Quello della politica estera è stato, almeno fino all’altro ieri, il terreno più fortunato o meglio riuscito di Gorgia Meloni alla guida del suo primo governo. Eppure era il più difficile anche per la campagna orchestrata contro di lei prima e dopo la prevista, anzi scontata vittoria elettorale nel 2022. Campagna riempita peraltro di significati o cattivi auspici per la coincidenza col centenario della marcia fascista su Roma. Che si svolse fra l’indifferenza, la paura o persino la complicità di una Monarchia che poi l’avrebbe pagata carissima. Questa volta al Quirinale c’era e c’è un presidente della Repubblica che avrebbe potuto impressionarsi davanti alla campagna di stampa, e culturale, orchestrata contro la Meloni, ma non ha esitato un istante a tradurre il risultato elettorale come poteva e doveva. E ha anche supportato poi ila premier in qualche passaggio difficile, smentendo retroscena e simili di segno opposto.
Tra le rovine di Gaza
Temo più per tattica che strategia, più per la soddisfazione, sotto sotto, di vedere primeggiare all’opposizione la collega di genere Elly Schlein, con la quale non a caso sta preparando un duello televisivo in diretta, che Giuseppe Conte, di fatto il più irriguardoso possibile nei suoi riguardi ogni volta che ne ha l’occasione verbale e persino fisica, con certi atteggiamenti leninisti nell’aula di Montecitorio, dove finalmente ha un seggio di elezione e non d’ufficio, come quando era presidente del Consiglio ma non parlamentare; temo, dicevo, che più per tattica che per strategia, la Meloni abbia forse scoperto un po’ troppo il fianco, almeno per i miei gusti, sul fronte mediorientale. Dove ha preteso la richiesta del rilascio degli ostaggi di Hamas per far passare con l’astensione della maggioranza il documento del Pd per la rinuncia di Israele al fuoco contro Gaza, ma ha finito per far pendere la blilancia dell’impressione, più che dell’opinione pubblica, maggiormente contro Israele per la potenza di foco e di morte impiegata nella rappresaglia contro il pogrom del 7 ottobre,.Come se i terroristi di Hamas, nonostante la decimazione della popolazione che ritengono di difendere e rappresentare, non avessero rinunciato in questi mesi d guerra, che pure dovevano avere messo nel conto della loro aggressione, a usare quella povera gente, le loro case, le loro scuole, i loro ospedali, i loro campi profughi, le loro chiese e persino certi uffici delle Nazioni Unite come scudi, per proteggere nei sotterranei i loro arsenali militari.
Le esigenze tattiche alle quali credo abbia ceduto Meloni con la votazione sul documento parlamentare del Pd a Montecitorio non hanno incrinato il suo fronte parlamentare. Ma ha letteralmente spaccato il suo fronte mediatico, diciamo così. Che si è diviso fra Il Giornale di Alessandro Sallusti, che ha coperto la premier sino a scrivere che nulla è cambiato rispetto a prima, e il quotidiano Libero, dello stesso editore, che ha dissentito con un editoriale scritto personalmente, con la solita franchezza dal direttore Mario Sechi. Che pure è stato per qualche mese capo dell’ufficio stampa della premier, come ancora gli rimproverano nei salotti televisivi dei quali è ospite. Un Sechi pungente e filoisraeliano quanto Giuliano Ferrara sul Foglio, del quale non a caso è stato a suo tempo un collaboratore.
Nella doppia veste ormai di biografo, o quasi, di Giorgia Meloni e di direttore del Giornale, che fu di Indro Montanelli e poi della famiglia Berlusconi, alla quale si è sovrvapposta la famiglia Angelucci, il buon Alessandro Sallusti ha finto di chiedersi “cos’è cambiato su Gaza”. Naturalmente dopo o a causa dell’astensione con la quale alla Camera la maggioranza di governo ha lasciato passare un documento del Pd proposto direttamente alla Meloni dalla segretaria Elly Schlein, e modificato nella trattativa, perché Israele la smetta di sparare su Gaza e Hamas di trattenere gli ostaggi catturati nel pogrom del 7 ottobre. E si è ottimisticamente risposto: niente. Egli è convinto che “il governo non si sia spostato neppure di un millimetro rispetto alla posizione iniziale”. Che era e rimane il contrasto al “ muovo genocidio” del 7 ottobre e alla natura “terroristica” di un’orgnanizzazzìone come Hamas, da “neutralizzare”.
Mario Sechi, che pure della Meloni è stato il capo dell’ufficio stampa a Palazzo Chigi prima di tornare alla direzione di un altro giornale collezionato nella sua carriera, Libero, ha invece preferito smentire chi ancora gli rimprovera nei salotti televisivi e nelle redazioni il passaggio per Palazzo Chigi. Ed ha titolato ieri il suo editoriale con la solita franchezza: “C’è un errore su Gaza: Il cessate il fuoco”, quando ancora Hamas tira razzi cotnro Israele e continua a usare la popolazione civile e ciò che rimane strutturalmemte di Gaza come scudo dei suoi arsenali di guerra.
