Stato. E che egli merita. C’è un parallelismo di una certa inquietante ambiguità, mitigata solo dalla presunzione fisica che le parallele possano incontrarsi solo all’infinito nel loro punto improprio. Sarebbe un bel guaio si si perdesse l’infinito e si trovasse invece un punto proprio, come accadde all’epoca di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, volente o nolente la buonanima del capo dello Stato eletto nel 1992 fra i marosi di Tangentopoli e il sangue delle  stragi di mafia.

Il tempo perduto dal ministro Nordio con l’associazione dei magistrati

Giuseppe Santalucia

Non c’è peggiore sordo di chi non vuole sentire, dice un vecchio proverbio adattabile ai magistrati dopo l’intervento del ministro Carlo Nordio al loro congresso, a Palermo, sulla riforma costituzionale della giustizia. Che il governo deve ancora formulare in un disegno di legge ma che il sindacato delle toghe, incoraggiato dalla segretaria del Pd Elly Schlein accorsa sul posto, ha già respinto in blocco. Non vi è “mediazione” possibile sulla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, ha ribadito il presidente Giuseppe Santalucia verso la conclusione del congresso, intervistato a Rai 3 da Serena Bortone. Che si è ripresa dallo choc del mancato monologo di Antonio Scurati contro la Meloni.  

Dal Fatto Quotidiano

         Paradossalmente proprio l’assicurazione data dal guardasigilli sulla indipendenza che i pubblici ministeri manterranno anche con la carriera separata da quella dei giudici, e in un Consiglio Superiore diviso in due sezioni dove i rappresentanti dei magistrati continueranno però ad essere in maggioranza, è stata usata da Santalucia per contestare la riforma. Perché allora cambiare?, ha chiesto Santalucia fingendo di non capire le ragioni delle modifiche in cantiere. E riproponendo l’opposizione di natura “cultura e costituzionale” cui i magistrati non intendono rinunciare. E pazienza se la separazione delle carriere è nel programma del centrodestra uscito vincente dalle ultime elezioni politiche, come ha ricordato Nordio nel suo intervento al congresso dei togati.

Gustavo Zagrebelsky

         Già, ma anche il concetto di vittoria elettorale è contestato da una certa cultura costituzionale. Proprio ieri sera, in un’altra trasmissione televisiva, condotta da Massimo Gramellini su la 7, il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky ha detto che vincere le elezioni non può bastare ad un partito, o coalizione di partiti, per rivendicare il diritto di realizzare il suo programma  e di invitare le opposizioni irriducibili nell’azione di contrasto a “farsene una ragione”, come usa dire la presidente del Consiglio. Che rivelerebbe così il suo autoritarismo.

         Messa la questione, anzi le questioni in questi termini, lo stesso concetto di governabilità diventa aleatorio. Filosoficamente aleatorio, direi.

Il compianto Giuliano Vassalli

         A proposito di autoritarismo, a nulla è valso pure il richiamo di Nordio alla riforma del processo penale che porta il nome dell’antifascista Giuliano Vassalli, ministro della Giustizia dal 1987 al 1991, giudice della Corte Costituzionale dal 1991 al 2000 e presidente della stessa negli ultimi tre mesi. Una riforma dalla quale deriva logicamente anche la separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici, come pure dall’articolo 111 della Costituzione modificato nel 1999. Dove, oltre alla “ragionevole durata” del processo si prescrive che esso si svolga “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Un giudice curiosamente terzo, direi, in una carriera in comune col pubblico ministero.

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