Anche Giovanni Toti cade nella trappola del “portiere di notte”

Bruno Vespa

Sarà colpa della mia vecchiaia, e di una certa conoscenza che ho del mio mestiere e dei miei colleghi, fra i quali ce ne sono di troppo invidiosi degli altri di maggiore successo e notorietà, per cui si divertono -diciamo così- a contestarli con tutte le pezze di appoggio possibili e immaginabili: dall’Agicom in su e in giù. Ma non riesco ad appassionarmi alla vicenda del duello televisivo fra Giorgia Meloni ed Elly Schlein vanificatosi fra le mani, le parole, le proteste e quant’altro di Bruno Vespa, che riteneva di averlo acquisito nella sua postazione alla Rai come in un fortino.

         Mi interessano, e inquietano, di più le turbe procurate a Giovanni Toti dopo dieci giorni di arresti domiciliari. Ai quali l’ha confinato la magistratura sotto l’accusa di corruzione, falso e non se o cos’altro. Turbe intese come plurale di turba a sua volta intesa, secondo il dizionario della lingua italiana che ho appena consultato, come “disturbo di natura funzionale, anche psichica”.

Dal Corriere della Sera

         Inchiodato, secondo i tifosi dell’accusa e i suoi avversari politici, ma forse anche qualche falso amico o alleato, alle foto scattategli da presidente della regione liguria salendo o scendendo dal ferro da stiro nautico del ricchissimo Aldo Spinelli, e a spezzoni di intercettazioni telefoniche distribuiti e pubblicati a rate giornaliere, Toti non vede l’ora di essere interrogato dagli inquirente perché “dimostrerò -ha titolato in prima pagina il Corriere della Sera-  che non ho commesso reati”. Ma pochi giorni fa, tra le solite proteste dei soliti giustizieri o manettari, è stato proprio un celebre ex pm oggi ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a ricordare che non tocca all’accusato di dimostrare la propria innocenza, garantitagli dalla Costituzione sino a condanna definitiva, ma all’accusa dimostrare le sue contestazioni di reato. Un’accusa, peraltro, che dovrebbe anche cercare, e non occultare, prove a discarico,

         Il povero Toti è insomma caduto, volente o nolente, nella trappola del rapporto distorto fra l’aguzzino e la vittima così ben rappresentato cinematograficamente dal film del 1974 intitolato “Il portiere di notte” e ambientato in un albergo di Vienna del 1957.

Dal Riformista

         Anche queste turbe rimandano alle “mani pulite” di una trentina d’anni fa, di cui il Riformista ha riproposto in prima pagina tre dei protagonisti o attori in una foto con questo titolo: “Non è cambiato niente”. Sommario, o sottotitolo: “Carcere preventivo e diritti negati, il caso Toti ricorda una certa storia”. Spero non comprensiva dei suicidi che allora l’accompagnarono.

Dal Fatto Quotidiano

         Pure Pier Camillo Davigo, uno dei tre pubblici ministeri riproposti in foto dal Riformista, nel frattempo passato per un’esperienza opposta a quei tempi, si è rifatto sentire o leggere, naturalmente sul Fatto Quotidiano, per dire che “solo negli Stati canaglia è lecito il caso Genova”. Che lui naturalmente vede come vedeva ai suoi tempi Tangentopoli e dintorni. Mi fermo qui per risparmiarmi e risparmiarvi altre turbe.

Ripreso da http://www.startmag.it

Mattarella si tira fuori, risentito, dalle polemiche contro il premierato

Dal Dubbio

Un po’ me l’aspettavo, ma è ugualmente clamorosa la reazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella -solitamente paziente e, all’occorrenza, anche spiritoso- al tentativo compiuto, volente o nolente, dal Foglio di attribuirgli l’ispirazione, o qualcosa di simile, del duro intervento della senatrice a vita Liliana Segre nell’aula di Palazzo Madama contro il cosiddetto premierato proposto dal governo di Giorgia Meloni.

         “Affermare -ha scritto Giovanni Grasso, capo dell’ufficio stampa del Quirinale, al giornale fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa- che nei suoi interventi in Senato la senatrice Liliana Segre metta soltanto la sua voce, perché il pensiero non sarebbe suo ma del Presidente della Repubblica, oltre che del tutto infondato, è profondamente offensivo per la senatrice che, non soltanto per la sua storia, ha diritto al più grande rispetto”. Sono seguiti tuttavia i consueti “cordiali saluti”.

L’intervento di Liliana Segre al Senato

         Pur relegata, ma forse anche per questo, nella posta del Foglio come una qualsiasi lettera che si riceve e si è tenuti a pubblicare, e ammantata -ripeto- nella conclusiva cordialità dei saluti, la reazione del Quirinale è di una severità e durezza significative. Ed anche comprensibili per i tentativi ricorrenti da tempo di trascinare il presidente della Repubblica nella polemica su una riforma cui si attribuisce, a torto o a ragione, la volontà o comunque l’effetto di ridurre drasticamente il ruolo del capo dello Stato. Che sarebbe obbligato -come ha appunto detto la senatrice Segre nell’aula di Palazzo Madama intervenendo nella discussione generale-  a “guardare dal basso in alto”, in condizioni di soggezione, un presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo. Mentre lui, il presidente della Repubblica è stato e continuerebbe ad essere eletto solo dal Parlamento, sia pure in seduta congiunta e con la partecipazione dei delegati dei Consigli delle Regioni.

I corazzieri, che proteggono il Capo dello Stato

         A tirarlo fuori da una polemica a dir poco imbarazzante, come parte in causa anche sul piano personale, non sono valse né il silenzio impostosi su questa materia da Mattarella né la fretta, direi la rapidità, con la quale egli a suo tempo con la propria firma autorizzò- secondo il dispositivo del quarto comma dell’articolo 87 della Costituzione- la presentazione alle Camere del disegno di legge del governo sulla riforma che porta ormai il nome del premierato.

         Trovo pertanto comprensibile e condivisibile la reazione opposta dal capo dello Stato all’ultimo tentativo di trascinarlo dove lui non vuole: ultimo in ordine di tempo ma sicuramente penultimo, potendosene e dovendosene prevedere ancora altri per le cattive abitudini di una certa politica e -ahimè- di una certa informazione. Della quale il meno che si possa dire e scrivere è che sia spesso poco corretta.

Lo dico e lo scrivo con levità nonostante  il direttore del Foglio, con la sua ciliegina rossa d’ordinanza, non abbia sentito il bisogno, il dovere e quant’altro di scusarsi ma abbia praticamente insistito nella rappresentazione fatta sul suo giornale del discorso della senatrice a vita Liliana Segre. E abbia declassato a “rettifica” quella che è stata più semplicemente o drasticamente una smentita. Errare è umano ma perseverare è diabolico, dice un vecchio proverbio ereditato dai latini come tanti altri di provata saggezza.

Pubblicato sul Dubbio

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