Dal Foglio
Già uscito ieri anche lui contro il pasticcio di quella votazione alla Camera con i 159 astenuti del centrodestra che hanno consentito ai 128 della Schlein e compagni di fare approvare la loro posizione, Giuliano Ferrara è tornato oggi a gridare sul Foglio la sua comprensibile e giusta protesta. Egli ha reclamato la rinuncia al fuoco da parte di Hamas e commentato: “Sanremo propoone e Roma dispone, quindi va bene l’accordo fra Schlein e Meloni. Ma è curioso che nel paese delle canzonette nessuno in Parlamento chieda mai tregue umanitarie ai palestinesi”.
Il cardinale Parolin
Quello realizzatosi alla Camera fra votazioni e dichiarazioni precedenti e successive, comprese quelle del ministro degli Esteri Antonio Tajani sempre più ripreso da fotografi e teleoperatori in pose mobili da nomemclatura, con passo lento e peso in aumento, non è riuscito neppure a sorprendere e indignare più di tanto Israele. Che ha preferito prendersela, dandole giustamente più peso, con la posizione espressa contro le pesunte esagerazioni degli aggrediti del 7 ottobre dal Segretario di Stato vaticano, il cardinale Parolin.
Dal Fatto Quotidiano
Se volete una mia modestissima opinione, penso che Giorgia Meloni farebbe bene in questi giorni di distrazioni tattiche, diciamo così, sul terreno sempre insidioso della politica estera, a interessarsi di pù della corte che ha ripreso a farle su giornali e altro l’ex convivente e padre della loro Ginevra: il più contenuto, adesso, giornalista televisivo Andrea Giambruno.
Un’ulteriore conferma di quanto sia duro a morire l’anticraxismo 24 anni dopo la morte del leader socialista -rifugiatosi in Tunisia per proteggere la sua libertà, equivalente per lui alla vita, dal carcere al quale l’avevano destinato in Italia gli avversari come capro espiatorio del finanziamento illegale di cui avevano a lungo vissuto tutti i partiti, di governo e di opposizione- si è avuta col trattamento riservato dai giornali alla morte di Ugo Intini. Che di Craxi fu il più stretto collaboratore, fra i dirigenti socialisti, nella restituzione del Psi all’autonomia dal Pci dopo che il segretario Francesco De Martino aveva rotto con la Dc- quella non di un esponente di destra ma di Benigno Zaccagnini alla segreteria e di Aldo Moro alla presidenza del Consigilio e del partito- dichiarando che mai più l’avrebbe riportato al governo senza la partecipazione o l’appoggio dei comunisti. Eramo seguite le elezioni politiche anticipate del 1976 col Psi ridotto al minimo storico.
Dalla prima pagina del Secolo XIX
Per leggere di Intini e della sua lunga attività politica i lettori hanno dovuto sfogliare i giornali sino alle pagine più interne. Uno spazio in prima è stato -non so se più eroicamente o ereticamente- trovato solo dal Foglio di Giuliano Ferrara, dall’Unità rianimata da Piero Sansonetti e, con modesti richiami, dal Giornale, che ha ospitato Luca Josi, altro fedelissimo di Craxi, e dal genovese Secolo XIX per ragioni, diciamo così, rigorosamente locali, essendo Ugo rimasto “integro e amico della Liguria”. Che lo elesse tante volte al Parlamento
Dalla prima pagina del Foglio
Giuliano Ferrara sul Foglio ha ricordato di Intini “la testa di turco di ogni polemica” che fu “quando non era consigliabile prendersela direttamente con Craxi” e il suo modo “gentile, sorridente, acuminato nello scrivere polemico”, considerandosi “al servizio del socialismo autonomista, dunque di Bettino Craxi, disciplinato e zelante ma senza essere mai un servo”. “Non ne aveva bisogno, non ne aveva voglia, gli piaceva la politica, coltivava la partigianeria, con una punta di genuina faziosità unita a una leggendaria timidezza”, ha aggiunto il fondatore del Foglio sotto il solito e sobrio titolo chi muore: “Ugo Intini (1941-2024).
Dalla prima pagina dell’Unità
Sulla prima pagina dell’Unità Piero Sansonetti ha lasciato ricordare Intini, sotto il titolo della “coerenza di un socialista di ferro” da Enzo Maraio, il segretario del Psi bonsay che è rimasto nell’anagrafe politica italiana. Ma Sansonetti ha voluto aggiugere di suo, all’interno del giornale, una toccante e vigorosa testimoianxa sotto il titolo.” Caro compagno, caro nemico”.
