La breccia a sorpresa di Jens Stoltenberg nella Nato e dintorni

Dal Corriere della Sera

         Per quanto affetto dalla “demenza” diagnosticatagli a distanza da Putin con la vecchia competenza del Cremlino nei rapporti con i dissidenti, ma un po’ condivisa in Italia anche da Matteo Salvini, che ne ha chiesto le dimissioni, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg non demorde. Anzi, sta facendo breccia nell’alleanza atlantica – tra americani, canadesi, francesi, inglesi, tedeschi, polacchi, baltici-   ma anche fuori: per esempio, nell’Unione Europea, a sentire il commissario agli esteri e alla sicurezza, lo spagnolo Josep Borrell. E’ la breccia di un uso più efficace delle armi occidentali fornite agli ucraini per difendersi dai russi, in modo da colpire anche le basi da cui partono da più di due anni i missili della morte. Altrimenti quella degli ucraini continuerebbe ad essere una difesa quanto meno dimezzata, e quella dei russi un’aggressione decuplicata.

Fotomontaggio del Fatto

         Ma sarebbe la terza guerra mondiale, temono e protestano in tanti in Occidente. Lo dicevano nel 1939 anche quelli disposti a sopportare le angherie territoriali di Hitler finendo per incoraggiarlo, volenti o nolenti, sulla strada della seconda guerra mondiale e di tutto quello ch’essa comportò. Ma Putin non è Hitler, si obietta ancora, come se stessimo ad “Affari tuoi”, il gioco televisivo dei pacchi, dove si scopre solo alla fine che cosa c’è in quello del concorrente

Dal Foglio del 29 maggio

       Le guerre purtroppo accecano, anche nelle versioni “in pillole”. Che strada facendo diventano macigni. A Gaza, per esempio, gli israeliani colpiti in ottobre dal pogrom dei terroristi di Hamas sono scambiati per autori di genocidio nel tentativo di difendersi e neutralizzare un nemico dichiaratamente irriducibile, che si fa scudo della popolazione civile.  E di fronte al conflitto in Ucraina l’ex presidente del Consiglio e ministro norvegese Jens Stoltenberg, un laburista liquidato sprezzantemente come pacifista quando venne nominato segretario generale della Nato, nel 2014, con Obama alla Casa Bianca, si è sentito dare del demente, ripeto. O del bombarolo.  O dell’”uomo di paglia” degli americani, difeso sul Foglio qualche giorno fa da Adriano Sofri con la solita pignoleria di date, fatti e dichiarazioni. Chapeau.    

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

         Chissà se anche a Stoltenberg toccherà la fortuna -spero indolore per una sopraggiunta risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina imposta a Putin dalla consapevolezza di poterci rimettere l’osso del collo- di una Caivano. Dove Giorgia Meloni, pur incorrendo nella solita indignazione di chi l’avverte come “ducia” o “ducetta”, ha steso il governatore della Campania Vincenzo De Luca. Che le aveva dato della “stronza” e “stracciarola” non in una imitazione di Maurizio Crozza ma in una prestazione vera, fra la buvette e i divani di Montecitorio.

Ripreso da http://www.startmag.it il 1° giugno

I magistrati arroccati nel fortino della loro impopolarità

Da Libero

Temo, per loro, che sia non debole ma debolissima la memoria dei magistrati e dei loro sindacalistiche stanno pensando allo sciopero contro la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che è contemplata, con altro ancora, nella riforma costituzionale della giustizia appena varata dal governo all’unanimità, a dispetto dei retroscena che attribuivano divisioni e resistenze persino alla presidente del Consiglio. La quale se ne è invece assunta la titolarità strappandola ai morti evocati con i nomi di Silvio Berlusconi, Bettino Craxi e Licio Gelli, in ordine rigorosamente alfabetico.   

