Davvero curiosa “la crisi del terzo mandato” gridata con entusiasmo da Repubblica per la “maggioranza divisa” è spiegato nel titolo- in occasione del voto in commissione al Senato sulla proposta della Lega di superare il blocco dei due mandati dei presidenti delle regioni. O “governatori”, come ci siamo abituati a chiamarli fra i lamenti degli esperti della materia, con o senza la parrucca dei professori.
Da Libero
Davvero curiosa, e simmetrica, anche la preoccupazione levatasi da Libero. Il cui direttore editoriale Daniele Capezzone, preoccupato dal disorientamento che potrebbero avvertire domenica in Sardegna gli elettori di un centro diviso così clamorosamente spaccatosi al Senato, ha tirato le orecchie alla coalizione di governo in un editoriale titolato: “non litigate sul terzo mandato”.
Dal Foglio
In verità, l’unico o maggiore scontro nel centrodestra avvenuto sulla faccenda è quello raccontato sul Foglio tra il presidente meloniano della Commissione senatoriale, stupito dell’insistenza del leghista Massimiano Romeo nel far votare una proposta bocciata in partenza per come si si erano schierate le forze in campo, e lo stesso Romeo. Che gli ha gridato: “Ci dovete mandare sotto. Ci dovete massacrare. Massacrare. Non ci siete solo voi. Non la ritirerò mai. Hai capito? Mai. E’ una battaglia identitaria, Continueremo. Basta”.
In effetti ci sarà un secondo tempo della partita, in aula, prevedibilmente dopo le elezioni europee di giugno, dove e quando si potranno avere sorprese di ripensamenti non tanto nella maggioranza quanto nell’opposizione: più in particolare nel Pd. La cui segretaria Elly Schlein ha lo stesso interesse dalla Meloni, nella maggioranza, di cambiare gli equilibri interni alle amministrazioni locali, maturati prima di lei. Ma non ha la stessa capacità di Meloni, mancandole il governo, di far cambiare parere ai resistenti, chiamiamoli così, ricorrendo ad una crisi nazionale di governo che li stenderebbe al tappeto con il loro partito.
Le proteste levatesi dall’interno del Pd sulla posizione fatta assumere in commissione al Senato sono state parecchie, a cominciare da quella del presidente dello stesso Pd e dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, contro i “patti non rispettati” dalla segretaria.
La prima pagina del Riformista
In questa situazione hanno molto ben rappresentato le cose sia Il Fatto Quotidiano col fotomontaggio in prima pagina in cui fra i “potentissimi” aspiranti al terzo mandato si vedono in piedi sulla stessa poltrona, da sinistra a desra, i piddini Vincenzo De Luca e Bonaccini. leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia e il post-forzista, chiamiamolo così, governatore della Liguria Giovanni Toti. Di identico segnale o significato politico è la prima pagina del Rifomista con quella Eddy che “sceglie” Giorgia per “rottamare gli amministratori del Pd” diventati anche per lei, come una volta nel Pds-ex Pci per Massimo D’Alema, dei fastidiosi “cacicchi”. Ricordate? I soliti corsi e ricorsi politici, e non solo storici.
Non so se più in Paradiso o all’Inferno, per quanto considerato vuoto di recente dall’ottimistico Papa Francesco, quel pasticcione di Matteo Salvini deve avere un grande protettore, Che lo soccorre nei momenti di difficoltà accecando i suoi avversari e facendogliene fare più grosse di lui.
Dal Foglio
Il Foglio non ha forse sbagliato titolando non tanto sul comizio di Cagliari, quanto sulla foto del palco contenente i leader nazionali del centrodestra accorsi a sostenere il candidato a “governatore” nelle elezioni regionali di domenica, che “la paura sarda è più forte del gelo fra Meloni e Salvini”. Fisicamente accanto, in effetti, ma sottopelle distanti.
Da Repubblica
Non ha neppure sbagliato, una volta tanto, Repubblica a vedere fra la premier Gorgia Meloni e il suo vice presidente del Consiglio leghista un “muro”, esagerando comunque nello scambiare per “riforme” quelle che li separerebbero Riforma sicuramente è quella del premierato, per l’elezione diretta del presidente del Consiglio, su cui in effetti i partiti della Meloni e di Salvini si sgambettano un giorno sì e l’altro pure. Dubito invece che si possa scambiare per riforma la rivendicazione di un terzo mandato dei presidenti delle regioni. E dei sindaci che si sono o sono stati accodati in una vertenza che mi sa tanto di banalissimo potere, a volte di carattere persino personale e non di partito, di una combinazione ambigua.
