Elly Schlein e Giuseppe Conte, in ordine di galanteria di genere dovuta a prescindere dalle loro tendenze e pratiche sessuali, giocano in Italia a perdere o ritrovare, allargare o restringere, allungare o accorciare il loro “campo” da gioco fra regioni, comuni, borghi e quant’altro, perdendolo ogni tanto persino di vista. Come registra con compiacimento non nascosto il Quotidiano Nazionale fatto di Giorno, Resto del Carlino e Nazione, in ordine geografico discendente di stampa e diffusione.
Meloni d’archivio con al Sisi
Giorgia Meloni, guardando meno agli alleati interni e alle azioni di disturbo che una certa stampa ostile attribuiscono loro contro di lei, occupa sempre più saldamente il campo internazionale nel quale ha preferito crescere e distinguersi dal primo giorno del suo arrivo a Palazzo Chigi. E su cui ha scommesso sino ad ora con un certo successo misto a fortuna, qual è il turno capitatole di presidenza del G7 proprio in quest’anno delle elezioni europee.
Da La Stampa
Ora, da sola come la preferisce rappresentare la Stampa vignettisticamente in prima pagina col suo “Giornalone” satirico , o nella solita coppia fissa ormai con la presidente uscente e chissà sa rientrante della Commissione europea di Bruxelles, la tedesca Ursula von der Leyen, toglie all’Egitto la locuzione scettica o sfottente delle cose improbabili o false. E ne diventa…mezza regina, come qualcuno preferisce immaginarla ancora non rinunciando a quell’antica locuzione negativa, appunto.
Giulio Regeni
Il famoso “piano Mattei” escogitato dalla Meloni per rimandare a monte, diciamo così, il problema dell’immigrazione clamdestina allontanandolo dalla valle costituita dalle coste italiane che segnano gran parte dei confini meridionali d’Europa, si traduce anche in Egitto, come è già accaduto in Tunissia, in accordi concreti. Sette milioni e mezzo di euro sono quelli attribuiti alle borse della Meloni e della von der Leyen destinate all’Egitto di al Sisi. Che è il generale inviso in Italia a quanti ancora gli contestano le coperture fornite ai suoi sottoposti che uccisero l’italiano Giulio Regeni scambiandolo per una pericolosa spia, ma guadagnatosi qualche credito liberando, cioè graziando, lo studente dell’Università di Bologna Patrick Zaky.
Patrik Zaki
Quest’ultimo ha ringraziato a suo modo la Meloni, certamemte non estranea alla sua liberazione, partecipando alla campagna elettorale contro di lei in Abruzzo, dove la sinistra sognava di sconfiggere il centrodestra. E’ la politica, bellezza, come diceva della stampa nel mitico film a Casablanca Humphrey Bogart.
Migranti in mare
Ma la Meloni guarda al sodo, come al solito. O come ha imparato da una militanza politica condotta con una certa professionalità da quado era solo una ragazza. E il sodo per lei è un Egitto vero, non falso o immaginario, disponibile ed efficace come la Tunisia a contenere, dirottare e quant’altro i migranti d’Africa e dintorni tentati dalle coste italiane dell’Europa anche al carissimo prezzo, in soldi e in vite umane, imposto dagli scafisti che ne gestiscono il traffico.
Quanto fu facile l’agguato per il sequestro di Aldo Moro e lo sterminio della scorta -altro che “geometrica potenza di fuoco” e simili- tanto fu incredibilmente possibile, e quindi facile di nuovo, nascondere il rapito per 55 giorni e infine ucciderlo in una città come Roma, pur presidiata militarmente o quasi, forse anche cambiando covo, tenere sulla corda la politica, le forze dell’ordine, le cancellerie diplomatiche, la segreteria generale dell’Onu, mossa in Italia dal ministro degli Esteri Arnaldo Forlani fra il malumore dei comunisti, arroccattisi nella cosiddetta “linea della fermezza”, e la millenaria Chiesa dell’altra sponda del Tevere. Dove Paolo VI personalmente, ornai negli ultimi mesi di vita, si spese – non molto, commentò lo stesso Moro dalla sua prigionia- per salvare la vita al suo amico e già assistito religiosamente da giovane.
Paolo VI ai funerali di Stato di Moro
Prima Papa Montini supplicò “in ginocchio” i terroristi di liberare l’ostaggio “senza condizioni”, come voleva e si aspettava Andreotti confidandosi col segretario stesso del Pontefice che lo andava a trovare a casa, a due passi dal Vaticano, quasi ogni sera. Poi il Pontefice, a tragedia completata, nei funerali svoltisi senza la bara di Moro per volontà dei familiari, quasi bestemmiò in Chiesa imprecando contro Dio che non aveva voluto ascoltare le sue preghiere, al pari dei brigatisti rossi. Le facce livide degli uomini delle istituzioni e della politica, a cominciare dal capo dello Stato Giovanni Leone costretto di lì a poco a sloggiare in anticipo dal Quirinale, sembrarono in posa per un immaginario nuovo affresco di Michelangelo, questa volta nella Basilica di San Giovanni.
