Abituati a leggere i sondaggi in funzione della competizione fra i partiti, anche all’interno di una coalizione, reale o potenziale che sia, sono andati tutti a registrare nell’ultima rilevazione dell’Ipsos, pubblicata ieri dal Corriere della Sera, lo 0,5 per cento guadagnato in un mese dai “fratelli d’Italia” di Giorgia Meloni, saliti pertanto al 27,5. O il punto e mezzo guadagnato dal Pd, salito al 20,5 sul piano nazionale. O l’1,3 per cento perduto dal MoVimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, sceso pertanto al 16,1 raddoppiando praticamente le distanze dal Pd della Schlein. Con quanta poca soddisfazione per l’ex premier è facile immaginare, essendone arcinota l’ambizione a guidare l’opposizione ora, una nova maggioranza domani, anzi dopodomani.
Non c’è aria, mi sembra, di una rottura del centrodestra pur diviso, e tanto meno di un ricorso anticipato alle urne per il rinnovo del Parlamento eletto solo un anno e mezzo fa. C’è aria, al contrario, di una legislatura destinata a durare sino all’esaurimento naturale nel 2027. Matteo Savimi, che pure è il più agitato nel centrodestra, il maggiore disturbatore della quiete raccomandata dalla Meloni, prevede addirittura nei comizi e nei salotti televisivi il raddoppio dell’attuale maggioranza, sino al 2032.
Da Palazzo Chigi
Lo stesso Salvini peraltro nella corsa o rincorsa nel centrodestra ha dovuto segnare in un mese un arretramento pur del solo 0,2 per cento delle intenzioni di voto contro un aumento dello 0,5 per cento dei forzisti di Antonio Tajani, e ora anche di Letizia Moratti, Gabriele Albertini e altri tornati a casa dopo la morte di Silvio Berlusconi. Il vistoso sorpasso forzista sul Carroccio festeggiato nelle recenti elezioni regionali abruzzesi si è ridotto alle dimensioni oggettivamente modeste dello 0,7 per cento. Che dovrebbe consigliare più prudenza al ministro degli Esteri, così sicuro in quelle immagini fisiche da nomenklatura che da giovani vedevamo provenire da Mosca in occasione delle parate militari davanti ai capi di turno del Cremlino.
Cabine elettorali vuote
Ma siamo sicuri che il sondaggio Ipsos appena sfornato valga per questi aspetti, o soprattutto per questi? Personalmente ne dubito, avendo trovato di maggiore interesse -o allarme, se preferite- quel 3 per cento in più registrato in un mese -la punta più alta dei cambiamenti- a favore degli indecisi, astensionisti e simili, saliti dal 49,5 al 52,5 per cento: la vera maggioranza potenziale del Paese.
Pier Ferdinando Casini sul Corriere della Sera
Il buon Pier Ferdinando Casini scriveva ieri proprio al Corriere della Sera, interloquendo con Massimo Gramellini sui rischi che costituiscono oggi i self per i politici, come dimostra il caso del sindaco di Bari ritratto con la sorella e la nipote di un boss ergastolano: “Davanti all’incombenza ogni tanto mi sovviene una domanda ancora più insidiosa” della paura di una immagine scomoda: “Come ci rimarrò quando non me lo chiederanno più”, il self? Vale per tutti: a destra, a sinistra e al fantomatico centro.
Premetto per chiarezza e lealtà verso i lettori di avere una certa simpatia personale per Walter Veltroni, per il cui Pd da lui condotto e fondato l’anno prima avrei persino votato nel 2018 se lui stesso -benedett’uomo- non me lo avesse impedito preferendo apparentarsi elettoralmente con l’Italia dei valori bollati di Antonio Di Pietro, piuttosto che con i radicali di Marco Pannella. Ma è acqua passata. Quella scelta, del resto, costò a Walter la segreteria del Pd, più ancora dell’insuccesso elettorale in Sardegna nel 2009.
Le sue dimissioni hanno via via restituito Vetroni alla saggistica e al giornalismo, sino a farne un apprezzato editorialista del Corriere della Sera. Ma questo suo processo di evoluzione, recentemente sfociato in un bel libro di meritato successo contro il linciaggio dell’ex direttore del carcere romano di Regina Coeli Donato Carretta nel 1944, mi è sembrato interrotto da un ritorno alle abitudini o passioni politiche con la rievocazione, che ha voluto fare ieri sul Corriere, delle dimissioni di Giovanni Leone da presidente della Repubblica nel 1978: sei mesi prima della scadenza del mandato e poche settimane dopo l’assassinio di Aldo Moro. Che lo stesso Leone, non condividendo la linea della cosiddetta fermezza imposta dal Pci alla Dc e al suo governo monocolore da componente essenziale della maggioranza, aveva inutilmente cercato di sottrarre all’esecuzione dei brigatisi rossi predisponendosi alla grazia per una terrorista contenuta nell’elenco dei tredici detenuti reclamati per lo scambio con l’ostaggio sequestrato il 16 marzo in via Fani.
