Lo stato di “non belligeranza” di Mattarella raccontato dal Foglio

Non dico la guerra, ma la guerricciola di carta tra il Quirinale e Il Foglio sulla lettura dell’attacco della senatrice a vita Liliana Segre al premierato non è finita con la smentita che dietro quell’attacco ci fosse l’ispirazione, la mano, la manina o chissà cos’altro del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al quale la Segre deve il pur meritato, anzi meritatissimo laticlavio conferitole nel 2018 dall’attuale Capo dello Stato.  

Dalla prima pagina del Foglio di ieri

         Non solo il direttore del Foglio Claudio Cerasa nella posta del suo giornale ha declassato a “rettifica” la smentita opposta dall’ufficio stampa del Quirinale anche in difesa dell’onorabilità della senatrice a vita, che vive naturalmente di pensiero autonomo. Ma il giorno dopo -cioè ieri- Simone Canettieri è tornato sull’argomento in prima pagina per una registrazione così svogliata, a dir poco, della reazione di Mattarella da essere stata forse peggiore dell’altro intervento retroscenista firmato da Carmelo Caruso.  

         Quello del Capo dello Stato è diventato già nel titolo del secondo tempo della partita, diciamo così, un “no comment” alla riforma del premierato proposta dal governo e inoltrata a suo tempo al Parlamento con la dovuta “autorizzazione” del presidente della Repubblica richiesta dalla Costituzione. Poi, nel testo dell’articolo, il “no comment” è diventato uno stato di “non belligeranza” di Mattarella. Come quello adottato da Mussolini fra il 1939 e il 1940, prima del suicidio dell’associazione alla guerra di Hitler che lo sciagurato Duce riteneva ormai vinta dai nazisti. Ed era invece ancora agli inizi, con tutto quello che ne sarebbe derivato. Un linguaggio, quello della “non belligeranza”, non proprio felice, direi, nei riguardi di un Capo dello Stato che si tratterrebbe quindi sulla strada dell’adesione all’opposizione praticata in varie sedi, parlamentare e di piazza, contro l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Dall’interno del Foglio di ieri

         In più, insistendo nella rappresentazione di un rapporto difficile, a dir poco, fra il Quirinale e Palazzo Chigi, l’articolista del Foglio si è mostrato informato -si vedrà a tempo debito se a torto o a ragione- di resistenze, paure e quant’altro del presidente della Repubblica sulla legge, questa volta ordinaria, all’esame del Parlamento sulle cosiddette autonomie differenziate. Che furono messe in Costituzione da chi oggi le contesta con la riforma dell’articolo 115 nel 2001, all’epoca del secondo governo di Giuliano Amato, succeduto ai due di Massimo D’Alema, tutti a maggioranza non certamente di centrodestra. E questo giusto per ricordare le cose come stavano e come stanno, con Mattarella che allora neppure immaginava di poter diventare presidente della Repubblica e di doverne quindi temere in questa veste gli effetti.

         Ah, la polemica politica e retroscenista quanto è rischiosa quando la si affronta, a dir poco, con una certa superficialità e approssimazione. E dando per scontata, per carità, la buona fede. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Alla politica ormai come alle armi in una Italia ucrainizzata

Da Libero

Viviamo ormai in una specie di Ucraina italiana, per fortuna ancora senza bombe e truppe di occupazione o dì invasione, per la spietatezza della lotta politica in corso. E dell’informazione che la racconta o, peggio, l’alimenta di giorno in giorno, di ora in ora, sentendosi per lo più accerchiata da un governo che schiaccia così tanto e così insopportabilmente tutti da essersi lasciato scappare, come ha sarcasticamente ricordato Mario Sechi nel salotto televisivo di Lilli Gruber, il controllo dell’Autorità di Garanzia delle Comunicazioni, con tutte le maiuscole dovute. Alle quali si è dovuto arrendere persino il presunto, potentissimo, ammanicatissimo Bruno Vespa rinunciando al duello televisivo in Rai fra le prime due donne d’Italia -Giorgia Meloni ed Elly Schlein- annunciato inopinatamente per il 23 maggio, ad una quindicina di giorni dalle elezioni europee di giugno, e amministrative di accompagnamento.