Piero Sansonetti sull’Unità
“Posso garantirvi, ora che è morto. Intini -ha scritto Piero- era un compagno. Ed era una persona serissima. Uno di quelli che amava la politica perché la politica era politica, non perché era potere. Una delle persone che immaginava che per combattere le battaglie politiche bisognasse pensare, studiare, giudicare e scegliere. Sapeva scegliere. Secondo me molte volte sbagliava. Poi, chissà: magari sbagliavo io”.
Ugo Intini, morto a 82 anni nella sua Milano, dove tutto era cominciato politicamente per lui nella redazione locale dell’Avanti!, lo storico giornale socialista di cui sarebbe diventato poi direttore e infine biografo – autore della storia di quella testata più completa e in molti tratti commovente fra le tante, intrecciata con quella più generale dell’Italia- è stato per me più di un amico. Quasi un fratello. Abbiano condiviso simpatie e antipatie, politiche e umane. Pensare di non poterlo più incontrare né sentire, avendo avuto a Roma la fortuna anche di abitare vicino, mi sembra un’assurdità. Una cattiveria, addirittura, perché -vi giuro- avrei preferito precederlo nel ritorno al padre, come si dice quando si muore.
Indro Motanelli
Ci conoscemmo quando, lasciato il Giornale ancora diretto da Indro Montanelli, dove avevo lavorato dalla fondazione facendo, fra l’altro, il capo della redazione romana, il notista politico e infine l’editorialista, lui mi telefonò per passarmi Bettino Craxi. In difesa del quale avevo rotto con quel mostro sacro del giornalismo che era appunto Montanelli. Il quale -vi assicuro- a Craxi non poteva certo perdonare rapporti di debolezza col partito comunista, come aveva praticamente fatto col direttore del Corriere della Sera Piero Ottone lasciandolo e decidendo di fargli poi concorrenza con un altro quotidiano, non potendogli bastare l’ospitalità offertagli sulla Stampa da Gianni Agnelli in persona.
No. A Craxi il direttore del Giornale non perdonava “Il carattere”, diceva. Che era semplicemente il rifiuto di andarlo a riverire di tanto in tanto, come facevano altri politici, a cominciare da Giovanni Spadolini. Che d’altronde da ex direttore del Corriere, prima di Ottone, doveva all’amico Indro anche la sua elezione al Parlamento nelle liste del Partito Repubblicano di Ugo La Malfa. A presentarne la candidatura a Milano era stato proprio Montanelli.
Lasciatemi dire con tutta franchezza, e un po’ anche con immodestia, che Montanelli era non so se più sospettoso o geloso del rapporto personale di stima e poi anche di amicizia che Bettino aveva, fra quelli del Giornale, con Enzo Bettiza e con me. Col quale una volta, arrivato a Roma da Milano, Indro si lamentò duramente che Craxi lo avesse salutato all’aeroporto lamentandosi non ricordo più esattamente di che cosa fosse appena uscito sul Giornale, E mandò a dirgli, tramite me appunto, di stare attento con la sua “spavalderia”.
Craxi e Intini a un congresso socialista
Eppure Craxi, passatomi al telefono da Intini dopo la rottura intervenuta per un mio commento non pubblicato a favore del leader socialista accusato congiuntamente dalla sinistra democristiana e dal Pci di volersi appropriare dell’Eni in un giro di nomine in corso al suo vertice; Craxi, dicevo, bruscamente mi rimproverò di essere stato intempestivo perché su quelle posizioni, e in quel momento, prima delle elezioni politiche del 1983, non avrei trovato un posto dove lavorare. E quando gli comunicai, dopo qualche settimana, che un posto l’avevamo già trovato nel gruppo editoriale di Attilio Monti sia io che Bettiza, che aveva solidarizzato con me lasciando pure lui il Gornale, disse laconicamente: “Monti è vecchio e non so cosa ne sarà dopo dei suoi giornali”. Non proprio un augurio di buon lavoro, mi sembrò.
Con Intini, dopo quella telefonata, cominciò un’intensa frequentazione personale. Che, scoppiata Tangentopoli, diventò anche rischiosa. Usciti una volta da Euclide, un bar con tavola calda vicino alle nostre abitazioni romane, ci vedemmo quasi investiti da una moto con due giovanotti che ci gridarono. “ladri”.
