Una Giorgia Meloni tutta da esportazione, fra Kiev e Casa Bianca

Giorgia Meloni

Per quanto alla vigilia di elezioni sarde da alcuni ritenute particolarmente rischiose per il candidato che ha praticamente imposto alla presidenza della regione contro quello sostenuto dall’alleato Matte Salvini, e comunque gambizzato alla fine dalle solite, puntuali iniziative giudiziarie, la versione di Giorgia Meloni è in questi giorni da esportazione. Non a caso supportata dalla difesa che ha voluto prenderne pubblicamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella da un’opposizione villana -come quella del presidente della Campania Vincenzo De Luca, che le ha dato prima della “stronza” e poi della “stracciarola”- e persino violenta, con le fiamme appiccate alle sue immagini.

Putin

         Mentre Putin ostenta la sua forza contro l’Occidente ignorandone le proteste per avere fatto o lasciato morire in Siberia il suo principale oppositore Alexey Novalny  ed entrando con la solita ferocia nel terzo anno della guerra all’Ucraina, la premier italiana corre a Kiev in qualità di presidente di turno del G7 per confermare il sostegno a Zelensky. E va poi a trovare alla Casa Bianca il presidente americano Joe Biden. Di cui certamente non ripeterà il “figlio di puttana” appena gridato al despota che si considerava post-sovietico ma neppure confermerà le simpatie di cui Putin si è vantato di disporre da noi parlando con una compiacente e compiaciuta italiana che studia a Mosca e aspira diventarne cittadina. Non sembra trattarsi di una leghista, per fortuna di un Salvini avventuratosi già troppo di suo in quella direzione, persino incerto delle responsabilità di Putin sulla fine di Navalny.

Tajani al congresso di Forza Italia

         Gli impegni e l’esposizione internazionale della premier riduce l’attenzione sulla politica interna e sulle beghe di un po’ tutti i partiti. Fra i quali ce n’uno -Forza Italia-che ha affrontato praticamente il suo vero e primo congresso perdendo per strada la suspense che avevano promesso quanti, per esempio, sollecitavano nei mesi scorsi un regolarmente che consentisse chissà quali e quante candidature alternaiive al segretario sostanzialmente reggente Antonio Tajiani.  Di cui invece sembra scontata la conferma senza concorrenti col rito tutto berlusconiano e antico dell’acclamazione.

Weber e Tajani

 Sarà comunque un segretario molto assistito, aiutato da ben quattro vice, e molto deciso -ha promesso anche esplicitamente- a sorpassare elettoralmente nella coalizione di governo i leghisti, rappresentati in sala solo dalla deputata Simonetta Matone, non foss’altro per aumentare il potere contrattuale del suo partito nei rapporti con la premier.  Fanno naturalmente il tifo per lui dall’estero i dirigenti del partito popolare europeo, il cui presidente ha voluto abbracciare Tajani su palco congressuale.  

Ripreso da http://www.statmag.it e http://www.policymakermag.it

Il casino sul terzo mandato che la Lega ha fatto scoppiare nel Pd della Schlein

Da Libero

No. Questa partita del terzo mandato, chiamiamola così, pensando ora ai presidenti delle regioni e poi ai sindaci, non è stata giocata male da Matteo Salvini. O così male come appare dall’autorete che ha voluto rimediare in commissione al Senato facendo votare e bocciare dalle opposizioni e dai suoi stessi alleati la proposta di sblocco dei due mandati.

         Pur senza trovare il santo in paradiso che sulla questione del ponte sullo stretto di Messina ha accecato gli oppositori indirizzandoli verso una battaglia giudiziaria, una vota perduta quella politica, Salvini ha risolto da sé il problema -ripeto- del terzo mandato investendo astutamente più sulle debolezze altrui che sulla propria forza. O sull’interesse, che gli contestano a torto a ragione, di volere fare confermare al posto che ha l’amico e collega di partito governatore del Veneto, Luca Zaia, per non trovarselo poi fra piedi come concorrente alla guida del Carroccio.

Altro che le orecchie d’asino applicate a Salvini da Stefano Rolli

         Un attimo dopo avere incassato per la sua apparente autorete nella commissione competente del Senato le spallucce degli alleati decisi o rassegnati, secondo i gusti, ad affrontare in aula il secondo tempo della partita, possibilmente dopo le elezioni europee di giugno, in un quadro più chiaro dei rapporti di forza nella coalizione di governo, Salvini ha potuto godersi la rivolta esplosa nel Pd contro la Schlein. Alla quale per la prima volta, se non ricordo male, l’ex concorrente e ora presidente del Pd Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna non estraneo di certo all’ipotesi di un terzo mandato, ha contestato alla segretaria Elly Schlein il mancato rispetto di impegni evidentemente presi non nel senso di un voto contrario. Che peraltro ha ancora una volta accomunato la stessa Schlein a Giuseppe Conte. Che da Beppe Grillo, garante e nel tempo stesso consulente retribuito, ha ereditato un Movimento dove il terzo mandato viene vissuto sotto moltissimi aspetti, personali e politici, come una tragedia. Un mostro di cui avere paura di giorno e di notte.

         Alla ripresa della partita, già in aula al Senato o nelle prove di allenamento che la precederanno, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, o viceversa, come preferite, potranno trovarsi in condizioni migliori di Schlein e Bonaccini. Il riequilibrio dei rapporti di forza locali, a vario livello amministrativo, è nel Pd molto più difficile e rischioso che nel centrodestra in genere, o fra alcune delle sue componenti in particolare.

Vincenzo De Luca e Giorgia Meloni

  Non dinentichiamo che ad avvertire e temere il soverchiante peso degli amministratori fu a suo tempo nel Pds-ex Pci Massimo D’Alema liquidando come “cacicchi” i sindaci. Rispetto ai quali i governatori, o come altro preferiscono definirli le parrucche costituzionali, sono diventati ancora più ingombranti. E anche villani, come il presidente della Campania Vincenzo De Luca dimostra ogni volta che parla, poco importa se di avversari o alleati. La Meloni sta ancora aspettando le scuse per la “stronza” neppure tanto sussurrata nei corridoi della Camera da De Luca, appunto, sceso a Roma per guidare la rivolta contro le autonomie regionali differenziate. Che peraltro furono istituite dalla stessa sinistra con una riforma costituzionale approvata a suo tempo nella vana illusione di scongiurare il ritorno di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi all’alleanza interrottasi alla fine del 1994 su sollecitazioni dell’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Che salutava Bossi al Quirinale, ogni volta che ne attraversava il portone, come un liberatore. 

         Capisco il timore espresso qui da Daniele Capezzone di qualche fraintendimento nelle votazioni sarde di ciò che è accaduto in commissione al Senato sul terzo mandato, con una coalizione di governo spaccata e un’opposizione apparentemente unita. Ma penso di conoscere gli elettori sardi della mia terra, dopo quella di nascita e di adozione professionale, abbastanza bene per non fasciarmi la testa prima di essermela rotta. No. Questa volta, ripeto, Salvini ha giocato bene la sua partita.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 25 febbraio

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