Il compianto Navanly
Riuscito in questo groviglio di problemi a inguaiarsi anche sul clamoroso caso Navamly, praticamente dubitando che l’oppositore russo sia stato mandato da Putin a morire in Siberia riuscendo pienamente nella missione di sfida anche a tutto il mondo, come con la guerra in Ucraina, Salvini ha avuto dalle opposizioni in Italia il regalo di un’offensiva non più soltanto politica ma giudiziaria contro il suo maggiore obiettivo di minisro delle Infrastrutture: il ponte sullo stretto di Messina.
Il progetto del ponte
Ricevuto l’esposto dal verde Bonini e compagni, fra i quali la segretaria armocromatica del Pd Elly Schlein, la Procura della Repubblica di Roma ne ha fatto un fascicolo giudiziario con relative indagini. Alle quali temo che non mancheranno colpi scenici come il sequestro dei tutti i plastici del manufatto fra i quali Salvimi si muove quando si distrae dalle altre azione di disturbo al governo e alla maggioranza di cui fu parte.
Dalla Stampa
Sotto il titolo appropriato di un “suicidio di massa” Mattia Feltri sulla prima pagina della Stampa ha tirato le orecchie a quell’”amico”, ma anche asino politico, che ha azionato un’iniziativa utile solo ad ammazzare quel che resta del Parlamento e fare apparire Salvini un gigante boicottato da sprovveduti.
Mattia Feltri sulla Stampa
Mattia si è giustamente chiesto “che opinione dovrebbe avere di sé un parlamentare impegnato ad esercitare l’opposizione nei palazzi di giustizia anzichè in quelli della politica, dove è stato chiamato a prestare la sua preziosa opera”. Preziosa, giusto per amicizia di Mattia, dalla quale sono per fortuna esente.
Reduci -si fa per dire, essendo passati più di tre mesi- dalle proteste contro la decisione del sindaco di Milano di lasciare accomunare nel Famedio del Cimitero Monumentale ambrosiano i nomi del loro congiunto e di Silvio Berlusconi, pur onorato con i funerali di Stato l’anno scorso, i parenti di Francesco Saverio Borrelli hanno protestato questa volta contro il Corriere della Sera. Che avrebbe fatto peggio del Comune al Famelio, avendo pubblicato con tanto di richiamo in prima pagina una lunga intervista di Aldo Cazzullo all’anziano ex parlamentare socialista Rino Formica, sulla soglia ormai dei 97 anni, titolandola sull’accusa all’allora capo della Procura della Repubblica di Milano d avere aspirato al Quirinale nelle o con le indagini note come “mani pulite”. Che sgominarono la cosiddetta prima Repubblica decapitandone i partiti che avevano l’abitudine biasimevole ma generale di finanziarsi illegalmente con contributi forse anche volontari, per carità, ma dannatamente calcolati in percentuale su lavori pubblici, forniture, affari e simili di chi pagava, cioè con tangenti.
Tiaiana Majolo sul Dubbio
Era stata così eretta e demolita al tempo stesso una città chiamata Tangentopoli. Che poi, in verità, lo stesso Borrelli, come ha correttamente ricordato Tiziana Majolo sul Dubbio, riconobbe fosse stata ricostruita, essendo secondo lui la corruzione ripresa -se davvero fu corruzione quella precedente- in modo persino maggiore e peggiore nelle edizioni successive alla prima Repubblica.
Borrelli nel 2011, a carriera giudiziaria ormai vero la fine e al posto di Prouratore Generale della Corte d’Appello di Milano cui aveva sempre aspirato, disse che “non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. E si lasciò prendere dalla tentazione di chiedere scusa, fornendo a Claudio Martelli l’occasione ci accoglierle, e persino vantarsene in un libro autobiografico. Borrelli d’altronde, mentre pendevano ancora le indagini che avrebbero coinvolto e danneggiato anche l’ex vice segretario di Bettino Craxi, gli aveva già riconosciuto di essere stato fra i migliori, se non il migliore in assoluto dei ministri della Giustizia succedutisi nella tanto deprecata prima Repubblica.