Antonio Di Pietro ai tempi di “Mani pulite”
Per darvi l’idea di che tragedia politica, e non solo umana, fosse stata Tangentopoli, come sommariamente si chiamano ancora sia la città delle tangenti, nominalmente, sia l’indagine “Mani pulite” aperte a Milano contro il finanziamento illegale dei partiti e i presunti ma congiunti reati di corruzione, concussione e simili, vi racconterò una telefonata ricevuta da Intini una sera alla direzione del Giorno, a maggio del 1992.Ugo mi chiese con molto garbo come avessi deciso di uscire con le notizie diffuse dalle agenzie sulle indiscrezioni parlamentari che volevano Craxi già coinvolto nelle indagini. Gli risposi che sarei uscito con un titolo a metà della prima pagina sulla smentita ufficiale della Procura di Milano. Che peraltro mi era stata anticipata personalmente da Antonio Di Pietro in un incontro occasionale avuto nel pomeriggio in Piazza della Scala, Nel quale il pm aveva tenuto a precisare che nessun elemento contro Craxi era contenuto nelle carte inviate dai suoi uffici alla Camera per procedere nelle indagini contro Paolo Pillitteri, il cognato, e il predecessore a sindaco di Milano Carlo Tognoli.
Intini allora mi chiese se mi avesse procurato troppo imbarazzo una telefonata dal direttore dellì’Avant! Roberto Villetti, che aveva deciso di trattare divesamente il caso. Villetti non so quanto volentieri mi chiamò , ma per chiedermi a sua volta perché mai volessi espormi così tanto a favore del segretario del suo partito. Non gli risposi. Mi limitai a interrompere la comunicazione, come l’interessato dopo qualche tempo, eletto deputato con l’aiuto dei comunisti, mi rimproverò nei corridoi della Camera.
Credo che Intini nel Pci di Enrico Berlinguer negli anni Ottanta fosse stato l’uomo più odiato dopo Craxi, che aveva osato sottrarre il Psi alla sostanziale subordinazione voluta dal predecessore Francesco De Martino annunciando nel 1976 che i socialisti non sarebbero più tornati a governare con la Dc senza la partecipazione o l’appoggio dei comunisti. Non solo Craxi riportò il Psi al governo con lo scudo crociato senza i comunisti ma rivendicò e alla fine ottenne Palazzo Chigi. “una cosa- disse poi con franchezza De Martino al plurale, cioè alludendo a Pietro Nenni- alla quale noi non avevamo mai neppure pensato”.
La tomba di Bettino Craxi ad Hammamet
Eppure Intini, proprio lui, Ugo, nel 2006, sei anni dopo la morte di Craxi ad Hammamet, senza avere mai rinnegato nulla di ciò che aveva scritto e detto, si sarebbe sentito offrire dal titolare della Farnesina Massimo D’Alema l’incarico di vice ministro degli Esteri nel secondo governo di Romano Prodi, E Bobo Craxi, il figlio di Bettino, la carica di sottosegretario con la delega della rappresentanza presso le Nazioni Unite. Parlo, ripeto, di D’Alema: lo stesso che era stato presidente del Consiglio all’epoca della morte di Craxi prodigandosi inutilmente perché la Procura di Milano garantisse il rimpatrio del leader socialista dalla Tunisia per ragioni di salute, mancandogli ormai pochi mesi di vita dopo un intervento non risolutivo per un tumore renale. In ospedale col piantone davanti alla porta della stanza, risposero a Milano, E Craxi preferì morire ad Hammamet, sepolto sotto una lapide in cui è scritto su sua disposizione “La mia libertà equivale alla mia vita”.
Massimo D’Alema
Naturalmente i rapporti fra D’Alema e Intini, e Bobo Craxi, non nacquero all’improvviso, Segni di avvicinamenti, contatti e simili erano emersi già prima della morte di Bettino. Che reagì inizialmente molto male, anche parlandomi personalmente contro Intini. Del quale era appena uscito uno dei tanti libri scritti dopo la vicenda di Tangentopoli: “troppo lungo”, mi disse a tavola cenando con la moglie, la segretaria Serenella e altri ospiti. Io gli dissi di essere troppo ingeneroso e gli feci presente che avrebbe dovuto diffidare non di Intini ma di chi gli ostentava rumososamente amicizia ma gliene aveva fatte di tutti i colori negli anni del governo e della maggioranza. E gli feci alcuni nomi abbastanza altolocati, che non ripeto perché si tratta di morti che non sono quindi in grado di difendersi. Bettino per stizza lasciò la tavola prima che la cena finisse, ingoiando in fretta le pastiglie passategli dalla moglie e andandosene a letto.
Il giorno dopo c’incontrammo di prima mattina nel cortile di casa per il saluto prima della mia partenza. Bettino era ancora in pigiama. E, mettendosi la testa fra le mani seduto ad una panca, pianse dicendomi: “Salutami tutti quelli che ritieni siamo i miei amici”. Pianse anche Ugo quando glielo raccontai.
Poche righe -comunque il meno possibile- per riferirvi dello stato in cui si trova l’informazione in Italia, almeno quella stampata su giornali che non a caso vendono ormai così poco che le edicole chiudono. Anzi, sono abbandonate dai titolari che non hanno neppure i soldi per rimuoverle. O, se rimangono aperte, chiedono sussidi al governo di turno, compreso quello in carica che sembra orientato a soddisfarle in qualche modo. Magari, solo per finanziarne la demolizione.
