
Già volteggiava e volteggia sulla pur combattiva e fiduciosa Giorgia Meloni la maledizione delle vittorie nelle elezioni europee. Esse costarono care nel 1994 a Silvio Berlusconi, fatto poi cadere da Umberto Bossi; nel 2004 a Matteo Renzi, contemporaneamente segretario del Pd e presidente del Consiglio ma destinato a non essere più ne’ l’uno né l’altro nel giro di quattro anni; nel 2019 a Matteo Salvini, avvitatosi in una crisi di governo dalla quale praticamente non si è più ripreso, neppure ora che è vice presidente del Consiglio, ma precipitato dal 34 per cento dei voti di cinque anni fa all’8 per cento dei sondaggi attuali.

Poi è calata sulla premier come una strega la “opposizione giudiziaria” temuta, preannunciata e quant’altro dall’evidentemente informatissimo ministro della Difesa Guido Crosetto nell’autunno scorso con una intervista dalle forti ricadute anche parlamentari, e non solo mediatiche.

Siamo ormai a una riedizione della Tangentopoli di una trentina d’anni fa, come va dicendo o auspicando Giuseppe Conte dopo le avvisaglie della Puglia, della Sicilia, del Piemonte e ora della Liguria. Il cui governatore di centrodestra Giovanni Toti è finito agli arresti domiciliari, e nel solito processo sommario dei giornali e delle piazze alimentato giorno dopo giorno dalle notizie diffuse o lasciate trapelare dagli inquirenti.

Come se non bastasse questa opposizione giudiziaria -ripeto, nel linguaggio di Crosetto- si è aggiunta quella di carattere dichiaratamente e irriducibilmente “culturale e costituzionale” preannunciata dal presidente dell’associazione nazionale dei magistrati Giuseppe Santalucia, e confermata per acclamazione dal congresso della categoria appena conclusosi a Palermo, contro la riforma della giustizia in cantiere fra Palazzo Chigi e via Arenula. Che comprende la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, la divisione del Consiglio Superiore della Magistratura in due sezioni ed altre cose che, unite al progetto più generale del premierato, configurerebbe nell’immaginario collettivo della sinistra e affini una svolta autoritaria. Saremmo alla “capocrazia” proposta alla letteratura dal costituzionalista Michele Ainis.

A tutto questo, che di per sé già intorbida abbastanza le acque della campagna elettorale per il voto europeo dell’8 e 9 giugno, e per il consistente turno amministrativo che l’accompagna, si è aggiunta una certa, persino torbida esasperazione della competizione -elettorale anch’essa- fra le componenti della maggioranza. La più vistosa e clamorosa delle quali è quella è esplosa fra il vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani e il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti sul modo in cui fronteggiare la voragine finanziaria del cosiddetto superbonus edilizio varato a suo tempo da Conte, ma consentitogli da parecchi che ora sono spaventati dagli effetti sui conti – al minuscolo e al plurale- dello Stato.




