Carlo Nordio liberato dall’angolo nel quale era stato immaginato….

Dal Corriere della Sera

Altra sorpresa di Giorgia Meloni in questa lunga campagna elettorale per il voto del 9 giugno di rinnovo del Parlamento europeo. Al quale la premier si è candidata come capolista del suo partito in tutte le circoscrizioni non per andare davvero a Strasburgo ma -dichiaratamente e legittimamente, stando alle leggi in vigore- per misurare la sua popolarità. Cioè il suo consenso da leader di partito e da presidente del Consiglio.

La premier ha tolto il ministro della Giustizia Carlo Nordio -il suo ministro, da lei fortemente voluto in precedenza anche come candidato al Quirinale- dalla naftalina o addirittura dalla cella o cantina dove cronisti e retroscenisti lo avevano metaforicamente collocato, chiuso a chiave praticamente dalla stessa presidente del Consiglio. Che non ne avrebbe condiviso tempi e forse anche contenuti di certe sortite o iniziative nel timore delle reazioni soprattutto del sindacato delle toghe. Del quale Nordio non ha mai fatto parte quando era magistrato, non volendo essere neppure tentato dall’idea di intrupparsi in qualche corrente, e tanto meno sembra temere, ora che è guardasigilli, reazioni o trappole. Egli si vanta, piuttosto, di tenere con i rappresentanti dell’associazione di categoria rapporti persino cordiali, nonostante il dileggio che gli riservano alcuni magistrati eccellenti, diciamo così, ancora in servizio o prevalentemente in pensione.

Luciano Violante

         Con Nordio, appunto, e con gli esperti tecnici e politici della maggioranza la premier ha voluto concordare ieri, fra una rassegna di truppe e altri impegni, le basi delle modifiche costituzionali che saranno proposte a breve al Parlamento per separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e il Consiglio Superiore della Magistratura, che se ne occuperà in due sezioni distinte elette forse con una preventiva selezione effettuata con sorteggio. E per affidare ad un’alta Corte i procedimenti ai quali gli uni e gli altri potranno essere sottoposti, secondo una vecchia proposta avanzata a suo tempo dall’insospettabile Luciano Violante, già magistrato, già presidente della Camera e già responsabile dei problemi della giustizia del Pci, o capo -come fu definito- del “partito dei giudici”, o dei pm più in particolare. Di lui è rimasta famoso anche l’auspicio che la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri fosse evitabile separandole almeno da quelle dei giornalisti.

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Macron fa sorridere Mario Draghi sotto i baffi che non ha….

Macron e Draghi d’archivio

Sarà “filosofia”, come Giorgia Meloni l’ha definita una volta per sottrarsi a Bruxelles alla domanda di un giornalista, ma l’immagine di Mario Draghi in corsa proprio per Bruxelles, alla presidenza della Commissione o del Consiglio dell’Unione, è tornata prepotente nello scenario del dopo-elezioni del 9 giugno con quell’”approccio europeo” riconosciuto da Emmanuel Macron alla pur sovranista premier italiana. Senza il cui consenso, quanto meno, potrebbe diventare irrealizzabile il progetto, il sogno -chiamatelo come volete- del presidente francese di portare proprio il predecessore della Meloni, sorridente sotto i baffi che non ha, al vertice dell’Unione.

Meloni e Crosetto ieri

         E’ significativo, a dir poco, che il riconoscimento dell’”approccio europeo” -ripeto- alla Meloni sia arrivato nel contesto di una sortita del presidente francese sulla possibilità di un intervento di truppe occidentali in Ucraina per evitarne il crollo sotto l’offensiva spietata dei russi, sospettati peraltro di avere già fatto ricorso ad armi chimiche contro il paese limitrofo violando altri trattati internazionali. Sarebbe per l’Europa, anche se con l’intervento delle sole truppe di Francia, cui certo non si aggiungerebbero quelle italiane secondo un annuncio del ministro della Difesa Guido Crosetto, un passo ulteriore verso il modello del continente forte immaginato da Draghi.  Il quale con quella “riforma radicale” dell’Unione prospettata di recente si è praticamente offerto a gestirla.

Draghi e Meloni d’archivio

         Succedutagli a Palazzo Chigi un anno e mezzo fa in continuità di linea sulla politica estera, da lei condivisa nei mesi precedenti anche stando formalmente all’opposizione del governo da lui guidato, la Meloni è in difficoltà non solo “filosofiche”, o di metodo, parlandone o pensandone prima dei risultati elettorali del 9 giugno in una postazione di vertice nell’Unione.

Giorgia e Ursula d’archivio

Ci sono motivi molto meno filosofici e assai più concreti e imbarazzanti che frenano la premier. Innanzitutto -credo- ci sono i rapporti notoriamente eccellenti con la presidente uscente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, candidata alla conferma dal Partito Popolare di appartenenza, sia pure senza un consenso unanime di quella formazione politica.

Antonio Tajani

         Altre resistenze derivano paradossalmente dalla nazionalità dell’interessato, che potrebbe penalizzare ambizioni del centrodestra italiano, cui egli non appartiene perché apartitico. Ambizioni anche di altissimo livello che potrebbe già avere, per quanto negate, o potrebbe maturare un altro appartenente al Partito Popolare, addirittura uno dei vice presidenti, come Antonio Tajani: il successore di Silvio Berlusconi alla guida di Foza Italia.  

Tajani peraltro è già stato presidente del Parlamento di Strasburgo, conservando relazioni personali importanti sopravvissute a momenti di difficoltà vissuti quando Berlusconi cantò fuori comprendendo Putin nello scontro con l’Ucraina. Ed è tuttora vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri nel governo Meloni 

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