L’apertura di Repubblicaieri
Non più tardi di ieri il secondo o terzo giornale italiano per cosiddetta diffusione -primo per presunzione di fornire notizie esclusive e di qualità- titolava su tutta la prima pagina che l’Italia fosse “sotto esame” dell’Ue con un nugolo di ispettori inviati dappertutto, anche nel Ministero della Giustizia e dintorni. Sto scrivendo naturalmente della Repubblica, diretta da Maurizio Molinari e posseduta per ora soprattutto dal nipote più noto del notissimo ma compianto Gianni Agnelli, “l’avvocato” che contava ai suoi tempi più del presidente di turno del Consiglio e forse persino del presidente della Repubblica: quella vera, non di carta.
La prima pagina di Repubblica oggi
L’Unione Europea ha smentito. Ma di questa smentita sulla prima pagina della Repubblica di oggi non si trova un titolo, un titoletto, un rigo. Niente. L’attenzione si è spostata altrove. Sulla “marcia della destra” comtro la Rai per conquistarne tutti i piani e gli scantinati, reali o metaforici che siano. A cominciare naturalmente dal “cavallo morente” che presidia la sede nazionale, a Roma, con preveggenza dello scultore che aveva immaginato il destino dell’azienda.
Dal Giornale
Diversamente da Repubblica, la smentita europea è stata raccolta in prima pagina, con notevole evidenza, dal Giornale che fu di Indro Montanelli, poi della famiglia Berlusconi e ora soprattutto della famiglia Angelucci
Da Libero
Meno evidente ma ben visibile è stata la smentita data anche da Libero, altro giornale della famiglia Angelucci. Silenzio invece, salvo sviste personali, sul Tempo di Roma,della stessa catena editoriale.
E tutti gli altri giornali, a cominciare dal maggiore, che è il Corriere della Sera.? Zero titoli o righe in prina pagina anche loro, non so se più per rispetto dell’autoblasonata Repubblica o per parare il buco- come lo chiamiamo noi giornalisti- che pensavano di avere preso pur ingiustamente il giorno prima. Povera stampa, povera informazione, povero mestiere per chi lo pratica da quando aveva ancora i calzoni corti.
La partecipazione alla vertenza dei trattori, diciamo così, dei coltivatori diretti -fondati nel 1944 da Paolo Bonomi come associazione sostanzialmente fiancheggiatrice della Dc nata due anni prima, e ora guidati in un secondo mandato di presidente da Ettore Prandini, figlio del compianto ec ministro democristiano Gianni Prandini- ha contribuito ad accreditare ulteriormente l’impressione che ormai quella che fu l’area elettorale scudocrociata si sa attestata a dsstra. Con ciò che rimane della vecchia generazione e con le nuove.
Ettore Prandini
Il giovane Ettore Prandini, 51 anni e mezzo, è spesso associato nelle cronache politiche direttamente a Giorgia Meloni. Che non gli ha lesinato in pubblico occasioni di simpatia e condivisione, come prima avevano fatto esponenti della Lega. Della Meloni e del suo partito egli è stato indicato, fra l’altro, come un possibile candidato al Parlamento europeo. Ancor prima è stato avvertito come sponsor del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, ancor più della cognata premier. Tutte cose che il presidente dei coltivatori diretti liquida dicendo che si sente e si vede “candidato a tutto” ma la sua scelta è stata sempre quella di fare quello che sta facendo. E che gli piace molto.
Gianni Prandini
La partecipazione alle cronache politiche anche come erede del padre -che fu, ricordiamolo, un grande ministro elogiato a sinistra dal pur esigentissimo Giorgio Bocca per avere saputo restituire la normalità al porto di Genova dominato dai “camalli” come se ne fossero i padroni- ha già procurato a Ettore Prandini qualche cattiveria, oltre che inesattezza, di troppo sul piano familiare.
Guido Bodrato
Esauritesi ormai le vicende giudiziarie del padre ancora in vita con l’assoluzione piena nei processi della cosiddetta Tangentopoli subiti come ex ministro dei rischiosissimi lavori pubblici, Ettore ha visto il padre associato domenica sul Corriere della Sera da Roberto Gressi alla “banda dei quattro” lamentata negli anni Ottanta da Guido Bodrato, in compagnia col colllega di partito Crino Pomicino, con il liberale Francesco De Lorenzo e col socialista Carnelo Conte.