Il pool di “Mani pulite” in Galleria a Milano
Lasciare accusare anche nei titoli del più diffuso giornale italiano la buonanima del loro marito e padre di avere voluto buttare il mondo all’aria -per ripetere le parole del loro stesso congiunto- allo scopo di diventarne il capo, e magari rivoltarlo da solo come “un calzino”, secondo le leggende del Palazzo di Giustizia di Milano, o come presidente della Repubblica o come presidente del Consiglio nominato da un chissà quanto disponibile Oscar Luigi Scalfaro, già amico peralltro del padre; lasciare accusare Borrelli di questo, dicevo, è sembrato troppo ai familiari. Ai quali evidentemente non sono bastate le parole –“Non credo proprio”- opposte a Formica dall’intervistatore e completamente ignorate nei titoli, interni e di prima pagina.
Alla protesta dei congiunti di Francesco Saverio Borelli il Corriere della Sera ha ritenuto di reagire pubblicandola e basta fra le lettere. Non ci sono state le scuse, ma con un po’ di buona volontà potrebbero essere anche intraviste. Forse non evidenziate solo per il ricordo di un editoriale del Corriere, comparso in pieno svolgimento dell’azione penale delle cosiddette “mani pulite”, in cui l’allora vive direttore Giulio Anselmi prese un po’ le distanze dai metodi e dagli spettacoli degli inquirenti, tanto debordanti erano diventati.
Giulio Catelani
A costo di sorprendervi, e di sembrare ingenuo anche alla cara Tiziana Maiolo, neppure a me Silvio Formica è apparso del tutto convincente sulla natura e sulle dimensioni delle ambizioni di Borrelli, Al quale ho sempre riconosciuto di avere pubblicamente e lecitamente avuto solo e sempre l’obiettivo di imitare il padre anche nel desiderio di arrivare al top del distretto goudiziario in cui lavoGenerale della Corte d’Appello. Che nel 1991, concorrendo alla successione ad Adolfo Beria di Argentine, gli apparve davvero a portata di mano o di toga. Ma all’ultimo momento gli fu preferito dal Consiglio Superiore della Magistratura, con le solite procedure politiche e sindacali ignorate solo dagli ingenui, cioè dai fessi, sino a quando non sarebbe esplosa la vicenda di Luca Palamara, un concorrente imprevisto arrivato da Firenze: Giulio Catelani, Che venne praticamente insediato a Milano, nella cerimonia ufficiale, da un altro Giulio, che era il presidente del Consiglio Andreotti. Ne derivò un clima generale di risentimenti e di sospetti che non giovò alla serenità nelle aule, nei corridoi e nelle stanze del tribunale di Milano. Negarlo sarebbe pura ipocrisia.
Dal Dubbio
A un turno successivo, ripeto, la Procura Generale toccò finalmente a Borrelli, Nel frattempo il mondo, per dirla con lo stesso ormai compianto, altissimo magistrato, era stato tutto mandato “all’aria”. E Borrelli si sentì impegnato a “resistere, resistere, resistere” a Berlusconi, disse pubblicamente con linguaggio -francamente- più da partigiano che da magistrato.
Vi e mi chiedo se questa storia può davvero essere considerata normale, con o senza il contorno delle intercettazioni dei servizi segreti a carico degli inquirenti raccontate da Formica, Che ha perso la vista, per sua stessa rivelazione, ma non la memoria.
I più giovani, beati loro, non hanno assistito alle inutili campagne condotte dal Pci di allora contro le interruzioni pubblicitarie dei film e di altri programmi televisivi. Walter Veltroni coniò la formula del “non interrompete un’emozione” che in una riunione alla Fininvest, cui partecipavo, Silvio Berlusconi trovò lealmente efficace, per cui incitò i dirigenti del suo gruppo a trovarne un’altra competitiva. Venne fuori solo l’idea di sommergere il governo di cartoline di protesta per non ammazzare col divieto degli spot la televisione commerciale. Ma più delle cartoline valsero i rapporti fra i partiti per risolvere la questione come si aspettava il Cavaliere.
Matteo Salvini
Ebbene, la faccolata bipartian dell’altra sera in Campisoglio da Carlo Calenda per esprimere solidarietà a Navanly, norto nelle carceri siberiane, e alla vedova che ne ha raccolto, sicura in Occidente, il testimone nell’opposizione a Putin è stata una bella emozione. Interrotta purtoppo dal vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini. Che vendicando di fatto il suo capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, contestato nella piazza capitolina, ha riproposto posizioni garantiste nei riguardi di Putin. Che ha immediatamente risposto da Mosca a suo modo, vantando i buoni rapporti avuti con l’Italia, dove si è sempre sentito a casa sua, come Salvini d’altronde a Mosca, con o senza l’immagine dello stesso Putin addosso.