Le autorità ai funerali di Stato di Moro
Quella testa di Leone rotolata metaforicamente dopo la tragica conclusione del sequestro Moro grida ancora vendetta come la morte dello stesso Moro. Che Leone era stato l’unico -dichiaratamente isolato nel suo ufficio presidenziale, secondo quanto lui stesso mi raccontò vent’anni dopo in una intervista al Foglio– a cercare di sottrarre davvero agli aguzzini e ai loro eventuali -diciamo così- mandanti esterni e/o interni. Ci aveva provato, il povero Leone, d’accordo con Fanfani nella Dc, l’altro “cavallo di razza” come li chiamava Carlo Donat-Cattin, e con Bettino Craxi fuori della Dc, predisponendosi a graziare autonomamente, senza che l’ìnteressata glielo chiedesse e il governo lo autorizzasse, una terrorista detenuta -Paola Besuschio- contenuta nell’elenco dei tredici con i quali i terroristi avevano proposto di scambiare l’ostaggio.
Sarebbe poi dovuto toccare ai brigatisti rossi e alla loro direzione strategica decidere, prevedibilmente spaccandosi, se accontentarsi dello scambio uno ad uno o confermare la “sentenza” di morte emessa a carico del loro prigioniero. Ma, informati tempestivamente di quanto accadeva nei palazzi politici, dove purtroppo si disponeva di qualche “consulente” in comune con le brigate rosse, come emerso da più di un’inchiesta parlamentare, i terroristi precedettero di alcune ore Leone uccidendo Moro la mattina del 9 maggio 1978. La notizia interruppe una riunione della direzione democristiana in cui aveva appena cominciato a parlare il presidente del Senato per rimettersi, nella gestione del sequestro, alle valutazioni che stava maturando Leone. Del quale poi i comunisti, e quella parte della Dc che andò loro appresso, non ebbero il coraggio di chiedere la testa per avere osato mettersi di traverso contro la linea della fermezza adottata dal governo.
Meno coraggiosamente, da un punto di vista per me pur discutibile, ma più sordidamente, a dir poco, la testa di Leone fu reclamata e ottenuta con dimissioni volontarie -in una serata nella quale il Quirinale fu colpito da tuoni e pioggia come il Golgota- a suo tempo, quale segno di svolta politica e morale dopo che i partiti avevano salvato a stento, in un referendum, la legge sul loro finanziamento pubblico. E così la colpa di Leone da quella di avere cercato di salvare Moro divenne quella di essere stato chiacchierato nell’affare Loockheed, per la vendita di aerei militari americani all’Italia, e in altre vicende trattate scandalisticamente in un libro di Camilla Cederna. Scandalisticamente, perché l’autrice fu poi condannata definitivamente, quando già Leone era ormai solo un ex presidente della Repubblica e senatore di diritto, e non ancora riabilitato in qualche modo politicamente. Come accadde vent’anni dopo la sua deposizione con riconoscimenti dei comunisti e -ahimè- dei radicali unitisi nel 1978 alla gogna in una oscena distrazione dal loro garantismo.
Ciro Cirillo
La Dc, che si era prestata a coprire lo scempio di Leone per coerenza con la linea della fermezza condotta sino al penultimo momento durante il sequestro Moro, ebbe poi la disinvoltura, nel 1981, di adottare tutt’altro comportamento quando le brigate rosse, sempre loro, rapirono l’assessore regionale campano Ciro Cirillo. Che fu liberato in cambio di denaro e di appalti dei quali sarebbe stata beneficiaria la camorra.
Francesco Cossiga al cimitero di Torrita Tiberina
Le ossa di Moro dovettero rivoltarsi nella tomba, sino a farsi sentire da chi andava di tanto in tanto ad omaggiarle portando le solite corone o cuscini di fiori e pregando davanti alla cappella che le ospita ancora nel cimitero di Torrita Tiberina. Francesco Cossiga era dei più assidui, non avendo mai smesso sino all’ultimo giorno di vita di sentirsi personalmente in colpa per quella morte, con tanto di dimissioni da ministro dell’Interno presentate un minuto dopo la notizia dell’epilogo del sequestro di chi un fondo lo aveva portato così in alto in politica.
Del dramma di Cossiga sono stato più volte testimone anche imbarazzato, avendo goduto della sua amicizia e avendone anche raccolto qualche notizia clamorosa: altro che quelle recentemente ricavate dalle sue carte sui rapporti avuti durante il sequestro Moro con gli americani, originariamente ostili anche loro a qualsiasi cedimento alle brigate rosse ma poi diventati in qualche modo più disponibili a mettere nel conto una liberazione negoziata dell’ostaggio.
Aldo Moro prigioniero dei terroristi
Una volta che cercai di strappargli l’ammissione della scoperta ormai avvenuta del covo romano di via Montalcini in cui Moro aveva trascorso almeno l’ultima parte se non tutta la sua prigionia, Cossiga si ostinò in risposte evasive. Mi confermò solo che un distaccamento di Carabinieri era allertato sulla via Aurelia per un assalto al covo una volta che fosse stato scoperto e si fosse deciso di intervenire a livello di presidente del Consiglio. “Ma -mi avvertì- non sarebbe stata comunque una decisione facile col consenso dei familiari, timorosi che, per quanto bene organizzato, un assalto avrebbe probabilmente comportato l’uccisione di Moro da parte dei terroristi prima della loro cattura o eliminazione”.
Moro ucciso nel bagagliaio di un’auto
I familiari di Moro: con i quali Cossiga ebbe rapporti difficilissimi sin dal primo momento del sequestro. Non valsero a migliorarli -mi confidò- neppure quando egli fece in modo che al controllo delle linee telefoniche disposto dalla magistratura durante il rapimento fosse sottratta una cabina pubblica vicino Ponte Milvio dove risultava alla Polizia che ci fossero stati contatti fra gli aguzzini di Moro e i suoi familiari o collaboratori.