Benigno Zaccagnini
In verità, alquano informato -credo- di quella che fu la storia complessa della Dc, io di bande dei quattro ne ricordo una sola, risalente al 1976, quando attorno a un governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti, replicato nel 1978, fu assicurata una maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale” comprensiva anche del Pci di Enrico Berlinguer. I quattro erano lo stesso Bodrato Corrado Belci, Umberto Cavina e Giuseppe Pisanu, stretti collaboratori del segretario del partito Benigno Zaccagnini. E quella fu chiamata “banda” per paragonarla in qualche modo ad un’altra appena sgominata in Cina perché composta da comunisti troppo radicali nella esecuzione della rivoluzione “culturale” voluta da Mao.
Anche nella gestione della già citata “solidarietà nazionale”, nell’ambito della quale il rapporto col Pci prevaleva su tutti gli altri, ci fu tra il malumore dello stesso presidente del partito Aldo Moro, destinato a pagare con la vita la sua politica delle aperture, un certo radicalismo. Che voleva quel passaggio politico il più lungo e/o compromettente possibile un po’ sopravvalutando le capacità di evoluzione del Pci, alla fine ritiratosi spontaneamente dalla maggioranza quando maturò il problema del riarmo missilistico della Nato, e un po’ apprezzando i vantaggi di potere derivanti da un governo monocolore, cioè interamente democristiano. Cui sarebero seguiti, col ripristino della normalità, cioè col ritorno del Psi all’autonomia dal Pci e all’alleanxa con la Dc., governi di meno comode coalizioni.
Prandini padre era tra quelli contrari alla “banda dei quattro“ democristiani radicali della solidarietà nazionale e favorevole, soprattutto con l’amico Arnaldo Forlani e Carlo Donat-Cattin, al più rapido ritorno ai governi di coalizione con i tradizionali alleati dello scudo crociato: dal Pli al Psi, in varie edizioni del cosiddetto pentapartito, sintesi delle esperienze di centro e di centrosinistra dei decenni precedenti. Chissà quante volte Ettore Prandini, ancora adolescente, avrà sentito parlare e parlato di queste cose a casa sua col papà e i suoi ospiti.
Uno legge sui giornali, con l’evidenza dello scoppio di una guerra, che l’Italia è “sotto esame” dell’Unione Europea, con tanto di ispettori in arrivo, o già alloggiati in qualche albergo, o caserma per ragioni di sicurezza, e pensa che, magari, a Bruxelles la signora Ursula von der Leyen voglia capire bene se, dove, e chi abbia sbagliato a maneggiare così male l’agricoltura da avere provocato la rivolta dei trattori e persino delle mucche. Con le quali ha solidarizzato anche un ex magistrato e politico abbastanza famoso come Antonio Di Pietro, tornato spontaneamente ai campi dove aveva visto lavorare il padre per mantenerlo agli studi e fargli fare la carriera che ha fatto, anche di becchino dei partiti di un’intera Repubblica, la prima, sgominata tra un’infinità di avvisi di garanzia, arresti cautelari suicidi e, in proporzione, poche condanne.
Antonio Di Pietro
E tutto questo per consegnare la seconda Repubblica non a chissà quale magistrato disposto a governarla se chiamato, come si lasciò scappare il capo di una Procura, ma ad un Al Capone in versione italiana, come finì per essere rappresntato nelle cronache giudiziarie l’ormai buonanima di Silvio Berlusconi. Le cui ceneri riposano finalmente in pace, si spera, nel mausoleo di casa vigilate dalla quasi vedova Marta Fascina.
Ma che trattori, mucche, latte e contorni. Uno continua a leggere i giornali e scopre che gli ispettori europei hanno solo l’incarico di occuparsi di alcune leggi all’esame delle Camere: abuso d’ufficio, premierato, liniti all’informazione, specie quella giudiziaria, e simili. Beh, insomma, abbiamo poco di cui preoccuparci, anche perché ormai il Parlamento europeo è in scadenza. E con esso anche gli organismi che mandano in giro gli ispettori.
E poi, diciamola tutta la verità non sgradevole sul nostro Paese. Esso se la passa molto meglio delle apparenze e di quanto non vogliano far cedere le opposizioni. Più che dalle guerre, che pure non mancano attorno a noi, dall’Ucraina a Gaza, e ai mari dove le navi militari italiane sono state mandate a controllare e garantire i traffici, sembriamo presi dal destino, cioè delle prossime ben compensate prestazioni, di Amadeus e Fiorello dopo il successo anche dalla loro quinta edizione del festival della canzone a Sanremo.
Joe Biden
Vi sono elezioni alle porte di vario livello -comunale, regionale e nazionale per il rinnovo della rappresentanza italiana al Parlamento europeo- ma nessuna ci minaccia come quelle di novembre gli americani. Che sono alle prese con camdidati alla Casa Bianca dal passo e dalla memeoria incerta. Uno dei quali, già una volta presidente degli Stati Uniti ma smanioso di tornare ad esserlo, pensa di usare Putin, le sue truppe e i suoi missili per punire i paesi della Nato in ritardo con i pagamenti all’alleanza atlantica. A tanto in Italia non è arrivato neppure Giuseppe Conte nell’opposizione alla Meloni e nella concorrenza alla segretaria del Pd Elly Schlein.