Giorgia Meloni
Non parlo delle simpatie fra Putin e Berlusconi e delle cortesie e visite che si scambiavano, anche in momenti controversi come quello dell’annessione della Crimea da parte della Russia, perché ormai il Cavaliere non c’è più. E il suo successore Antonio Tajani sembra più cauto, quanto meno. Non si metterà certamente a boicottare, avendo già convocato l’ambasciatore russo alla Farnesina per un richiamo, la decisione della premier di rilanciare a livello G7 una campagna occidentale di sostegno militare e politico all’Ucraina da due anni sotto invasione russa.
Putin
E’ curioso tuttavia che mentre la Meloni coglie l’occasione del dramma di Navanly per rilanciare la guerra di resistenza dell’Ucraina alla Russia, che conduce la sua “azione speciale” di presunta denazificazione del paese limitrofo, in Italia accadano episodi come in Russia. Accade cioè che la politiza si metta a identiificare chi manifesta per Navanly e contro Putin. Il quale pertanto continua ad avere i suoi buoni motivi, anche ora che Berlusconi non c’è più, ma in cambio c’è Salvini più ancora di Tajani, per fare affidamento sul nostro Paese.
Questa si chiama comunemente ambiguità. E costituisce per la premier Meloni e il suo governo un pericolo maggiore delle elezioni sarde di domenica prossima, delle altre regionali dei mesi successivi e infine del voto europeo di giugno. Si sta purtroppo offuscando per il governo in carica il terreno sul quale si era mosso con più speditezzza e successo sino all’altro ieri: quello della politica estera.
E’ stata la fiaccolata del riscatto politico quella che in Campidoglio, con la partecipazione di tutti i partiti, ha onorato la memoria dell’oppositore russo Aleksej Navalny. Di cui Putin pensa di essersi liberato, lasciandolo morire in Siberia, ma di cui a maggior ragione rimarrà sinistramente prigioniero. Con un’avversaria probabilmente ancora più insidiosa: la vedova che ne ha raccolto il testimone nel mondo. E che moltiplicherà a Putin danni politici anche della guerra in Ucraina che sembra volgere a favore del Cremlino, ma in realtà ogni giorno di più dimostra che quel che esso è tornato ad essere anche dopo la caduta del comunismo e del muro che così plasticamente lo aveva rappresentato per tanto tempo a Berlino.
Massimiliano Romeo
Il rapprresentante che la Lega ha mandato alla manifestazione, il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, si è preso gli insulti che il suo movimento si era largamente meritati con il primo commento espresso dal vice segretario Andrea Crippa, per niente convinto delle responsabilità di chi al Cremlino ha ormai preso il posto di Stalin, pur sognando Pietro il Grande e chissà chi altro. Non vi sono state spioegazioni del capogruppo leghista in missione al Campidoglio che siano riuscite a placare le proteste contro di lui e il suo partito.
Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera
Della Lega rimpianta nemmeno tanto in silenzio da Umberto Bossi e condotta in un clima più di paura che di condivisione da Matteo Salvini proprio oggi sul Corriere del Sera, rispondendo ad un lettore, Aldo Cazzullo si chiede cosa resti davvero rispetto alle “origini, libertaria, antifascista, che simpatizzava per i popoli oppressi”, pur tra spinte secessioniste e adunate -diciamo la verità- un po’ troppo ridicole alle quali solo la bonomia di Silvio Berlusconi poteva fare spallucce, con la riserva riuscitagli di farle poi dimenticare nel contenitore del suo centrodestra. Che senso ha- si chiede ancora Cazzullo- appoggiare il governo Draghi e rivendicare l’eredità di Berlusconi per poi fare opposizione alla Meloni non dal centro ma da destra?”, come in effetti avviene.