         Verrebbe da ridere se non ci fosse invece da piangere per le condizioni alle quali è ridotto quello che la buonanima di Aldo Moro, redarguito nella Dc da Amintore Fanfani, l’altro cavallo di razza della scuderia scrociata, chiamava “confronto”: una parola “magica”, diceva il suo amico e insieme antagonista, che distoglieva cuori e menti dalla dura realtà. E faceva torto, sempre secondo Fanfani, ad un Parlamento dove il confronto, appunto, poteva e doveva svolgersi ed esaurirsi senza tirarla troppo per le lunghe.

La segretaria del Pd Elly Schlein

         Il confronto al Senato sul premierato, per esempio, e quello che seguirà alla Camera, e poi si ripeterà in entrambi i rami del Parlamento, con la prospettiva abbastanza concreta di un conclusivo referendum popolare di conferma o di bocciatura, secondo le regole costituzionali, non bastano né basteranno. La segretaria del Pd ha già allestito, in coincidenza con la festa della Repubblica, per il prossimo 2 giugno una manifestazione naturalmente di protesta a Testaccio, ripiegando dalla più grande e famosa Piazza del Popolo, sempre a Roma, perché prevedibilmente non ancora sgomberata di attrezzature e simili per il comizio conclusivo della sua campagna elettorale per le europee da quella diavola di Giorgia Meloni, com’è avvertita dai suoi avversari, arrivata a Palazzo Chigi meno di due anni fa senza dovere replicare a cento anni di distanza la  scellerata marcia fascista sulla Capitale. Vi è arrivata dopo un turno anticipato di elezioni regolarmente vinto, senza alcuna legge simil-Acerbo alle spalle, e su nomina di un presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, fortunatamente scampato sino ad ora a scomposti attacchi per avere nominato, appunto, la Meloni presidente del Consiglio -rigorosamente al maschile, come l’interessata preferisce- e, su sua proposta, i ministri. Semplicemente applicando l’articolo 92 della Costituzione, secondo comma, come si dice in gergo tecnico.

         E’ un miracolo, scherzando ma non troppo nel clima politico in cui siamo avvolti, che il Capo dello Stato non si sia ancora trovato messo nello stato di accusa previsto dall’articolo 90 della Costituzione “per alto tradimento o attentato alla Costituzione” naturalmente antifascista in vigore dal 1948.

Giovanni Toti e Aldo Spinelli

         In questo clima avvelenato, dove una certa magistratura si muove come un pesce nell’acqua, può accadere anche che il cittadino perda coscienza dei suoi diritti e inconsapevolmente, appunto, vi rinunci. E’ appena accaduto, per esempio, al governatore ancòra della Liguria Giovanni Toti. Del quale il Corriere della Sera ha annunciato ieri in prima pagina la ferma intenzione, decisione e quant’altro, dopo 10 giorni di arresti domiciliari per presunta corruzione e non so se e quali altri reati, di “dimostrare la propria innocenza”.

         No, caro Giovanni, come mi permetto di chiamarti pur non avendoti mai conosciuto o solo parlato. La tua innocenza sino a “condanna definitiva” è garantita dall’articolo 27 della Costituzione. L’onere della prova della tua presunta colpevolezza è tutta dell’accusa, come ha ricordato proprio dopo il tuo arresto, fra le proteste dei soliti giustizieri, un ex pm che ora è ministro della Giustizia: Carlo Nordio. Un’accusa peraltro tenuta anche a cercare prove a discarico dell’inquisito o imputato, e non a occultarle, com’è accaduto di recente -diciamo così- ad un pubblico ministero censurato ma non espulso dal Consiglio Superiore della Magistratura. 

         Dai, Giovanni, ripeto, non farti confondere e/o intimidire, schiacciato dalle foto delle tue salite o discese dal barcone di lusso del vecchio Aldo Spinelli, o di qualche tuo drink con lui, o dagli spezzoni giornalieri di telefonate tue o di altri intercettate per anni, non per giorni, settimane o mesi.

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