La vignetta di ItaliaOggi

E’ una memoria debolissima per i più anziani o meno giovani. E ignoranza, nel senso di non conoscenza, e mancato studio, per i più giovani. Che non erano neppure nati nell’autunno del 1987, quando l’8 e il 9 novembre gli italiani parteciparono con un’affluenza di ben il 65,11 per cento al referendum contro le norme che ancora più di adesso proteggevano i magistrati, sino ad esentarli, dalla cosiddetta responsabilità civile. Cioè dall’inconveniente, chiamiamolo così. di rispondere dei danni procurati dai loro errori, come capita ai medici, agli infermieri, agli ingegneri, ai geometri, a noi giornalisti e via via salendo o scendendo, come preferite. Un referendum tanto temuto da “lor signori” in toga, e dai partiti o correnti che o li amavano o li temevano sino a lasciarsene intimidire, che per evitarlo -insieme ad altri di uno stesso turno- nella primavera di quell’anno si era preferito impedirli con le elezioni anticipate. Ma la ciambella non riuscì col buco perché il rinvio del referendum, per sopraggiunte complicazioni politiche, si ridusse a qualche mese, e non all’anno e forse ancora più su cui avevano contato i più contrari.

Enzo Tortora

Ebbene, da quella prova referendaria che misurava nei fatti la popolarità dei magistrati dopo lo scempio del caso di Enzo Tortora, destinato a morire dopo sei mesi, il sì all’abrogazione delle norme di totale protezione dei magistrati -e quindi il no alla prosecuzione del loro scudo totale- fu pari all’80,21 per cento dei voti. Da allora, a parte l’impennata di Tangentopoli, fra il 1992 e il 1993, quando le folle in maglietta chiedevano ai magistrati di farle “sognare” con le retate dei politici e affini indagati per corruzione, e qualche volta anche suicidi per disperazione scambiata per vergogna dagli inquirenti più feroci, l’indice di gradimento della magistratura è andato sempre più calando.

Antonio Di Pietro

Non credo che quest’indice sia destinato a risalire con lo sciopero in cantiere contro la separazione delle carriere indicata dall’associazione nazionale dei magistrati come una sciagura. E condivisa invece -pensate un po’, vendetta della storia o della cronaca, come preferite- dal più famoso  dei pubblici ministeri che una trentina d’anni fa faceva sognare le piazze giacobine d’Italia: Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici. Che la pensa, sulle carriere giudiziarie, come la pensava già allora Giovanni Falcone, anche se di recente Armando Spataro ha voluto darne un’altra lettura diretta o deduttiva che ha però l’insuperabile inconveniente di non poter essere confermata dall’interessato, ucciso con la moglie e quasi tutta la scorta nella strage mafiosa a Capaci il 23 maggio 1992.

Giorgio Napolitano

Al calo di gradimento della magistratura non ha contribuito soltanto il mito ormai cessato o smentito dell’ondata giustizialista di trent’anni fa, che indusse persino l’ancor vivo Francesco Saverio Borrelli, il superiore di Di Pietro, a chiedersi se fosse valsa la pena fare tutto ciò che aveva voluto, vista la perdurante o addirittura cresciuta corruzione. Vi ha contribuito la stessa magistratura con un’amministrazione della giustizia, e di se stessa, che è sotto gli occhi di tutti. Una magistratura che non vuole sentirsi definire “casta” ma è oggettivamente arroccata come in un fortino in quello che non io -povero, vecchio tapino o topaccio del giornalismo- ma un capo dello Stato e presidente del Consiglio Superiore come Giorgio Napolitano definì un “forte squilibrio” nei rapporti fra giustizia e politica intervenuto fra il 1992 e il 1993.

Napolitano scrisse così in una lettera per niente privata, diffusa pubblicamente, alla vedova di Bettino Craxi nel decimo anniversario della morte del marito in terra tunisina, colpito da una “durezza senza uguali” nella pratica generalizzata del finanziamento illegale dei partiti e dintorni.

Oscar Luigi Scalfaro

Quella lettera, per la sua spietata analisi, non è stata perdonata dal giacobinismo italiano a Napolitano neppure da morto. Ma essa segnò al Quirinale la fine, o quanto meno l’interruzione, si vedrà, di una stagione infausta avviata da Oscar Luigi Scalfaro anche con quella presenza ad un congresso di magistrati dove promise che mai -dico mai- avrebbe firmato una legge sulla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Se ne parlava già allora.

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