Il progetto un pò spaziale, attribuito alla Meloni, del rimpasto di un terzo del governo

Dalla prima pagina di Repubblica

         Più che una notizia, francamente, mi sembra un desiderio di notizia il rimpasto attribuito ai progetti di Giorgia Meloni da Emanuele Lauria su Repubblica. Un desiderio, direi, alquanto malefico perché, salvo un ripensamento della corazzata della flotta d’opposizione al governo sulle capacità della premier, un presidente del Consiglio capace di uscire indenne dal cambiamento di un terzo della sua compagine ministeriale sarebbe davvero bravissimo. Questa infatti è la dimensione del rimpasto annunciato, attribuito e quant’altro alla Meloni.

  Nella cosiddetta prima Repubblica, quella vera e non di carta, che pure viveva di rimpasti, a parte l’eccezione spadoliniana di un governo fotocopia del precedente, non ricordo da cronista un’operazione ben riuscita delle dimensioni attribuite, ripeto, ai progetti della Meloni per il dopo-elezioni europee dell’8 e 9 giugno prossimi.

Carlo Nordio

         Sette ministri da cambiare, più che da spostare, sui 25 in carica, fra i quali quello della Giustizia Carlo Nordio, già candidato dalla Meloni al Quirinale ma, sembra, rivelatosi a sorpresa alla premier più un problema che una risorsa, sono politicamente un po’ come un’operazione spaziale. E ciò per quanto la premier, con quel suo obiettivo furbescamente modesto propostosi di replicare a giugno il 26 per cento dei voti delle politiche del 2022, possa meritarsi la previsione di uscire bene dalle urne fra tre mesi sia personalmente sia come leader del primo partito della coalizione di centrodestra. Tanto bene da imporsi in tutti i sensi sugli alleati e sui problemi forse drammatici che alcuni di essi potranno vedere e sentire scoppiare all’interno dei loro partiti.

         Il più sospettato di scombussolamenti fra gruppi della maggioranza è naturalmente quello di Matteo Salvini, che non a caso è anche il più turbolento fra i ministri, e dei due vice presidenti del Consiglio. L’ultimo sondaggio sfornato da Ipsos  per il Corriere della Sera ha dato la Lega sorpassata da Forza Italia del solo 0,7 per cento, e non doppiata come in alcuni passaggi elettorali recenti a livello amministrativo. Ma se le distanze a giugno dovessero risultare maggiori, non so se e quanto potrebbero risultare contenuti o controllabili gli effetti nel partito che fu di Umberto Bossi e non potrebbe più essere neppure quello di Matteo Salvini. Che rischia di finire un po’ metaforicamente sotto il ponte dello stretto di Messina prima ancora che egli riesca davvero ad aprirne i cantieri. Altro che il disastro di Baltimora ancora sulle prime pagine, o quasi, dei giornali di tutto il mondo.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Testimonianza d’imputato a favore del test psicoattitudinale alle toghe

Da Libero

Mi permetto di rendere una modesta testimonianza d’imputato a sostegno della prova psicoattitudinale per i magistrati. Contro  la quale si sono levate ancora più alte che in passato le proteste degli interessati, evidentemente consapevoli che questa volta la rischiano più del solito,  in un Parlamento meno intimidito o intimidibile di altre occasioni.

         E’ il 1983. Il Parlamento sta per essere sciolto con un anno di anticipo e l’ufficio di presidenza della prima commissione d’inchiesta parlamentare sulla tragica fine  di  Aldo   Moro decide di chiudere in cassaforte, senza sottoporla a discussione, una relazione che pure aveva chiesto attraverso il governo ai servizi segreti sulle “connessioni internazionali del terrorismo”.  Si vuole risparmiare così al Pci , a ridosso della campagna elettorale, la scomodità di un dibattito che potrebbe smentire l’autoleggenda di un terrorismo rosso italiano autoctono, senza mani, manine e manone d’oltre cortina di ferro, o affini.

