Quel sindaco senza la fascia d’ordinanza per ricordare il delitto Ramelli

Più che minore, come potrà essere apparsa ad altri di fronte a tutto ciò che più vistoso e persino sanguinario ci accade di vedere, mi sembra miserabile la vicenda della celebrazione, a Milano, del 49.mo anniversario della morte dell’attivista di destra Sergio Ramelli, ucciso a sprangate dagli antagonisti di sinistra.

         “In nome di una pacificazione nazionale che accomuna in una unica pietà tutte le vittime innocenti della nostra storia e come monito alle generazioni future affinchè simili fatti non debbano più accadere”, dice giustamente un ceppo sul quale è stata deposta una corona del Comune ambrosiano

Il sindaco di Milano Beppe Sala alla cerimonia per Sergio Ramelli

         Il sindaco di Milano Beppe Sala ha ereditato l’abitudine -sembra, essendosi la cosa ripetuta anche ad opera del suo predecessore di sinistra Giuliano Pisapia- di partecipare a questa celebrazione dimenticando, omettendo o quant’altro di indossare la fascia tricolore che ne contraddistingue generalmente  carica e funzioni.

         Il presidente del Senato Ignazio La Russa, milanese di consolidata adozione e siciliano di vantate origini, se n’è doluto.  A mio modesto avviso, non a torto. E alle spiegazioni di più o mena natura casuale date dal sindaco, che non ha risparmiato o negato la fascia tricolore solo a questa cerimonia, egli ha reagito osservando, anzi ripetendo ironicamente il vecchio proverbio sull’abito che non fa il monaco. Neppure un sindaco, quando non lo è. Ma Sala purtroppo lo è. Ne può essere considerato o scambiato per qualche figura del teatro pirandelliano.

La celebrazione ….privata del delitto Ramelli

         Di fronte a celebrazioni di pacificazione che diventano di controversa lettura e comvinzione, a dir poco, non può stupire che le parti, non sentendosi per niente pacificate e moralmente risarcite,  continuino a muoversi e manifestare alla loro maniera, di permanente lotta: con braccia levate, annessi e connessi, nella commemorazione- nel nostro caso- del povero Ramelli, tra le proteste e le polemiche strumentali alla lotta politica del momento.    

         Abbiano appena festeggiato, pur tra polemiche, denunce, tensioni di piazza e simili, i 79 anni dalla liberazione dal nazifascismo. Oggi festeggiamo la festa del lavoro, e del ponte che si è portato appresso. Quando festeggeremo finalmente il ritorno al buon senso, che d’altronde rimpiangeva già Alessandro Manzoni raccontando della peste proprio a Milano del lontano 1630  nel suo bellissimo romanzo mai abbastanza letto e riletto? Nel quale possiamo ben ritrovarci troppo di frequente, sia a sinistra, sia a destra, sia al centro. Desolatamente.

La parabola della destra, ma al rovescio, da Fini alla Meloni

La lettura della sentenza di condanna dell’ex presidente della Camera

         Giorgia Meloni -o Giorgia, come preferisce essere chiamata e votata alle elezioni europee di giugno- ha dietro di sé un anno e mezzo di guida del governo e davanti altri tre e mezzo, prima delle elezioni del 2027 per il rinnovo ordinario del Parlamento. Gianfranco Fini, già suo mentore e leader, che la portò prima alla vice presidenza della Camera e poi al governo come ministra di Silvio Berlusconi, spera tra appello, forse anche Cassazione e prescrizione di risparmiarsi i due anni e otto mesi di carcere rimediati ieri a Roma, dopo ben sette anni di processo, per l’affaraccio di Montecarlo. Dove autorizzò -come le ha contestato la sentenza- la vendita a buon mercato di una casa ricevuta dal suo partito in eredità da una generosa e nobile elettrice e diventata oggetto di un’avventurosa, a dir poco, speculazione.

   Prima ancora della condanna pur provvisoria di un tribunale della Repubblica, che gli dà il diritto, per carità, di godere della cosiddetta presunzione di innocenza, Fini ha subìto per quella disgraziata vicenda la fine della sua carriera politica. Concretizzatasi, in particolare, nella mancata rielezione al Parlamento, pur da presidente uscente della Camera, sulla scialuppa offertagli nel 2013 dall’allora premier Mario Monti.  

Fini dei tempi d’oro con una giovanissima Giorgia Meloni

         Fra i due fatti, situazioni, circostanze di incontrovertibile realtà ricordati all’inizio c’è tutta la parabola, paradossalmente al rovescio, della destra italiana sdoganata da Berlusconi più di trent’anni fa inserendola nella coalizione improvvisata con successo per evitare la vittoria della “gioiosa macchina da guerra” -ricordate?- allestita da Achille Occhetto: l’ultimo segretario del Pci travolto dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo e primo del Pds contrassegnato da una quercia. Ai cui piedi erano stati deposti la falce e il martello della precedente formazione politica. O “ditta”, come forse già allora Pier Luigi Bersani.

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          C’è una certa, dovuta e anche meritata tristezza per Fini constatandone le condizioni e paragonandole a quelle della sua ex collega di partito Meloni. Una tristezza aggravata, non attenuata, dalla guardia incautamente abbassata da lui, che pure sembrava così attento, in un’attività politica svolta anche con coraggio, sino a fare uscire la destra dalla vecchia “casa del padre”, come la chiamò, e da riconoscere “il male assoluto” nel fascismo da cui provenivano i più anziani, o meno giovani, dell’allora Alleanza Nazionale, già Movimento Sociale.  Lo ha tradito non solo e non tanto la disinvoltura storicistica rimproveratagli nella sua area di provenienza, o l’insofferenza per la leadership di Berlusconi, che egli voleva superare o archiviare anzitempo, quanto il cuore. Cioè, banalmente l’amore per una donna e la partecipazione alla sua famiglia, dove quell’affaraccio di Montecarlo si sviluppò. Diavolo di un uomo, reso evidentemente non abbastanza scaltro dalla politica, che pure di scaltrezza è scuola, come dimostra la nuova leader della destra.

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