Gli aspetti paradossali della vittoria di Conte regalata in Sadegna dal Pd

La festa di Licheri, Conte e Todde

            Fra le varie foto celebrative delle elezioni che hanno portato alla presidenza della regione sarda Alessandra Todde, la prima come donna nell’sola e come grillina in tutta Italia, un ingenuo o sprovveduto, ma non tanto da non riconoscere le persone riprese in aria compiaciuta e festiva, si sarà soffermata su quella che ritrae insieme, da sinistra a destra, solo i pentastellati Ettore Licheri, Giuseppe Conte e Todde. E si sarò chiesto quanti voti sia riuscito a raccogliere nelle urne il loro movimento per essere salito così in alto, al vertice della regione, Ma scopre, consultando le mappe dei partiti, con i loro simboli, che quello delle cinque stelle è l’unico che condivide con la Lega di Matteo Salvini, nello schieramento opposto di centrodestra, o di destra-centro, la disavventura di un arretramento generale, rispetto sia alle precedenti elezioni regionali, del 2019, sia alle ultime elezioni politiche, del 2022.

         In particolare, il movimento di Conte è sceso al 7,8 per cento dal 9,7 delle precedenti elezioni regionali, che si svolsero peraltro quando lui era non il capo del partito ma addirittura del governo nazionale, e dal 21,8 delle elezioni politiche del 2022, svoltesi quando Conte non era più  presidente del Consiglio ma solo presidente delle 5 stelle, Scendere in meno di due anni di 14 punti su 21 non dovrebbe essere intesa un’impresa, una fortuna, ma un incidente quanto meno, se non una sciagura. Superiore, per dimensioni, a quella -ripeto- che pure affligge Matteo Salvini paragonando il suo 3,8 per cento di domenica scorsa al 6,3 delle politiche del 2022 e all’11,4 delle regionali del 2019.

         E’ curioso, a dir poco, che la segretaria del Pd pur di accordarsi con un movimento così malmesso come quello di Conte gli abbia concesso la candidatura alla presidenza della regione cosi volentieri da far dire allo stesso Conte di non aveglielo neppure chiesto, di non avere speso per la sua Todde nemmeno una telefonata.

Dalla Stampa

La Schlein ha pagato tanta generosità, con la rottura consumata pe reazione dall’ex governatore sardo Renato Soru, il prezzo non indifferente di 5 punti su 18 fra le politiche del 2022 e le regionali di domenica scorsa. Un sacrificio -ha in qualche modo spiegato, al posto della Schelin il generoso Romano Prodi in una intervista alla Stampa– per costruire il famoso “campo largo” necessario a sinistra per sconfiggere la prossima volta il centrodestra a livello nazionale,

Dal Corriere della Sera

Ma che largo e largo, dice invece Conte. Che preferisce un campo “giusto” per le sue ambizioni, cioè il meno largo possibile, che gli consenta l’avventura immaginata già da Beppe Grillo nel 2009 di conquistare il Pd, questa vola senza neppure tentare di iscriversi, come tentò di fare appunto il comico dopo le dimissioni di Walter Veltroni da segretario, ma mangiandoselo come un salame. “Non è una gara col Pd”, ha appena detto Conte al Corriere della Sera. E’ una passeggiata di compagni di merenda.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Un Pd autolesionista festeggia in Sardegna la vittoria di Conte

Da Libero

Prima ho letto ieri Mario Sechi, per amicizia e per spirito comunitario, diciamo così, da collaboratore di questo giornale. Poi ho letto sul Fatto Quotidiano quella specie di bollettino della vittoria scritto sulle elezioni sarde da Marco Travaglio. Che dopo avere dato a Giuseppe Conte negli anni d’oro, quando l’avvocato poteva governare cambiando alleati dalla mattina alla sera, del secondo in classifica nella graduatoria dei presidenti del Consiglio nella storia d’Italia, dopo Camillo Benso di Cavour, conte con la minuscola perché vero, lo ha ora scoperto come “il leader più sottovalutato del mondo”.

Il più sottovalutato -debbo presumere- almeno sino a ieri, perché ora, con la sua Alessandra Todde, ex sottosegretaria grillina, arrivata al vertice della regione Sardegna, salvo sviste degli scrutatori o altre sorprese, l’ex presidente del Consiglio avrebbe fatto vedere finalmente di che pasta è fatto. Uno che quanti meno voti prende più riesce a contare: verbo peraltro del suo stesso nome. Un fenomeno da circo politico.