Dal Fatto Quotidiano
Nel suo ambiguo rapporto ormai con la Meloni il vice presidente leghista del Consiglio si scopre sempre più spesso nella paradossale compagnia di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, come ai tempi del primo governo con Giuseppe Conte. “Le uniche certezze su Navalny, unico oppositore superstite di Putin, sono che è morto in un gulag artico e cle la responsabilità della sua pirigonia e dei feroci trattamenti subiti (incluso l’avvelenamento del 2020) ricade tutte sull’autocrate russo. Non si può escludere, viste le decine di personaggi scomodi morti ammazzati o vittime di strani incidenti che sia stato ucciso e che l’ordine sia partito da Patin, Ma al momento, senza elementi certi, non si può neppure affermarlo, anche se i governi di mezzo mondo si sono affrettati a farlo un minuto dopo, senza prove”, ha scritto Travagliocome un qualsiasi Andrea Crippa vice segretario di Salvini.
Intervistato a Cagliari da Stefano Cappellini, di Repubblica, prima di salire sul palco per sostenere la corsa della candidata grillina alla presidenza della regione Sardegna con l’appoggio del Pd, Giuseppe Conte ha chiesto ad Elly Schelin “un patto serio” per continuare a marciare insieme, non essedo evidentemente serio, o comunque sufficiente, tutto ciò che la segretaria del Nazareno ha fatto sinora, anche a costo di procurarsi crescenti malumori nel partito.
Anche sul consenso che la segetaria del Pd è riuscita a strappare alla premier Giorgia Meloni, assicurandosene l’astensione ad una mozione parlamentare che ha che chiesto di cessare il fuoco a Isarele piuttosto che ad Hamas nella guerra di Gaza provocata dal podrom del 7 ottobre, Giuseppe Conte ha avuto da ridire.
Conte a Repubblica
Ridotta ad una “furbizia” l’astensione praticata dalla premier alla Camera, e rimproverato al ministro degli Esteri Antonio Tajani i di avere aspettato 30 mila morti a Gaza per definire “sproporzionata” la reazione tsraeliana al pogrom del 7 ottobre, come se i ventimila morti si fossero potuti accettare, Conte ha detto. “Meloni on ha ancora alzato il telefono per dire a Netanyau: ora basta. Lo ha fatto Macron, lo ha fatto Biden, cosa aspetta Meloni? O bisogna pensare che sia frenata da qualche simpatia ideologica con pezzi del governo israeliano che sono fanatici di estrema destra?”.
Pensate un po’ cosa riuscirà a drie l’ex presidente del Consiglio quando sentir di una delegazione del partito conservatore europeo della Meoni in visita o Israeele per incontrare Netanyau, consultarsi con lui e non insultarlo.
In una lunga intervista al quasi centenario Rino Formica raccolta per il Corriere della Sera da Aldo Cazzullo- in coincidenza con i 32 anni trascorsi dal 17 febbraio 1992, quando Tangentopoli esplose con l’arresto di Mario Chiesa mentre si faceva pagare dai fornitori dei servivi di pulizie del Pio Alberto Trivulzio che presiedeva, c’’è la convinzione che l’allora capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli volesse diventare capo dello Stato. Una convinzione, o sensazione, come preferite, che avendo peraltro ispirato il titolo dell’intervista potrebbe dare -temo- una lettura sbagliata di tutta quella vicenda giudiziaria nota come “Mani pulite”. che ancora produce i suoi effetti sulla politica italiana per il perdurante squilibrio nei rapporti fra la politica e la giustizia.
Da Libero
L’Impressione del Quirinale nelle ambizioni di Borelli potrebbe eccitare la fantasia del lettore anche in considerazione delle “informazioni -racconta Formica a Cazzullo a proposito del “poker d’assi” dallo stesso Formica attribuito a Craxi ai margini di una riunione di partito di quei tenpi- che i servizi e la polizia avevano fornito ad Amato, che era presidente del Consiglio” segnalando “il traffico telefonico del pool” di magistrati. Alcuni dei quali erano convinti di poter rivoltare l’Italia come un calzino senza bisogno di aspettare che lo facessero gli elettori, evidentemente troppo disinformati per muoversi in una simile direzione rivoluzionaria.
Rino Formica
“I servizi -racconta Formica, ormai cieco ma di una memoria diretta o indiretta acutissima- hanno come compito controllare tutto quello che avviene attorno al potere. Anche Mussolini era intercettato. I servizi ascoltavano le sue conversazioni con la Petacci. Certo, il confine fra la tutela delle istituzioni e l’intrigo è sottile. Dipende dall’uso che se ne fa”.
