Quattordici anni per chiederne otto di carcere a Gianfranco Fini….

Dal Giornale

A 14 anni di distanza dai fatti – quattordici, in lettere, che sono lo scandalo maggiore di tutta la vicenda- Gianfranco Fini si è visto e sentito raggiungere in tribunale da una richiesta di otto anni di carcere per riciclaggio su quel maledetto affare partitico-familiare di una casa a Montecarlo. Che fu lasciata in eredità al Movimento Sociale da un’elettrice di destra inconsapevole dei guai cui avrebbe così destinato Fini. Se solo avesse potuto immaginarli, gli avrebbe risparmiato la sua galeotta generosità.  E impedito che quell’appartamento diventasse una trappola, talmente svenduta o lasciata svendere da Fini al cognato per 300 mila euro da essere poi rivenduta in poco tempo a più di un milione.

         La pubblica accusa ha chiesto otto anni per l’ex presidente della Camera, ma anche ex vice presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri, nove per sua moglie -la seconda- Elisabetta Tulliani, dieci per il cognato e cinque per il suocero. La sentenza è attesa fra circa un mese.

Fini nel 2010 contro Berlusconi

         Poiché questa volta aveva di fronte un pubblico ministero e non la buonanima di Silvio Berlusconi, che nel 2010, sempre l’anno dell’affaraccio di Montecarlo, lo aveva contestato in un incontro di partito per i bastoni che gli metteva fra le ruote del governo e della maggioranza, Fini non ha potuto reagire chiedendo all’accusatore di turno: “Che fai? Mi cacci?”. In questo caso: che fai? Mi mandi in galera?

Berlusconi nel 2010 contro Fini

  Tanto meno Fini lo chiederà al giudice prima della sentenza. La sua vita è decisamente cambiata. Qualche giorno fa gli è capitato di tornare alla Camera, tra buvette e cosiddetto Transatlantico, e di scambiare battute con ex colleghi ma procurandosi nelle cronache solo qualche rigo. Gli rimangono il ricordo di quello che fu e l’immaginazione di ciò che sarebbe potuto diventare quando aveva non gli attuali 72 ma i 58 anni del 2010 se solo avesse avuto più prudenza o meno fretta di succedere a chi pure fra il 1993 e il 1994 aveva sdoganato politicamente lui e la sua parte politica.

Fini in carrozza a Londra con la prima moglie

         Galeotta fu per Fini, oltre alla generosità di quell’elettrice, la sua ambizione. Più galeotta anche di quella giovane avvenente che prese il posto, nel suo cuore e nel suo letto, della prima moglie, non abbastanza in tempo tuttavia per sostituirla sulla carrozza che a Londra portò l’allora ministro degli Esteri Fini a Backingham Palace da Elisabetta: la regina, naturalmente, non la Tulliani,

Fini con Elisabetta Tulliani

         Più di Fini ha avuto comunque fortuna la sua destra, arrivata con Giorgia Meloni alla guida del governo e di una coalizione nominalmente ancora di centrodestra, in realtà di destra-centro. E con prospettive di durata niente male, per quanti problemi voglia e possa creare alla premier ogni giorno un alleato come Matteo Salvini. Che non ha voluto risparmiarsi neppure la soddisfazione per la vittoria elettorale di Putin. E non perché questa possa aiutare l’Europa a svegliarsi nella difesa ma solo perché prolunga il potere e tutto il resto di chi troneggia al Cremlino.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

L’involontario soccorso di Putin a un’Europa divisa e incerta

Dal Dubbio

Ma chi l’ha detto che il quinto mandato presidenziale appena acquisito da Putin in Russia -altro che il terzo desiderato per Luca Zaia in Veneto, per il quale chissà cosa darebbe Matteo Salvini sopra e sotto banco in Italia- arriva come sciagura sul mondo, sull’Europa e naturalmente, o a cominciare dall’Ucraina? Che resiste con la sua bandiera bicolore e gli aiuti dell’Occidente all’aggressione di un Cremlino dove si nseguono i fantasmi degli zar, di Lenin, di Stalin ma anche di Navalny, a dispetto della sorte riservata o lasciata riservare al suo corpo nella lontana e ghiacciata Siberia proprio da Putin. Che ora dice di essere stato tentato di liberarlo in vita.

