Andreotti se la ride dall’aldilà, Caselli e Davigo un pò meno fra noi

Giulio Andreotti, da 11 anni non più  fra noi, era già mitico in vita per i suoi nervi d’acciaio, pur messi sempre a dura prova da mal di testa da cui dispensava consigli agli amici come difendersi. Sapeva aspettare il suo turno in politica riuscendo a collezionare sette governi, uno soltanto in meno del suo maestro o primo capo, che era stato Alcide Gasperi nominandolo, cioè assumendolo, come suo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Sapeva aspettare e anche ritirarsi in tempo o rinunciare quando la resistenza o l’offensiva, secondo i casi, gli sembrava troppo difficile,

Egli non volle mai candidarsi alla segreteria del suo partito preferendo piuttosto incarichi parlamentari. come quello di capogruppo alla Camera. Dove anticipò col suo omologo del Pci Pietro Ingrao, trattando di regolamenti e affini, i rapporti di collaborazione più politica che poi ebbe con Berlinguer da presidente del Consiglio facendosi sostenere dall’esterno a Palazzo Chigi.

Gian Carlo Caselli

         Anche quando clamorosamente, mentre altri del suo partito incorrevano nei guai giudiziari e mediatici per tangenti e affini, vere o presunte, egli fini sotto incbiesta addirittura per mafia, accusato addirittura persino di averne  baciato un  capo o essersi lasciato baciare, l’ormai soltanto senatore a vita ed ex presidente del Consiglio nell’aula di Palazzo Madama alzò la mano votando a favore del processo contro se stesso. Per il quale lavorava con molto piemontese ostinazione l’allora capo della Procura di Palermo Gian Carlo Caselli. Che, quando l’imputato fu assolto, contestò la felicità del suo avvocato Giulia Bongiorno esplosa in aula sostenendo che non di assoluzione si trattasse ma solo di una finzione, avendo Andreotti usufruito della prescrizione per i suoi rapporti con la mafia negli anni in cui essi erano contestabili solo per associazione a delinquere

Dalla prima pagina del Foglio

         Ebbene, Caselli -chissà con quanta sorniona soddisfazione di Andreotti dall’aldilà- ha perduto il suo presunto jolly contro il defunto imputato con una sentenza della Corte Costituzionale –“La vittoria dell’ovvio garantista”, l’ha definita sul Foglio Giuliano Ferrara- che vieta di scambiare per condanna una prescrizione, anche quando qualche giudice dà il reato per commesso.

Pier Camillo Davigo

         Pur riguardante un altro caso, sollevato a Lecce, la sentenza dei giudici costituzionali disarma Caselli come una condanna in appello a Brescia ha appena disarmato il magistrato in pensione pure lui Pier Camillo Davigo di quella corazza robesperriana assunta in tutta la sua carriera sostenendo che non esiste mai un innocente davvero, dovendosi trattare solo di un colpevole riuscito a farla franca. Chissà se la Cassazione, ,memore della sua partecipazione,  gli consentirà di rientrare in una  categoria da lui tanto detestata.

         A quale Pasqua straordinaria ci stiamo avvicinando. Ci sono morti, politici o giudiziari, da Giorgia Meloni dopo la vitttoria o la mancata sconfitta in Abruzzo alla buonanima di Andreotti, che risorgono prima della fine della Quaresima.

La politica fra le guerre vere e quelle immaginarie senza fine

Dal Dubbio

Più che un analista, o addirittura soltanto un cronista, qui occorre dappertutto, in Italia e fuori, al di qua e al di là dell’Atlantico, al di qua e al di là degli Urali, non so se più un romanziere fantascientifico o un commediografo e simili come Eduardo De Filippo o Luigi Pirandello per raccontare e interpretare. quel che ci accade intorno. Fra guerre a pezzi, come le chiama il Papa, che si combattono davvero o per finta, col fuoco o con le parole.

         Davvero spontanea com’era apparsa, o solo equivocata per essere stata  lanciata fra i piedi dell’intervistato dall’intervistatore, è aleggiata per un po’ sull’Europa, ma non solo, una bandiera bianca della pace, della resa, del negoziato, secondo le preferenze, fatta dello stesso tessuto, se non dello stesso abito del Papa per far cessare la guerra in corso da più di due anni in Ucraina. Una guerra che sembrava cominciata con un Pontefice più solidale con gli aggrediti che con gli aggressori in armi benedetti a Mosca da un Patriarica convinto anche lui che l’Ucraina dovesse essere se non “denazificata”, come diceva Putin, almeno bonificata dai costumi troppo licenziosi dell’Occidente che vi si era intrufolato.

Papa Francesco

         Neanche se fatta dello stesso abito del Papa, quella bandiera è stata raccolta in Ucraina, dove si vogliono  tenere ben stretta la loro bicolore.  E avvolgervisi nella resistenza o nella controffensiva che Zelensky progetta o immagina contando evidentemente più sull’Europa della uscente Ursula von der Layen che sugli Stati Uniti di un rientrante -forse- Donald Trump, a dir poco isolazionista. Uno che vorrebbe liberarsi della Nato o affidarne i paesi morosi alla punizione russa. Starà girando la testa anche al generale Vannacci del mondo al contrario, già preso dai suoi guai disciplinari e dalle rocambolesche prospettive politiche offertegli quanto meno dalla Lega.

         Rispetto ai venti che soffiano su e dall’Ucraina, sono bazzecole quelli che ha sorpreso in Abruzzo, almeno nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, una riedizione della coppia di Adamo ed Eva, nei panni di Giuseppe Conte e di Elly Schlein, in fuga dall’Eden immaginato con la vittoria, invece mancata, del loro candidato alla presidenza della Regione. Ha vinto, anzi rivinto, invece il governatore uscente di centrodestra che era stato degradato in campagna elettorale dagli avversari a un oriundo abruzzese emirato a Roma e governatore da remoto della sua terra d’origine.

         Da donna impaurita, sabotata dai suoi alleati e in procinto addirittura di cadere fra qualche mese sulla strada di elezioni anticipate, Giorgia Meloni è tornata fortissima. O forte abbastanza per rimanere dov’è.  E pazienza per chi nel centrodestra pensava di poterla mettere in sofferenza ancor più degli avversari di sinistra e dintorni,

         Per gli irriducibili ottimisti del campo largo, o giusto, non tutto sembra però perduto. Distraendosi dai problemi di dossieraggio e dintorni che li angustiano, i colleghi di Domani -non mercoledì 13 marzo ma il quotidiano fondato da Carlo De Benedetti per consolarsi della perduta Repubblica, non cutodita a dovere dai figli- hanno esortato a riprendere l’Abruzzo per quello che è, e non per quello immaginato: una regione modesta, poco rilevante nella partita elettorale che continua con le regionali e le europee di quest’anno e le regionali e d’altro livello amministrativo dell’anno prossimo.

         La guerra insomma continua. Non come a Gaza, per fortuna, e neppure come in Ucraina, ma abbastanza per far capire che l’Italia c’è. E ha le sue cose, i suoi affari, le sue sorprese da riservare a chi se ne vuole occupare. Un’Italia peraltro presidente di turno del G7, con tutto quello che aveva in testa e ancor più ne avrà la Meloni dopo essere scampata alle trappole abruzzesi. Buon lavoro a tutti.

Pubblicato sul Dubbio

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