Beppe Grillo

         Neppure quando il movimento oggi presieduto dall’ex premier aveva più del trenta per cento dei voti e sembrava avere preso il posto che nella  cosiddetta prima Repubblica era stato della Dc o del Pci, o di entrambi, i grillini erano usciti a conquistare una regione. Neppure la più piccola d’Italia. Ora in effetti se la sono aggiudicata,e di quali dimensioni, con l’aiuto di un Pd che peraltro è lo stesso -una volta tato non ha ancora cambiato nome- che nell’estate del non lontanissimo 2009 rifiutò proprio in Sardegna, nella sezione di Arzachena, l’iscrizione a un baldanzoso Beppe Grillo. Che si era messo giocosamente in testa di concorrere alla segreteria abbandonata da Walter Veltroni dopo un incidente elettorale, anch’esso accaduto peraltro nell’isola dei Nuraghi.

         Pensate un po’ di quante diaboliche combinazioni è fatta questa storia. A Conte è riuscito in qualche modo ciò in cui fallì Grillo, trattato allora come un comico qualsiasi: la scalata, sia pure indiretta, al Pd: diciamo, un’opa. Dimezzato nei voti, egli riesce a imporre i suoi candidati, offendendosi solo a sentir parlare di primarie, oggi nelle amministrazioni locali, di ogni livello, e domani chissà dove, magari per la presidenza del Consiglio, ad un partito di cui una buona parte lo insegue per una nuova alleanza. Che al Nazareno vorrebbero da “campo largo” ma che lui vorrebbe invece la meno ampia possibile, evidentemente per poterla meglio controllare, senza tanti rompiscatole fra i piedi.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

         “L’unica formula vincente contro le destre -ha spiegato o proclamato Travaglio nel suo bollettino della vittoria commentando le elezioni sarde-è un’alleanza fra cinque stelle, un Pd davvero rinnovato e i rossoverdi: quelle che sostennero il Conte 2 fino in fondo. Astenersi centrini, perditempo e perdivoti da “campo largo” o “riformismo”. Un Pd “davvero rinovato” come quello della giovane segreteria Elly Schlein, che sospira di sollievo alla notizia di qualsiasi uscita dal suo partito in dissenso da lei. E se l’applica sul petto coma una decorazione.

Matteo Renzi

         Va bene che la politica è imprevedibile. Essa è mobile come la donna del Rigoletto. Va bene che ne abbiamo viste di tutti i colori sia nella prima, sia nella seconda, sia nella terza sia nella quarta Repubblica pur in corso solo su uno dei canali televisivi del compianto, immaginifico Silvio Berlusconi. Va bene che abbiamo assistito ad uno spreco di energie e intelligenze come quelle che personalmente  mi sembrarono nel 2014 di Matteo Renzi, riuscito poi a segnarsi i gol da solo nella partita della riforma costituzionale, bocciata dagli elettori referendari nel 2016. Va bene tutto, ripeto. Ma mi chiedo quanto potrà o dovrà durare ancora lo spettacolo del Pd a rimorchio di Conte.

Massimo D’Alema

Il Pd è sulla carta, e anche consultando l’anagrafe, la somma dei resti della Dc, particolarmente quella di sinistra, e del Pci. Ma anche quell’”amalgama mal riuscito” annunciato, certificato e quant’altro da Massimo D’Alema. Che sarà pure stato l’unico, vero rottamato di Renzi; sarà pure l’antipatico che si compiace persino di esserlo nei suoi interventi fra smorfie e occhiatacce; che avrà pure dato anche a qualche magistrato l’impressione di avere cambiato mestiere, ma rimane pur sempre -mi perdonino i lettori che non fossero d’accordo- un personaggio storico della sinistra italiana.

         Questo problema del Pd a sovranità sostanzialmente limitata, costretto a costruire e partecipare alle feste degli altri, mi sembra francamente per se stesso e, più in generale, per la democazia italiana, che vive di alternative possibili e non irreali, di gran lunga superiore a tutti quelli, effettivi  o immaginari, del centrodestra al governo, o destra-centro, e di ciascuno dei partiti che lo compongono. Cui, per paradosso, senza neppure turarmi il naso come faceva Indro Montanelli con la Dc, verrebbe voglia di augurare tante sconfitte se queste sono per gli avversari semplici vittorie di Pirro. Che si inseguono d’altronde da quasi 2.300 anni.

Pubblicato su Libero

L’ordine è tornato sul Colle dopo le proteste di Mattarella per i manganelli

Dal Dubbio

Per quanto garantitosi -accorto com’è sul piano costituzionale e politico- con il consenso ottenuto senza molta fatica dal ministro dell’Interno in una lunga telefonata, e anche con una informazione personale alla premier sulla propria iniziativa, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è scomodamente trovato sui giornali per qualche giorno come il capo dell’opposizione, anzi delle opposizioni.