Formica ieri al Corriere
E che cosa avevano scoperto i servizi? chiede giustamente incuriosto Cazzullo. “Che un po’ tutti i magistrati del pool -risponde Fornica- non erano stinchi di santo. Non solo Di Pietro. Ognuno aveva il suo corrispondente esterno: politico, religioso, internazionale. E ognuno aveva la sua ambizione: chi voleva fare il presidente del Consiglio, chi il presidente della Repubblica”, come appunto un Borrelli che “appare in Tv -ricorda Formica- e dà ordini al Parlamento”, così “agendo come un aspirante capo dello Stato”.
Di altre sortite politiche, o simili, di Borrelli ne ricodo una nella quale avvertì che, “se chiamato”, lui o altri magistrati avrebbero potuto anche servire il Paese senza portarsi addosso la toga. Il che lasciava prevedere, in verità, una chiamata più a Palazzo Chigi o dintorni che al Quirinale, dove per essere chiamati bisognava aspettare che il presidente della Repubblica in carica scadesse o si dimettesse e il Parlamento in seduta comune, con i rinforzi dei visibili delegati regionali e dell’invisibile Spirito Santo,, se non contemporaneamente impegnato in un Conclave per un nuovo Papa, non si mettessero a votare per un esterno avvertito come necessario, e non solo come disponibile.
Adolfo Beria di Argentine
Per quel che io ricordo di quegli anni, anzi di quei tempi, risalendo indietro di qualche mese rispetto all’arresto di Mario Chiesa, di Borelli conoscevo l’aspirazione ad essere semplicemente promosso da capo della Procura della Repubblica a capo della Procura Generale della Corte d’Appello, dove era già arrivato il padre lasciando un buon ricordo che il figlio evidentemente desiderava replicare. Ma quando giunse l’occasione, col pensionamento del mitico Adolfo Beria di Argentine, pur tempestivo nella presentazione della domanda e nella ricerca discreta degli appoggi; pur sentito già una volta dalla competente commissione selezionatrice del Consiglio Superiore della Magistratura, dove forse aveva avvertito qualche attenzione positiva nei suoi confronti, Borrelli ebbe qualche sgradita sorpresa.
Guido Catelani
Egli seppe, per esempio, della presentazione in extremis, o fuori tempo massimo, della domanda di patecipazione al concorso a Prouratore generale della Corte d’Appello ambrosiano di Giulio Catelani, che gli fu preferito. E al cui insediamento, data l’importanza del distretto giudiziario di Milano, volle partecipare personalmente il presidente del Consiglio in carica Giulio Andreotti.
Bettino Craxi
Borrelli ci rimase comprensibilmente male. Ancora peggio quando gli raccontarono, francamente non so se prima o dopo l’insediamento di Catelani, destinato comunque a vivere a Milano un’esperienza a dir poco tormentata e chiusa precocemente, che a metterci lo zampino in quella nomina era stato Bettino Craxi in persona spiazzando i socialsti del posto che non erano per niente contrari alla promozione del capo della Procura di primo grado.
Giulio Andreotti
Era accaduto, in particolare, ,che alla vigilia delle decisioni del Consiglio Superiore della Magistratura sui vertici giudiziari di Milano Andreotti invitò il leader socialista a un colloquio privato. Durante il quale gli fece presente che Borrelli, poco più che sessantenne, non solo sarebbe passato dal primo al secondo grado della Procura della Repubblica ma vi sarebbe rimasto a lungo derogando, sotto il primo e sotto il secondo aspetto della questione, ad abitudini diverse nell’ambiente giudiziario. Esse sarebbero tornate normali spostando Catelani da Firenze a Milano. Il discorso parve ragionevole a Bettino, che lo condivise.
Claudio Martelli
Non ho mai avuto occasione di parlare di questo passaggio con Claudio Martelli, che era allora il ministro della Giustizia. Un suo intervento certo aiuterebbe a fare chiarezza. So tuttavia che la mancata nomina di Francesco Saverio Borrelli alla Procura Generale della Corte d’Appello in quella occasione, sopraggiunta invece in un’altra rimasta celebre col suo triplice appello alla “resistenza” ad un potere, un sistema chiamatelo come volete, nel frattempo passato nelle mani di Silvio Berlusconi, contribuì quanto meno a creare a Milano negli anni Novanta un clima giudiziario assai difficile, quanto meno, per i socialisti. Un clima poi diffusosi un po’ dappertutto in Italia.