Veltroni mi è sembrato, francamente, più colpito dalla “solitudine” lamentata da Leone, leggendone le carte depositate in Parlamento e scritte dall’interessato a proposito sui suoi ultimi giorni al Quirinale, che consapevole e pentito -sì, pentito- del ruolo decisivo svolto dal Pci per la sostanziale deposizione del capo dello Stato. Cui avrebbero praticamente nuociuto, secondo Veltroni, più le “campagne di stampa” scandalistiche per l’affare Loocheed e altre vicende personali che l’ostilità politica maturata nei suoi confronti nel partito comunista, Che pure a quelle campagne non aveva partecipato per dissenso esplicitato da Paolo Bufalini, che non era certamente l’ultimo dirigente delle Botteghe Oscure.
Paolo Bufalini
Fu proprio a Bufalini che Berlinguer, come ha ricordato lo stesso Veltroni, affidò l’incarico di andare a riferire al principale, più fidato collaboratore di Leone che occorrevano le sue dimissioni come “segnale” di cambiamento, reazione e simili all’impopolarità della politica. Che sarebbe emersa dai referendum sulla legge Reale per l’ordine pubblico e soprattutto sul finanziamento pubblico dei partiti, scampato per un soffio alla bocciatura.
Aldo Moro prigioniero delle brigate rosse
Ma, più che di ansie morali o moralistiche il Pci soffriva in quel momento del peso di una crisi della politica di solidarietà nazionale avviata con la Dc sul solco del “compromesso storico” elaborato precedentemente da Berlinguer in persona. Un peso riconosciuto e raccontato da Veltroni in termini generici, senza mai riconoscere, e quindi precisare se condiviso o non da lui, l’ostilità procuratasi da Leone alle Botteghe Oscure dandosi da fare per un rilascio in qualche modo negoziato di Moro da parte delle brigate rosse, Questo, in realtà, più che ogni altro, fu il fattore, il motivo vero dello scontro consumatosi in quei giorni. Uno scontro descritto da Veltroni raccontando più delle penose interlocuzioni di Leone con i colleghi di partito Giulio Andreotti e Benigno Zaccagnini, smaniosi di chiudere la partita reclamata da Berlinguer, che dei rapporti diretti o indiretti fra lo stesso Leone e il Pci. Che peraltro alle elezioni presidenziali del 1971 non aveva voluto votarlo, così come non aveva voluto votare il precedente candidato ufficiale della Dc, che era stato Amintore Fanfani. Avrebbe invece voluto votare Moro, bloccato però dal suo partito nelle scuderie, diciamo così, nonostante il tentativo compiuto ad un certo punto dal segretario Arnaldo Forlani di metterlo in pista, in dissenso dal suo ormai ex capocorrente Fanfani.
Giovanni Leone
La fretta di Berlinguer, a monte di quella di Andreotti e Zaccagnini, di chiudere la partita del Quirinale aperta -ripeto- dal Pci nasceva peraltro dalla paura nutrita alle Botteghe Oscure, e non so se avvertita anche dall’allora poco più che ventenne Veltroni, che Leone si lasciasse tentare dal desiderio di chiarire le circostanze nelle quali era stato vanificato il suo tentativo di salvare la vita di Moro. Il cui assassinio avvenne poche ore prima che, conclusa una riunione molto attesa della direzione democristiana, l’unica durante tutto il sequestro del presidente del partito, Leone firmasse la grazia a Paola Besuschio e cercasse di fare riaprire fra i capi delle brigate rosse la discussione sull’epilogo del sequestro e della prigionia del presidente dc.
Leone insomma, per dirla il più chiaramente possibile, persino brutalmente, doveva lasciare il Quirinale il più presto possibile e nel modo meno decoroso per lui, o più sputtanante, perché non fosse credibile una sua recriminazione su come fosse stato gestito il sequestro dal governo. Una recriminazione di cui si coglie una traccia, o un sintomo, in un passaggio delle carte di Leone lette e riferite da Veltroni su una richiesta dello stesso Leone di ricorrere alla Croce Rossa Internazionale per sciogliere la matassa del sequestro. Una strada che il governo disse a Leone di avere già inutilmente percorso senza tuttavia convincerlo di averci davvero tentato,
Giovanni Leone nel suo ritiro alle “Rughe”
L’operazione di sostanziale intimidazione e discredito del presidente della Repubblica raggiunse sinistramente, diciamo pure ignobilmente, i suoi effetti. Leone si chiuse in casa, nella sua villa alle Rughe, come in un ricovero in una guerra. Tornò praticamene a parlare -fra l’altro con una intervista al Foglio da me raccolta nel suo studio accanto alla moglie- dopo una ventina d’anni, quando a cambiare il clima attorno a lui furono i radicali con una lettera di scuse per il contributo dato alle sue dimissioni e al suo ingiusto discredito. Che è la lettera con la quale Vetroni ha aperto la sua rievocazione della vicenda più tragica, ambigua, sordida della Repubblica, dopo o accanto a quella dello stesso sequestro di Moro. La vicenda cioè di un capo dello Stato eliminabile senza bisogno né di sequestrarlo né di ucciderlo.