Mattarella e Piantedosi al Quirinale

La sua protesta contro l’uso, cioè l’abuso dei manganelli in piazza contro ragazzi in manifestazioni di protesta, e le inchieste che ne sono seguite sul piano disciplinare, fra le stesse forze dell’ordine, e su quello giudiziario nella Procura di Pisa, hanno esposto il capo dello Stato a fraintendimenti forse superiori alle sue aspettative. Fra i quali temo che abbiano prevalso sulle strumentalizzazioni delle opposizioni, giunte a chiedere le dimissioni del pur consenziente ministro dell’Interno con Mattarella, gli errori -a dir poco- di esponenti della maggioranza e dello stesso governo.

         Penso, per esempio, al deputato Giovanni Donzelli, del partito della premier, e soprattutto al vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini. Che, anzichè riconoscersi nei giudizi e nell’iniziativa del capo dello Stato, ha rifiutato un commento a chi glielo chiedeva, o prima ancora che glielo chiedesse. Ed ha preso delle forze dell’ordine una difesa pregiudiziale e assoluta, smentita dalle inchieste nel frattempo aperte e dalla stessa storia del suo movimento. Nella cui sede un dirigente già allora di primo piano, che sarebbe diventato addirittura ministro dell’Interno, il compianto Roberto Maroni, prese a morsi alle gambe alcuni agenti di Polizia impegnati nel loro servizio d’ordine. Eh, se solo Salvini e altri, magari non solo del suo partito, pensassero un po’ di più prima di parlare.

         Il disordine, chiamiamolo così, involontariamente provocato da Mattarella con le sue telefonate a Piantedosi e alla Meloni e col suo comunicato sul manganello “fallimentare” nell’uso contro i ragazzi, è durato fortunatamente poco, con sollievo -credo- del presidente della Repubblica per primo.

         L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è già ripreso il suo posto, conteso dalla segretaria del Pd Elly Schlein, o viceversa, di capo dell’opposizione, al singolare non se più arbitrario o miracoloso, aprendo un altro contenzioso col governo sul piano della politica estera.

Meloni al G7 a Kiev

L’ombra di Conte s’intravvede, in particlare, dietro la rumorosa protesta del Fatto Quotidiano, su tutta la prima pagina di ieri, contro l’accordo decennale di solidarietà e assistenza firmato a Kiev da Giorgia Meloni con Zelenky a nome dell’Italia in occasione del G7 svoltosi nella capitale ucraina nell’ormai terzo anno della guerra d’invasione “denazificante” chiamata a Mosca “operazione speciale”. L’intesa sarebbe stata studiata apposta “senza passare dal Parlamento”, ha protestato il giornale generalmente in sintonia con l’ex premier, Che è ancora considerato sotto le cinque stelle il migliore capo del governo avuto dall’Italia dopo la buonanima di Camillo Benso di Cavour.

Giuseppe Conte

         E’ prevedibile, con questo tipo di protesta, una campagna per reclamare e ottenere un passaggio parlamentare di formale o sostanziale ratifica dell’accordo. Ma è altrettanto prevedibile la partita difficile che si aprirebbe in questo caso fra le opposizioni, in particolare fra il Pd e il Movimento 5 Stelle e all’interno del Pd, per arrivare a un comune comportamento, o pasticcio.  Una partita nella quale Conte, come al solito, partirebbe in vantaggio su posizioni radicalmente contrarie, anche se gli aiuti italiani all’Ucraina dopo l’invasione russa cominciarono col governo Draghi di cui era ministro dagli Esteri l’ancora grillino Luigi Di Maio. Che ruppe col suo partito protestando pubblicamente contro i contatti fra Conte e l’ambasciata russa a Roma per disimpegnarsi dalla linea di appoggio all’Ucraina. Seguirono anche per questo, se non soprattutto per questo, una crisi di governo e le conseguenti elezioni anticipate del 2022, con un Pd guidato da Enrico Letta su posizioni che ancora oggi Conte definisce “belliciste” e attribuisce anche alla Schlein, in “elmetto” come il suo predecessore

         Il ritorno alla questione ucraina chiude definitivamente anche la parentesi del manganello attribuito disinvoltamente a Mattarella contro il governo. E’ arcinota la posizione antiputiniana del capo dello Stato sull’Ucraina, anche se Putin ha recentemente dichiarato a Mosca, sorprendentemente creduto un po’ da Zelensky a Kiev, che in Italia gode ancora di molte simpatie, o quasi.

Pubblicato sul Dubbio

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