Per fortuna ha retto un solo giorno sulle prime pagine dei giornali italiani la coppia anomala di Aleksej Navalny, il giovane oppositore russo morto metaforicamente fra le mani di Putin, che lo aveva mandato a scontare in Siberia la condanna a 19 anni di carcere, e di quel cafone italiano ormai certificato di Vincenzo De Luca. Che abusando della democrazia, ha dato della “stronza” alla premier Giorgia Meloni proponendosi come il capo dell’opposizione di piazza. E di teatro, avendo proseguito su un palco il suo sostanziale travestimento da Masaniello contro un governo di destra che intende attuare le autonomie regionali differeziate messe in Costituzione da una maggioranza di sinistra.
Titolo di Avvenire
Oggi, a parte qualche testata filogovernativa che reclama le scuse del cafone e protesta perché non sono state né presentate spontaneanente né suggeritegli dalla segretaria del suo partito, che d’altronde condivide la cotestazione del disegno di legge del governo, le prime pagine dei quotidiani italiani sono dominate dall’ultima -anzi penultima, potendosene prevedere altre- vittima del dispotismo di Putin. Persino Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, ha resistito, nella sua politica di sostegno praticamente illimitato alll’immigrazioe clandestina, alla tentazione di sventolare a sentenza della Corte di Cassazione contro chi fare tornare qualche naufrago sulle insicure coste libiche di provenienza. E ha dovuto aprire “in mome di Navalny”, sistemando sotto il titolo una foto emblematica della popolarità di un uomo di cui Putin non è stato in grado di poter fare mostrare dai detentori neppure il corpo.
Andrea Crippa
In Italia, nella nostra Italia di un cafone presidente di regione che viene a protestare a Roma per dare della “stronza” alla presidente del Consiglio, si è riusciti ad organizzare per lunedì una fiaccolata bypartisan di solidarietà per la penultima -ripeto- vittima di Putin. E il suo stesso partito ha avvertito in poche ore di smentire e zittire un vice segeretario -il legista Andrea Crippa- che aveva voluto dubitare delle responsabilità del despota di Mosca.
Da sito del Quirinale
Il merito di questo risveglio in extremis, di questo recupero del senso della dignità anche dell’informazione, e non solo della politica, va riconosciuto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che conoscendo -temo- i suoi polli aveva voluto essere all’arrivo della notizia dalla Russia il più tempestivo e duro nella denuncia della “peggiore e più ingiusta conclusione di una vicenda umana e politica che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica mondiale”. “Per le sue idee e per il suo desiderio di libertà Navalnyi -aveva ricordato Mattarella- è stato condannato a una lunga detenzone in condizioni durissime, Un prezzo iniquo e inaccettabile, che riporta alla memoria i tempi più bui della storia. Tempi che speravamo di non dover più rivivere. Il suo coraggio resterà di richiamo per tutti. Esprimo alla famiglia il cordoglio e la vicinanza della Repubblica italiana”. Grazie, Presidente.
Eppure c’è un nesso fra quanto è accaduto in Russia e in Italia, fra la morte procurata da Putin in Siberia al suo giovane oppositore Alexey Navalny, al quale non bastavano i 19 anni di detenzione comminatagli ma bisognava che fossero abbastanza duri per farlo morire, e l’esibizione a Roma del governatore della Campania Vincenzo De Luca. Che, assunta la guida di una manifestazione d sindaci contro le autonomie differenziate delle regioni, peraltro previste dalla Costituzione per una modifica a suo tempo introdotta dal suo partito, ha scelto divani e divanetti di Montecitorio per attribuirsi con uno dei suoi abituali paradossi la parta destinata con un insulto alla premier Giorgia Meloni. La parte della “stronza”, o dello “stronzo” al maschile, o neutro, che la stessa Meloni all’atto dell’insediamento a Palazzo Chigi preferì per le sue funzioni o carica di presidente del Consiglio.
La guerra in Ucraina
Ciò che accomuna la Russia e l’Italia, o più modestamente, se preferite, due personaggi come Putin e De Luca è l’abuso. L’abuso della forza e del potere da parte di un Putin che si considera una mezza reincarnazione di Pietro il Grande ma in realtà è solo la brutta copia di Stalin, attribuitosi il compito di “denazificare” l’Ucraina invadendola, mettendola a ferro e fuoco e sfidando un Occidente -ahimè- che sembra sempre già stanco di una guerra che pensava di poter liquidare in meno tempo, prima che le si sovprapponesse quella scatenata in Medio Oriente da chi ritiene che debbano essere denazificati anche gli ebrei.. Dall’altra parte, da noi, fra Napoli e Roma, è esploso il fenomeno latente da tempo di abuso della democrazia.