Leo Valiani

         Qualcuno spesosi molto in alto contro questa leggenda non gradisce l’operazione silenziatrice e mi fa avere il rapporto integrale, che io pubblico sulla Nazione fra le proteste, pensate un po’, anche del senatore a vita Leo Valiani. Egli scavalca il Pci e reclama sul Corriere della Sera una mia “esemplare” punizione, cioè l’arresto. Che è previsto come obbligatorio in caso di violazione di segreto di Stato, come dovrebbe ritenersi quel documento per quel “riservatissimo” stampato vistosamente sul frontespizio.

Io invece ritengo- come dopo due anni riconoscerà anche il governo con una lettera alla Procura Generale della Corte d’Appello di Roma che obbligherà gli inquirenti a lasciarmi in pace, dopo avermi negato il rinnovo del passaporto e comminato una decina di giorni di arresti domiciliari- che quel rapporto ha perduto la sua riservatezza nel momento stesso in cui è approdato in una commissione parlamentare di quaranta fra deputati e senatori di ogni parte politica. Uno dei quali infatti -peraltro in pendenza delle indagini prontamente avviate contro di me e la celebre testata toscana- metterà quel rapporto fra i documenti allegati ad una sua relazione di minoranza sulle conclusioni della commissione d’inchiesta bicamerale.

Adolfo Gatti

         Assistito dal compianto e mitico  avvocato Adolfo Gatti e convocato da un sostituto procuratore della Repubblica di Roma destinato a fare carriera, mi presento al primo e unico interrogatorio di questa mia vicenda giudiziaria.  Il magistrato fa sedere me e l’avvocato davanti alla sua scrivania, si alza, raggiunge la porta, la chiude a chiave, torna al suo posto e mi chiede le generalità. Trascritte le quali a macchina da un verbalizzante, mi sento chiedere, sempre dal sostituto procuratore: “Ha subìto altre condanne?”. Io rispondo chiedendo a mia volta: “Debbo allora considerarmi già condannato alla fine di questa inchiesta?”.

Non l’avessi mai fatto. Il mio inquisitore rivendica animatamente la legittimità di questa “domanda di rito”. E io di rimando: “Un rito, direi, discutibile”. E lui ancora più animatamente, anzi animosamente, mi  intima di non fare “lo spiritoso” e di raccontargli piuttosto da chi avessi ricevuto il rapporto. Che peraltro ho consegnato spontaneamente agli agenti della polizia giudiziaria mandati qualche giorno prima in redazione con un ordine di perquisizione. E tornati poi a casa, quasi all’alba., sempre per perquisizioni.

         Evito, su suggerimento rivoltomi prima dell’interrogatorio dall’avvocato, di non rivendicare esplicitamente il diritto sgradito a molti magistrati alla copertura delle fonti e ricorro al solito espediente destinato purtroppo a diventare dopo molti anni vero, cioè il normale traffico di certe notizie, dossier e simili: la busta anonima trovata nella buca delle lettere del giornale  e a me destinata col nome e cognome scritti in stampatello. “Questo lo va a raccontare a suo nonno”, grida il sostituto procuratore. E io: “No, questo lo racconto a Lei, come tanti colleghi fanno ad altri magistrati senza essere aggrediti”.

Nicola Gratteri

         Qui finisce la mia testimonianza,  con una doppia domanda dalla quale vorrei una risposta dal capo della Procura di Napoli Nicola Gratteri, così severo in questi giorni verso il guardasigilli Carlo Nordio e la politica, in genere.  Eccola: quella mattina di 41 anni fa, già prima quindi delle stagioni giudiziarie invasive del 1992 e oltre,  chi meritava di più una visita psicoattitudinale? Io o il sostituto procuratore poi soccombente ma destinato lo stesso a salire in carriera, credo senza cambiare stile e metodo di lavoro? I nomi in questa storia non contano, anche se mi sono offerto da testimone.  Contano i fatti.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 7 aprile

La deriva politica e sindacale della magistratura dopo i moniti di Saragat e di Leone

Dal Dubbio

Sono passati 50 anni -troppi, diranno forse i magistrati tentati dallo sciopero contro la prova psicoattitudinale di sostanziale avvio della carriera, ma comunque senza modifiche intervenute nel frattempo nella parte della Costituzione che li riguarda- da un discorso di Giovanni Leone del 28 giugno 1974 in veste di presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura che torna di attualità in questi giorni. Di attualità e, direi, anche di monito, come un precedente intervento, nella stessa sede, di Giuseppe Saragat nel 1967. Entrambi contro lo sciopero delle toghe.