Amadeus, 61 anni ben portati, ha chiuso festosamente le sue edizioni del festival della canzone a San Remo incoronando la vincitrice che quest’anno è stata Angelina Mangio. E Giorgia Meloni, 47 anni compiuti il mese scorso, continuerà a portarsi, allegramente anche lei pur fra qualche broncio, quella che è considerata da molti la croce del governo. Lo farà dividendosi fra cerimonie celebrative, come quelli di ieri pe il dramma a lungo sottovalutato delle foibe, incontri con parti che hanno sempre qualcosa da chiedere, o di cui lamentarsi, vertici internazionali e, ora, anche la preparazione di un duello televisivo con la segretaria del Pd Elly Schlein. Che dalle colonne del Corriere della Sera le ha anticipata una sfida per la pace a Gaza. Che putroppo dipenderà pure, ma assai poco dal governo italiano, e tanto memo dalle opposizioni peraltro divise anche su questo, dopo avere accarezzato unite solo il sogno di vedere metaforicamente la Meloni, e magari anche il cognato ministro dell’Agricoltura, travolti dea trattori e dalle mucche in agitazione.
Titolo di Repubblica
Quella del governo italiano, e non solo di questo in carica, sarà pure una croce, ripeto, ma stavolta senza le solite o frequenti strumentalizzazioni delle difficoltà congiunturali. elencate a livello istituzionale e/o neutro. Questa volta non da Sanremo, dove sembrava essersi trasferita la capitale sociale, culturale eccetera d’Italia, ma da Genovadistante solo 146 chliometri si è levata una voce positiva, di incoraggiamento più che di monito, per il governo. Non quella di un cantante fuori dal coro, controcorrente, allontanato dall’Ariston e dintorni,, e neppure da un quasi omonimo ex campione italiano di tennis, ormai archiviatto dal giovane Sinner, ma dal nuovo governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta. Sulla cui fiducia ha dovuto titolare, chissà quanto a malincuore, conoscendone i pessimi rapporti chiamiamoli così, col governo della premier di destra, persino la Repubblica di carta stampando che “Panetta crede nella ripresa”. In particolare, nella crescita dei salari e, con questi, dell’economia nazionale, ora che si è esaurita la fase degli aumenti del costo del denaro ed è tornato a scendere o a contenersi il costo della vita.
Dal Fatto Quotidiano
Saranno pure “solo lacrime e sangue” quelle che ci riserverà “già dal 2025” il nuovo patto di stabilità europeo evocato dal solito Fatto Quotdiano nell’altrettanto solita sintonia con l’ex premier grillino Giuseppe Conte, secondo solo a Cavour nella graduatoria dei presidenti del Consiglio coltivata da Marco Travaglio. Sarà pure “Cassa continua”, cha titolato da copertina L’Idenità di Tommaso Cerno prendendosela nel sommario con ”i tassi alti extraprofitti, prestiti negati, banche che fanno miliardi e gli italiani sempre più poveri”, ma per una volta fateci comsolare con le ben diverse considerazioni del governatore in carica della Banca d’Italia, nominato con tutte le procedure di legge, non sorteggiato fra comici alla Beppe Grillo.
Notoriamente schierata contro Giorgia Meloni e il suo governo, da cui si sente minacciata più di quanto la premier si senta perseguitata dai suoi attacchi continui, la Repubblica di carta avrebbe dovuto aprire oggi con la notizia che ha invece sistemato a metà della prima pagina, non molto visibile, presa da un sondaggio appena effettuato da Demos e riferito da Ilvio Diamanti. “Cala la fiducia nella premier”, annuncia il quotidiano che ricorda ancora sotto la testata il suo fondatore Eugenio Scalfari, come l’Unità Antonio Gramsci.
Da Repubblica
“La fiducia verso il governo ha toccato il livello più basso dal secondo governo Conte”, aggiunge e conclude la sintesi dello stesso Diamanti precisando tuttavia che “viviamo in tempi incerti” e “l’incertezza coinvolge tutti gli ambienti politici e sociali”, come appunto negli ultimi giorni del secondo governo Conte. Tanto da indurre nel 2021 il capo dello Stato a mandare a Palazzo Chigi Mario Draghi quasi come un commissario con l’appoggio, convinto o finto, di una larga maggioranza parlamentare della quale non faceva parte soltanto il partito della Meloni. Che non a caso fu stravotato nelle elezioni politiche sopraggiunte nella tarda estate del 2022, con sei mesi di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria della legislatura .
