Lo stato abbastanza penoso dell’informazione in Italia, specie quella stampata

   Poche righe -comunque il meno possibile- per riferirvi dello stato in cui si trova l’informazione in Italia, almeno quella stampata su giornali che non a caso vendono ormai così poco che le edicole chiudono. Anzi, sono abbandonate dai titolari che non hanno neppure i soldi per rimuoverle. O, se rimangono aperte, chiedono sussidi al governo di turno, compreso quello in carica che sembra orientato a soddisfarle in qualche modo. Magari, solo per finanziarne la demolizione.

L’apertura di Repubblicaieri

         Non più tardi di ieri il secondo o terzo giornale italiano per cosiddetta diffusione -primo per presunzione di fornire notizie esclusive e di qualità- titolava su tutta la prima pagina che l’Italia fosse “sotto esame” dell’Ue con un nugolo di ispettori inviati dappertutto, anche nel Ministero della Giustizia e dintorni. Sto scrivendo naturalmente della Repubblica, diretta da Maurizio Molinari e posseduta per ora soprattutto dal nipote più noto del notissimo ma compianto Gianni Agnelli, “l’avvocato” che contava ai suoi tempi più del presidente di turno del Consiglio e forse persino del presidente della Repubblica: quella vera, non di carta.

La prima pagina di Repubblica oggi

         L’Unione Europea ha smentito. Ma di questa smentita sulla prima pagina della Repubblica di oggi non si trova un titolo, un titoletto, un rigo. Niente. L’attenzione si è spostata altrove. Sulla “marcia della destra” comtro la Rai per conquistarne tutti i piani e gli scantinati, reali o metaforici che siano. A cominciare naturalmente dal “cavallo morente” che presidia la sede nazionale, a Roma, con preveggenza dello scultore che aveva immaginato il destino dell’azienda.

Dal Giornale

         Diversamente da Repubblica, la smentita europea è stata raccolta in prima pagina, con notevole evidenza, dal Giornale che fu di Indro Montanelli, poi della famiglia Berlusconi e ora soprattutto della famiglia Angelucci

Da Libero

         Meno evidente ma ben visibile è stata la smentita data anche da Libero, altro giornale della famiglia Angelucci. Silenzio invece, salvo sviste personali, sul Tempo di Roma, della stessa catena editoriale.

         E tutti gli altri giornali, a cominciare dal maggiore, che è il Corriere della Sera.? Zero titoli  o righe in prina pagina anche loro, non so se più per rispetto dell’autoblasonata Repubblica o per parare il buco- come lo chiamiamo noi giornalisti- che pensavano di avere preso pur ingiustamente il giorno prima. Povera stampa, povera informazione, povero mestiere per chi lo pratica da quando aveva ancora i calzoni corti.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il feeling tutto politico tra Ettore Prandini e Giorgia Meloni

Titolo del Dubbio

   La partecipazione alla vertenza dei trattori, diciamo così, dei coltivatori diretti -fondati nel 1944 da Paolo Bonomi come associazione sostanzialmente fiancheggiatrice della Dc nata due anni prima, e ora guidati in un secondo mandato di presidente da Ettore Prandini, figlio del compianto ec ministro democristiano Gianni Prandini- ha contribuito ad accreditare ulteriormente l’impressione che ormai quella che fu l’area elettorale scudocrociata si sa attestata a dsstra. Con ciò che rimane della vecchia generazione e con le nuove.

Ettore Prandini

         Il giovane Ettore Prandini, 51 anni e mezzo, è spesso associato nelle cronache politiche direttamente a Giorgia Meloni. Che non gli ha lesinato in pubblico occasioni di simpatia e condivisione, come prima avevano fatto esponenti della Lega. Della Meloni e del suo partito egli è stato indicato, fra l’altro, come un possibile candidato al Parlamento europeo. Ancor prima è stato avvertito come sponsor del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, ancor più della cognata premier. Tutte cose che il presidente dei coltivatori diretti liquida dicendo che si sente  e si vede “candidato a tutto” ma la sua scelta è stata sempre quella di fare quello che sta facendo. E che gli piace molto.

Gianni Prandini

         La partecipazione alle cronache politiche anche come erede del padre -che fu, ricordiamolo, un grande ministro elogiato a sinistra dal pur esigentissimo Giorgio Bocca per avere saputo restituire la normalità al porto di Genova dominato dai “camalli” come se ne fossero i padroni- ha già procurato a Ettore Prandini qualche cattiveria, oltre che inesattezza, di troppo sul piano familiare.

Guido Bodrato

         Esauritesi ormai le vicende giudiziarie del padre ancora in vita con l’assoluzione piena nei processi della cosiddetta Tangentopoli subiti come ex ministro dei rischiosissimi lavori pubblici, Ettore ha visto il padre associato domenica  sul Corriere della Sera da Roberto Gressi alla “banda dei quattro” lamentata negli anni Ottanta da Guido Bodrato, in compagnia col colllega di partito Crino Pomicino, con il liberale Francesco De Lorenzo e col socialista Carnelo Conte.

Benigno Zaccagnini

         In verità, alquano informato -credo- di quella che fu la storia complessa della Dc, io di bande dei quattro ne ricordo una sola, risalente al 1976, quando attorno a un  governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti, replicato nel 1978, fu assicurata una maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale” comprensiva anche del Pci di Enrico Berlinguer. I quattro erano lo stesso Bodrato Corrado Belci, Umberto Cavina e Giuseppe Pisanu, stretti collaboratori del segretario del partito Benigno Zaccagnini. E quella fu chiamata “banda” per paragonarla in qualche modo ad un’altra appena sgominata in Cina perché composta da comunisti troppo radicali nella esecuzione della rivoluzione “culturale” voluta da Mao.  

         Anche nella gestione della già citata “solidarietà nazionale”, nell’ambito della quale il rapporto col Pci prevaleva su tutti gli altri, ci fu tra il malumore dello stesso presidente del partito Aldo Moro, destinato a pagare con la vita la sua politica delle aperture, un certo radicalismo. Che voleva quel passaggio politico il più lungo e/o compromettente possibile un po’ sopravvalutando le capacità di evoluzione del Pci, alla fine ritiratosi spontaneamente dalla maggioranza quando maturò il problema del riarmo missilistico della Nato, e un po’ apprezzando i vantaggi di potere derivanti da un governo monocolore, cioè interamente democristiano. Cui sarebero seguiti, col ripristino della normalità, cioè col ritorno del Psi all’autonomia dal Pci e all’alleanxa con la Dc., governi di meno comode coalizioni.

   Prandini padre era tra quelli contrari alla “banda dei quattro“ democristiani radicali della solidarietà nazionale e favorevole, soprattutto con l’amico Arnaldo Forlani e Carlo Donat-Cattin, al più rapido ritorno ai governi di coalizione con i tradizionali alleati dello scudo crociato: dal Pli al Psi, in varie edizioni del cosiddetto pentapartito, sintesi delle esperienze di centro e di centrosinistra dei decenni precedenti. Chissà quante volte Ettore Prandini, ancora adolescente, avrà sentito parlare e parlato di queste cose a casa sua col papà e i suoi ospiti.

Pubblicato sul Dubbio

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