Sant’Agostino

         Putin, a dispetto dei medici che a distanza, vedendone mani, gambe, piedi, colore del viso e chissà cos’altro gli diagnosticano continuamente malattie tutte d’esito più o meno infausto, porterà probabilmente a termine nel 2030 il suo quinto -ripeto-mandato da zar travestito da presidente eletto. E, fra sei anni, ancora sotto gli ottanta, si ritaglierà anche un sesto, lungo giro di giostra fra le guglie del Cremlino. Ma potrà  finire, suo malgrado, per costituire il santagostiniano male capace di tradursi in un bene per i suoi avversari. Persino se abbinato alla sciagura da tanti temuta, al di là e al di qua dell’Atlantico, di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.

         Costretta anche da una simile prospettiva, l’Europa potrà ritrovare l’istinto della sopravvivenza. Come accadde a suo tempo con la pandemia, che la fece tornare a quello spirito umanitario e sociale dei tempi dei fondatori della Conunità e poi dell’Unione, smarritisi poi lungo la strada. Specie dopo che la caduta del muro di Berlino, e del comunismo, diede a molti l’illusione che tutto ormai fosse destinato a scorrere nel vecchio continente come l’acqua in un fiume dagli argini ormai molto alti e sicuri.

         Con la pandemia potette accadere che un governo fra i più anomali, imprevisti e imprevedibili d’Italia, nato dall’incrocio fra il populismo di Beppe Grillo e quello di Matteo Salvini, tollerato da un Silvio Berlusconi traumatizzato dal sorpasso leghista appena subìto, strappasse fra Bruxelles e Berlino una tale carrettata di euro da non riuscirne neppure a contare o comunque pesare la quantità.

La povera Merkel ancora salda al suo posto di cancelliera non dico di ferro ma quasi, si lasciò pazientemente descrivere al bar da Giuseppe Conte, fra un cappuccino e un’aranciata che solo loro potevano mettere insieme,  gli arabeschi sviluppi della smaggioranza di governo in Italia. E persino convincersi ad aiutarla.

Putin fra i suoi missili

         Ora, con Putin confermato al suo posto con quasi il novanta per cento dei voti a presidiare, fra l’altro, il suo armamento atomico, sventolato con i missili e con le sue visite agli arsenali come se fossero bandiere, l’Europa dovrà per forza ritrovare se stessa. Che non è quella coltivata nei giardini della loro fantasia dai putiniani d’Italia, come li chiama a Kiev il presidente ucraino Zelensky. Un’Europa dove persino il presidente francese Emmanuel Macron, partito all’inizio della guerra in Ucraina con l’esigenza di comprenderne in qualche modo la ragione e di non reclamare l’umiliazione della Russia criticata su entrambe le sponde dell’Atlantico, ha prospettato la partecipazione fisica e diretta degli europei, in divisa e debitamente armati, contro gli occupanti dell’Ucraina. E ciò anche a costo di far venire le vertigini all’olimpico ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani e imbarazzati copi di tosse al ministro della Difesa Guido Crosetto, pur sollevato dai guai che è riuscito a procurare mediaticamente e giudiziariamente agli incursori nei suoi conti bancari.

Schlein e Conte

         Il Putin al suo quinto mandato complicherà ulteriormente la vita in Italia anche al campo, largo o stretto che sia, lungo o corto, arato e non, di Elly Schlein e di Giuseppe Conte. Che fra i sassi di Matera hanno finito anche per perdersi le scarpe e ritrovarsi i piedi sanguinanti. Sui quali vigila mestamente, con cerotti e simili, l’ex ministro pd della Sanità, chiamato Speranza solo di nome.

Pubblicato sul Dubbio

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