Da Repubblica
A spiegare i “tempi incerti” di un sondaggio che pure vede calare la fiducia nella Meloni e nel suo governo osteggiato -ripeto- dalla Repubblica di carta è sullo stesso giornale l’ex direttore della Stampa Massimo Giannini con un editoriale che dice tutto nel suo titolo: “Ma a sinistra solo silenzio”. Non possono parlare per essa -la sinistra, estesa dal Pd alle 5 Stelle, dai rossoverdi ai resti scomposti di quello che voleva essere il terzo polo- le mucche portate in giro in questi giorni dagli agricoltori ed evocate dall’editorialista sulla falsariga di Pier Luigi Bersani. Che a suo tempon le identificò con la destra, in generale, immaginandole nella sede del suo partito, al Nazareno.
Dal Riformista
Con le mucche e i mezzi che le accompagnano per le strade e nelle piazze continua a conversare meglio la destra, persino facendosi concorrenza interna, che la sinistra. “L’asta”, l’ha chiamata nel suo titolo di copertina il Riformista di Matteo Renzi sistemando sorridenti su un trattore Matteo Salvini e Giorgia Meloni, il primo reclamando festosamente più di quanto avesse già offerto l’altra ai protestatari, cioè l’esenzione dalla cosiddetta Irpef agricola per i redditi sino a diecimila mila euro l’anno.
Da Avvenire
Sul trattore la Meloni è stata sistemata, immaginata e quant’altro anche da Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, sensibile al richiamo del Segretario di Stato del Vaticano a favore dei dimostranti, uomini o animali che siano. Ad Avvenire ha fatta eco Il Quotidiano del Sud con questo titolo da circo: “Meloni doma i trattori accogliendo (quasi) tutte le richieste”. Cioè facendo dal governo la parte (autocritica) delle opposizioni. Siamo d’altronde in tempo di Carnevale.
Pur senza le ruote e i motori dei trattori, semplicemente muovendosi nella loro imponenza sulle loro zampe, ne hanno fatta di strada le mucche…. nella politica italiana. La più famosa rimane quella avvertita, lamentata, denunciata e quant’altro dall’immaginifico Pier Luigi Bersani nella sede del Pd che lui ormai non dirigeva più, avendo perso contemporaneamente la segreteria e l’incarico di presidente del Consiglio, anzi il “preincarico” precisato dall’allora capo dello Stato ed ex compagno di partito Giorgio Napolitano. Egli non era riuscito dopo le elezioni politiche del 2013 –“non vinte, precisò, per l’inatteso, primo successo dei grillini- né a formare il famoso “governo minoritario e di combattimento” scommettendo su una successiva benevolenza del Movimento 5 Stelle, né a far eleggere al Quirinale i due candidati del Pd messi in pista, uno dopo l’altro: il compianto Franco Marini e Romano Prodi, ancor vivo e memore di quella disavventura ,che lo sorprese peraltro nella lontana Cina o dintorni.
La mucca immaginata dall’ormai ex segretario del Pd doveva intendersi come la destra che cresceva nel paese senza che i dirigenti del Nazareno se ne rendessero conto. Valutazione, quella di Bersani, che poi si è rivelata giusta, visto il successo di Giorgia Meloni, dei suoi “fratelli d’Italia” e della coalizione di centrodestra, anzi di destra-centro, conseguito nelle elezioni politiche, e leggermente anticipate, del 2022.
La vignetta del Corriere della Sera
Un’altra mucca è stata immaginata dal vignettista Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera di oggi al festival di Sanremo, con tanto di microfono stesole da Amadeus sul palco a favore dei lavoratori della terra in rivolta: non si sa se più contro l’Unione Europea o contro il governo nazionale. Dove il ministro dell’Agricoltura è peraltro il cognato della premier. E si sa quanto pericoloso, a dir poco, sia in Italia essere cognato di chi “dà le carte”, come usa dire la stessa Meloni.
Giuseppe Conte
Ma un’altra mucca, persino con i suoi vasti e puzzolenti escrementi, permettetemi di immaginarla -con la stessa licenza presasi a suo tempo da Bersani pensando alla sede del proprio partito- nell’aula di Montecitorio, Dove ieri si è formalizzata la fine del Giurì d’onore, proposta come la sua costituzione nelle scorse settimane, dall’ex premier Giuseppe Conte. Che si era ritenuto offeso dalla Meloni come responsabile “nelle tenebre” di una situazione politica incerta, a capo del suo secondo governo, dell’adesione dell’Italia al trattato del Mes, Poi bocciato dallo stesso Conte, una volta sui banchi dell’opposizione, al pari di buona parte della maggioranza attuale, Il Giurì è diventato di un “onore liquefatto” – ha lamentato il presidente Giorgio Mulè- perché stava per emettere un verdetto contro Conte, e quindi a favore della Meloni.