La Rai denudata dallo sciopero fallito dei giornalisti pur numerosi nella protesta

Dalla prima pagina di Repubblica

Sullo sciopero dei giornalisti alla Rai la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità -si direbbe in tribunale- è scappata al giornale –la Repubblica– che l’a maggiormente sostenuto. E l’ha raccontato in un richiamo in prima pagina con un titolo sovrastato da un occhiello, come si chiama in gergo tecnico, che di solito serve un po’ a catalogare l’evento. Ebbene, l’occhiello è di una sola parola, in giallo pallido: Politica.

E’ stato appunto un evento non sindacale. Uno sciopero proclamato e condotto per politica. Uno sciopero di opposizione politica- ripeto- contro una Rai liquidata come “TeleMeloni”, così come era “Tele Renzi” quando l’allora presidente del Consiglio la riformò sottoponendola direttamente al governo e non al Parlamento, e poi “TeleGentiloni” “TeleLetta”, da Enrico a Palazzo Chigi, “TeleConte”, “TeleDraghi”. E domani ancora “TeleMeloni”, non vedendosi ancora all’’orizzonte un’alternativa realistica al governo in carica da un anno e mezzo, formato dopo regolari elezioni, non dopo una marcia su Roma ripetitiva di quella di 100 anni prima, e sostenuto dalla fiducia del Parlamento.

Dal Foglio

         La “Rai scioperata”, secondo il solito e pungente titolo del Foglio, è apparsa improvvisamente, direi spietatamente nuda agli occhi dei suoi spettatori, o pubblico. Una Rai in cui avrebbe scioperato, secondo i dati del sindacato promotore, ben l’ottanta per cento dei giornalisti, annunciato con orgoglio particolare nel salotto televisivo di Lilli Gruber a la 7- e dove sennò?- ma dove hanno potuto andare regolarmente in onda due telegiornali su tre. Il che  potrebbe avere fatto pensare al contribuente del canone che nell’azienda sorvegliata dal cavallo morente di viale Mazzini vi è forse una certa sovrabbondanza di personale. E infatti le televisioni private forse neppure messe tutte insieme raggiungono i duemila giornalisti, e rotti in più o in meno, dipendenti dalla Mamma Rai che proprio in questo 2024 festeggia i suoi 70 anni di trasmissioni televisive.  

Dal Tempo

         La già ricordata Lilli Gruber e Il Fatto Quotidiano, non a caso l’ospite forse più frequente di quel semiaristocratico salotto asburgico, hanno attribuito il demerito -secondo loro- dei telegiornali andati lo stesso in onda ai “crumiri”, cioè ai legittimi dissidenti dallo sciopero. Uno che di Rai d’intende per avervi lavorato a lungo, Giovanni Minoli, in una intervista al Tempo ha invece applaudito al crollo di un altro “muro”, dopo quello di Berlino nel 1989. Il muro del sindacato unico e del conformismo nell’azienda pubblica dell’informazione e dello spettacolo. E’ questione, naturalmente, di gusto, oltre che di competenza.

         Un favore alla Rai scioperata -ripeto col Foglio– l’hanno fatto i giornali che l’hanno ignorata sulle loro prime pagine: dall’Unità alla Gazzetta del Mezzogiorno, al Riformista, al Dubbio e al manifesto. La cui carità è pari solo all’ostinazione con la quale si sente e si dichiara “quotidiano comunista”.

Ripreso da http://www.startmag.it

Quando si ha paura di chiamare le cose col loro nome

Amintore Fanfani

C’erano una volta le parole “magiche”, come nella ormai lontana prima Repubblica le chiamava Amintore Fanfani contestandole. A cominciare dal “confronto”, che Ado Moro, l’altro cavallo di razza della Dc, aveva adottato come testata di una sua agenzia di stampa dopo avere teorizzato la famosa “strategia dell’attenzione” verso il Pcii. Al quale  gli “amici” dorotei avevano proibito di aprire nei primi governi di centro-sinistra, salvo offrire all’opposizione comunista una maggioranza “più incisiva e coraggiosa” purchè guidata a Palazzo Chigi da uno di loro, in particolare Mariano Rumor.

Aldo Moro

         Fanfani dalla presidenza del Senato, dove si era attestato per meglio cercare di scalare il Quirinale, senza tuttavia riuscire a raggiungerlo, replicava a Moro che il confronto è insito nel Parlamento, dove si va appunto per confrontarsi.

         Un’altra parola magica che Fanfani contestava era la “irreversibilità” applicata da Moro al centrosinistra, senza più il trattino. Tutto è reversibile fuorchè la morte, gli replicava l’antagonista a costo di tradire la sua fede cristiana, che contempla la resurrrezione.

         Oggi le parole magiche che Fanfani forse contrasterebbe sono quelle, diciamo così, a rovescio. Che si pronunciano per sostenere la impraticabilità di certe decisioni o condizioni, che invece appartengono alla realtà delle cose.

La guerra in Ucraina

         Una di queste parole, per esempio, è a guerra. Nella quale il ministro degli Esteri e quello della Difesa, Antonio Tajani e Gudo Crosetto, per non parlare di Matteo Salvini, hanno assicurato di non sentirsi nei confronti della Russia di Putin, contro cui invece il presidente francese Emmanuel Macron non ha escluso di inviare truppe se davvero l’Ucraina dovesse rischiare di essere travolta anche con i nuovi aiuti militari e i finanziamenti che le stanno arrivando dall’Occidente. Pur se Giuseppe Conte, Michele Santoro e tutti gli altri al seguito ne parlano come di una sciagura vietata dalla Costituzione, è francamente difficile -o quanto meno ipocrita- negare che in guerra con Putin ci siamo già. Purtroppo in una condizione obbligata, in cui la Russia putiniana ha messo tutto l’Occidente scegliendo la guerra, appunto, originariamente camuffata come “operazione speciale” di polizia per confrontarsi -direbbe la buonanima di Moro-con l’Ucraina addirittura da “denazificare”.

         Un’altra parola magica al rovescio è il referendum. Che il melonianissimo deputato Giovanni Donzelli ha appena escluso, parlandone con La Stampa, fra i progetti, propositi e simili della premier. Che invece vi è quotidianamente immersa con la candidatura -legittima, per carità- al Parlamento europeo, annunciata espressamente per verificare la popolarità sua, facendosi votare Giorgia e basta, e del governo che guida. Un referendum che si ripeterà inevitabilmente, anche se negato a parole, quando la riforma del cosiddetto premierato arriverà al pettine della verifica elettorale, essendo prevedibile la mancanza parlamentare necessaria per evitarlo.

Toga giudiziaria

         Donzelli ha anche escluso guerre o simili con i magistrati per la riforma della giustizia appena impostata a Palazzo Chigi con la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la divisione del Consiglio Superiore della Magistratura in due sezioni, ad una delle quali si potrebbe arrivare col sorteggio, e il ricorso ad un’alta Corte per i procedimenti riguardanti le toghe. Ma quando questo progetto viene definito “assalto” dal presidente dell’associazione nazionale della categoria, almeno come gli ha fatto appena dire Repubblica nel titolo di una intervista, è difficile che il governo possa sottrarsi allo scontro.

         E’ la politica, bellezza. Come la stampa.

Pubblicato sul Dubbio con la firma sbagliata di Paolo Delgado

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