Ma quanto immeritato cordoglio anche in Occidente per l’iraniano Raisi

Dalla Ragione

Con quel nome -Ebrahim- che portava con tanta disinvoltura, essendo uno dei nemici più temibili e temuti degli ebrei, per quanto l’Unità lo abbia oggi definito uno che “in Iran non contava nulla”, l’ormai defunto, incenerito presidente Raisi, morto col suo ministro degli esteri in un incidente d’elicottero dal quale gli israeliani hanno tenuto a precisarsi estranei, non potrà certo obbedire all’ordine di Davide Giacalone, sulla Ragione, di svelarsi. Anche perché sarebbe inutile, tanto chiaro e noto è stato il suo ruolo di riferimento, sostegno e quant’altro di tutti i terrorismi operanti nel Medio Oriente e dintorni.

Dal Corriere della Sera

         Non è certamente esagerata, ma forse riduttiva, la scena immaginata e proposta sul Corriere della Sera da Emilio Giannelli nella vignetta di Raisi che arriva nell’aldilà e mette il panico fra “quasi mille” mandati da lui a morte sulla terra. Alla  fine consolati da qualche compagno di sventura all’idea che non potrebbero essere impiccati di nuovo, ridotti come sono a fantasmi.

         Né esagerata si può ritenere la vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX che propone un ayatollhà impegnato a chiedere al suo Dio perché si fosse preso il “nostro amato presidente” e si sente rispondere: “perché adesso avete proprio rotto”.

Dal Secolo XIX

         Eppure, a parte quegli iraniani coraggiosi che sono scesi in piazza per mescolare non lutto e proteste, come si è letto in qualche titolo, ma lacrime e feste, abbiamo assistito alla solita, ipocrita, vomitevole corsa delle cosiddette cancellerie, anche quelle occidentali, ai messaggi di cordoglio a Teheran. “Ma ora più diritti”, ha sentito il bisogno di aggiungere il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani con una dose di ingenuità che temo non gli avrebbe perdonato, e non gli perdonerebbe dove si trova, neppure il compianto Silvio Berlusconi. Che gli ha lasciato in eredità Forza Italia.

         Purtroppo siamo lontani dalla “parresìa” di Platone evocata oggi sul Corriere della Sera da Massimo Gramellini, prendendo il solito caffè coi lettori, per sottolineare il dovere, l’importanza e quant’altro di dire la verità e chiamare le cose col loro nome. Peccato però che il buon Gramellini abbia preso spunto per questo richiamo non dallo spreco di cordoglio per Raisi ma da quella manager che in Liguria ha deciso di contribuire alla demonizzazione di Giovanni Toti dicendo di non avergli fornito i finanziamenti sollecitati dal solito Spinelli sentendo o temendo puzza di corruzione. E’ come avere sparato su un’ambulanza della Croce Rossa, viste le condizioni alle quali gli inquirenti hanno ridotto, tra le loro pillole giudiziarie e i processi sommari che alimentano sui giornali, il governatore tuttora della Liguria agli arresti domiciliari da una quindicina di giorni.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Il fantasma di Berlusconi irrompe nella campagna elettorale

Dal Dubbio

Sbaglio o Matteo Salvini ha un po’ mollato nella campagna elettorale per le europee il generale Roberto Vannacci, pur voluto così fortemente nelle liste da avere provocato una mezza rivolta nella Lega? Il generale, per carità, continua ad esporsi e a guadagnarsi l’attenzione dei grandi giornali. Il Corriere della Sera, ad esempio, gli ha appena mandato appresso un inviato nel Bolognese, Nino Luca, per raccoglierne anche i sospiri. Ma Salvini -ripeto- sembra essersene un po’ distaccato. E non credo per paura dei leghisti che non hanno nascosto l’intenzione di mettere nel contenzioso del dopo-elezioni con lui anche la forzatura che hanno avvertito nella sostanziale imposizione del candidato che viene ormai chiamato come il mondo del suo primo libro: “al contrario”.