Giuseppe Saragat al Consiglio Superiore della Magistratura nel 1967

         Saragat definendo “giuridicamente inammissibile uno sciopero dei magistrati” poteva forse essere considerato un uomo troppo politico e poco attrezzato in materia giuridica per essere considerato, anche se a torto sul piano istituzionale, all’altezza di un’affermazione, o negazione, così perentoria. Ma Leone, un professore universitario alla cui scuola si erano formate generazioni di studenti, un avvocato altrettanto prestigioso, già presidente della Camera e due volte presidente del Consiglio, non poteva essere scambiato per un mezzo incompetente. E infatti non lo fu, guadagnandosi il mese dopo su Panorama gli apprezzamenti e ringraziamenti di un filosofo come Guido Calogero. Che proprio rifacendosi ai concetti di Leone, e prima di Saragat, scrisse: “Qui è in gioco quello stesso “senso dello Stato” di cui stranamente appaiono privi quei magistrati che pensano di poter fruire del diritto di sciopero senza alcuna distinzione rispetto a qualsiasi altro membro della classe lavoratrice. Ma allora che succederà se, in questo quadro, sciopereranno i giudici della Corte di Cassazione? Potranno scioperare, per analogia, anche quelli della Corte Costituzionale? Perché allora non anche il presidente della Repubblica?”. Che, peraltro, nella persona proprio di Leone, avrebbe avuto di che scioperare forse nel 1978, quattro anni dopo, quando fu costretto alle dimissioni anticipate in una vicenda appena rievocata sul Corriere della Sera da Walter Veltroni con una partecipazione purtroppo macchiata da qualche amnesia sul ruolo avuto dal suo Pci, e soprattutto sui motivi, all’indomani di un delitto che l’allora capo dello Stato aveva cercato in ogni modo -persino colpevolmente secondo l’opposizione comunista?- di evitare. Mi riferisco naturalmente all’assassinio di Aldo Moro dopo il sequestro, fra il sangue della scorta sterminata a poca distanza da casa, e 55 giorni di prigionia.

         “Di fronte ad una prospettata astensione dal lavoro dei magistrati , disse Leone al Consiglio Superiore, “non posso che richiamare –nella mia duplice responsabilità di presidente di questo Consiglio e di custode della Costituzione e rappresentante dell’unità nazionale…..- – le parole di precisa e recisa opposizione pronunciate in questo consesso dal predecessore Giuseppe Saragat”-

         “E appunto come custode della Costituzione e presidente di questo consesso, il mio predecessore, richiamandosi ai principi affermati dalla Corte Costituzionale e a un ordine del giorno dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura del 20 dicembre 1963, confermato poi il 21 febbraio 1967, espresse la fiducia – continuò e spiegò Leone- che i magistrati si sarebbero astenuti da ogni manifestazione non consona con la posizione costituzionale e con il prestigio della magistratura”.

Giovanni Leone nel 1974 col vice presidente del Csm Giacinto Bosco

         E ancora, sempre Leone al Consiglio Superiore del 28 gennaio 1974: “L’affermazione che la Costituzione, “in considerazione del carattere essenziale delle funzioni esercitate dai magistrati, investiti di funzione sovrana, assiscura agli stessi magistrati speciali guarentigie e uno status particolarissimo e che a queste guarantegie e a questo status non possono non corrispondere speciali responsabilità, obblighi e doveri, tra i quali quelli di assicurare la continuità di una funzione essenziale, sovrana, insuscettibile di interruzione, resta un punto fermo che è doveroso ribadire”

         E gli scioperi ugualmente sopravvenuti dei magistrati? Tutti contro quel modo ancora valido, a Costituzione invariata, di vedere le cose, di sentire le istituzioni e di rispettarle.

Pubblicato sul Dubbio

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