Titolo del Fatto Quotidiano
Questo abuso non è di un governo al quale si attribui peraltro la colpa un anno e mezzo fa di nascere nel centenario della marcia fascista su Roma, e perciò fascista anch’esso, ma di un po’ tutte le componenti della variegata opposizione, a cominciare dalla maggiore, per ora, Già, perché oltre a non dissociarsi, almeno sino al momento in cui scrivo, dalla “stronza” data dal suo collega di partito ad una Meloni che non più tardi di qualche giorno fa le ha permesso con l’astensione della maggioranza l’appovazione alla Camera di una mozione su Gaza che fa accapponare la pelle per una certa miscela di demagogia e disinvoltura, la segretaria del Pd ha condiviso tutte le proteste di De Luca. “La patriota divide l’Italia” gridava un titolo di Repubblica apposto in prima pagina ieri su ‘un’intervista della stessa Schlein.
Titolo dell’Unità
Così peraltro la segretaria del Nazareno, recuperando il “Nonostante il Pd” di un recente libro di De Luca contro di lei, si è di fatto ritrovata con lui nel titolo che l’Unità di Piero Sansonetti ha proposto ai lettori per sostenere il governatore pur maleducato della Campania: “De Luca (nonostante il Pd…) pende la testa del Sud e assale Palazzo Chigi”. Il cui portone per fortuna era chiuso ieri quando il governatore vi è arrivato davanti per reclamare di entrarvi.
Sterminator, come Il Fatto Quotidiano chiama il premier israeliano Benjamin Nethyanau piuttosto che prendersela con gli sterminatori di professione che sono i terroristi di Hamas del pogrom del 7 ottobre e delle prevedibili reazioni, ha indotto l’ambasciatore in Vaticano ad attenuare la polemica col Segretario di Stato, il cardinale Parolin, facendogli definire “sfortunate” e non più “deplorevoli” le parole pronunciate contro le azoni militari in corso a Gaza. Forse Sterminator, ripeto, ha voluto attenuare quello che Il Foglio ha definito “il grande freddo tra cristiani ed abrei”, mai “così in crisi da decenni”.
Dal Secolo XIX
Tuttavia non cambia la risposta israeliana sul terreno, come dimostra l’attacco sferrato all’ospedale di Gaza che i medici considerano “l’inferno” più per il fuoco degli israeliani che per l’uso che ne è stato consentito come rifugio di terroristi per depositarvi gli ostaggi rapiti in Israele il 7 ottobre o far partire dai loro sotterranei alti razzi contro gli ebrei che si ostinano a vivere fra la Cisgiordania e il mare.
Non cambia la risposta israeliana neppure di fronte alle insofferenze e proteste degli americani. Figuriamoci di fronte a quelle che in Italia, pur di portare avanti il suo confronto privilegiato con la segretaria del Pd per offuscare la concorrenza che le fa Giuseppe Conte, la premier Meloni ha deciso di condividere. E non solo di “comprendere”, come la buonanima di Aldo Moro ai tempi della guerra del Vietnam diceva a Palazzo Chigi a proposito dei bombardamnti americani sul Nord e sui tunnel che vi costruivano i vietcong per penetrare meglio nel Sud. Come in fondo fanno quelli di Hamas a Gaza.
Dalla Stampa
Deòl’ostinazione tanto di Hamas quanto degli israeliani nel comtrastarne l’azione non credo che si stia sorpendedo a Roma Giorgia Melomi, troppo politica -come ha voluto definirsi visitando una mostra su Enrico Berlinguer e firmandone il registro- per non conoscere i limiti dell’operazione tattica compiuta a Montecitorio con l‘astensione sul documento del Pd di sostanziale aiuto ad Hamas. Ma forse la premier sta trovando superiori alle previsioni le distanze che hanno deciso di prendere da lei anche su questo gli alleati leghisti.: pure quelli d tendenza, diciamo così, non proprio salviniana. Come il governatore del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga. Che le ha praticamente chiesto alla Meloni fra dichiarazioni e interviste: “Vogliamo che Gaza continui a essere un avamposto del terrorismo dove scuole, ospedali e sedi delle agenzie Onu vengono usati come basi del terrore?”. “Quello del 7 ottobre è stato un massacro”, ha ricordato Fedriga parlando di ciò da cui tutto è cominciato in questa ennesima guerra in Medio Oriente.