Matteo Salvini e Roberto Vannacci d’archivio

         Salvini sembra avvertire maggiormente da qualche giorno non più il problema di togliere voti alla Meloni sulla destra -dove peraltro la premier si è appena guadagnata qualche parolina gentile della francese Marine Le Pen, che pare abbia smesso di rimproverarle chissà quali accordi presi sottobanco in Europa con Ursula von der Leyen per una conferma alla presidenza della Commissione di Bruxelles- ma il problema di evitare il sorpasso di Antonio Tajani. Che si è proposto di classificarsi al secondo posto nel centrodestra rivendicando l’eredità di Silvio Berlusconi. Un’eredità invece che Salvini gli contende in qualche modo, non lasciandosi scappare un’intervista o un discorso per ricordare “Silvio”, come lo chiama, e rimpiangerlo. Cosa, questa, che una volta tanto il vecchio e insofferente Umberto Bossi non può contestargli perché del compianto fondatore di Forza Italia egli era diventato quasi un amico intimo, dopo il tempestoso inizio dell’alleanza politica ed elettorale, interrotta alla fine del 1994 per paura di esserne fagocitato. E su pressione confessata dallo stesso “senatur” dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Marta Fascina al Giornale di ieri

         Silvio qua e Sllvio là, dice Salvini, come si canta di Figaro nel “Barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini. Al punto che forse non a caso Marta Fascina, l’ultima quasi moglie di Silvio, appunto, si è lasciata intervistare dal Giornale ora parzialmente di famiglia per dire non più tardi di ieri: “Auspico un buon risultato per Forza Italia, anche e soprattutto come tributo alla memoria del suo leader fondatore a cui tutti dobbiamo gratitudine e riconoscenza. Se siamo ciò che siamo lo dobbiamo tutti a lui. Ma Forza Italia, quale partito che Silvio ha condotto con orgoglio nel Partito Popolare Europeo, la grande casa della democrazia e della libertà, ad esito di queste elezioni sarà sicuramente nella tolda di comando dell’Europa dei prossimi 5 anni”.

         Ma Salvini e la Fascina non sono i soli a evocare Berlusconi nella corsa al voto dell’8 e 9 giugno a sostegno dei loro rispettivi partiti. Lo ha appena evocato in una intervista a Repubblica, e non per la prima volta, Matteo Renzi per contestare, come candidato al Parlamento europeo, alla “falsa” candidata Giorgia Meloni, che rimarrà rigorosamente a Roma, la dabbenaggine di non avere appreso la lezione del Cavaliere di navigare nelle acque del Partito Popolare. Dove però neppure Renzi, altro aspirante erede dei voti di Berlusconi, ha intenzione di nuotare o viaggiare preferendo notoriamente la compagnia del presidente francese Emmanuel Macron, e scommettendo su Mario Draghi al vertice dell’Unione.

Matteo Renzi a Repubblica di ieri

         Renzi ha tuttavia pasticciato un po’ nella ricostruzione del tuffo di Berlusconi nelle acque per lui salvifiche del Partito Popolare Europeo. Sarebbero stati, in particolare, “Helmut Kohl e Jose Maria Aznar -ha raccontato l’ex premier toscano- a spedire il giovane Agag”, imprenditore spagnolo, “da Silvio Berlusconi per coinvolgerlo nel Ppe” apprezzandone la consistenza elettorale  in Italia e quindi l’utilità, praticamente, di annetterla a livello continentale. No, le cose non andarono esattamente così. L’operazione di aggancio di Berlusconi al Partito Popolare Europeo fu condotta in Italia dall’allora alleato e democristiano doc Pier Ferdinando Casini. Che ne è rimasto orgoglioso anche dopo avere rotto con “Silvio”, come anche lui chiamava il Cavaliere, ed essersi accasato come ospite nelle liste del Pd per rimanere in Parlamento, ormai da veterano, o quasi.

Pubblicato sul Dubbio

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