Quanta strada sono riuscite a fare le mucche nella politica italiana

Pier Luigi Bersani

            Pur senza le ruote e i motori dei trattori, semplicemente muovendosi nella loro imponenza sulle loro zampe, ne hanno fatta di strada le mucche…. nella politica italiana. La più famosa rimane quella avvertita, lamentata, denunciata e quant’altro dall’immaginifico Pier Luigi Bersani nella sede del Pd che lui ormai non dirigeva più, avendo perso contemporaneamente la segreteria e l’incarico di presidente del Consiglio, anzi il “preincarico” precisato dall’allora capo dello Stato ed ex compagno di partito Giorgio Napolitano. Egli non era riuscito dopo le elezioni politiche del 2013 –“non vinte, precisò, per l’inatteso, primo successo dei grillini- né a formare il famoso “governo minoritario e di combattimento” scommettendo su una successiva benevolenza del Movimento 5 Stelle, né a far eleggere al Quirinale i due candidati del Pd messi in pista, uno dopo l’altro: il compianto Franco Marini e Romano Prodi, ancor vivo e memore di quella disavventura ,che lo sorprese peraltro nella lontana Cina o dintorni.

         La mucca immaginata dall’ormai ex segretario del Pd doveva intendersi come  la destra che cresceva nel paese senza che i dirigenti del Nazareno se ne rendessero conto. Valutazione, quella di Bersani, che poi si è rivelata giusta, visto il successo di Giorgia Meloni, dei suoi “fratelli d’Italia” e della coalizione di centrodestra, anzi di destra-centro, conseguito nelle elezioni politiche, e leggermente anticipate, del 2022.

La vignetta del Corriere della Sera

         Un’altra mucca è stata immaginata dal vignettista Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera di oggi al festival di Sanremo, con tanto di microfono stesole da Amadeus sul palco a favore dei lavoratori della terra in rivolta: non si sa se più contro l’Unione Europea o contro il governo nazionale. Dove il ministro dell’Agricoltura è peraltro il cognato della premier. E si sa quanto pericoloso, a dir poco, sia in Italia essere cognato di chi “dà le carte”, come usa dire la stessa Meloni.

Giuseppe Conte

         Ma un’altra mucca, persino con i suoi vasti e puzzolenti escrementi, permettetemi di immaginarla -con la stessa licenza presasi a suo tempo da Bersani pensando alla sede del proprio partito- nell’aula di Montecitorio, Dove ieri si è formalizzata la fine del Giurì d’onore, proposta come la sua costituzione nelle scorse settimane, dall’ex premier Giuseppe Conte. Che si era ritenuto offeso dalla Meloni come responsabile “nelle tenebre” di una situazione politica incerta, a capo del suo secondo governo, dell’adesione  dell’Italia  al trattato del Mes,  Poi bocciato dallo stesso Conte, una volta sui banchi dell’opposizione, al pari di buona parte della maggioranza attuale,  Il Giurì è diventato di un “onore liquefatto” – ha lamentato il presidente Giorgio Mulè- perché stava per emettere un verdetto contro Conte, e quindi a favore della Meloni.

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Quando Maria Fida Moro superò l’esame di giornalista professionista

Titolo di Libero

    Senza voler fare torto a nessuno della famiglia del compianto Aldo Moro, la figlia primogenita Maria Fida, appena morta a 77 anni, fu quella che visse più tumultuosamente la terribile vicenda del padre, rapito il 16 marzo 1978 dalle brigate rosse, a poca distanza da casa fra il sangue della scorta decimata in via Fani, e ucciso pure lui dopo 55 giorni di penosa prigjonia. E di drammatica impotenza e inefficienza dello Stato, a dir poco, non mancando francamente elementi, emersi anche dalle inchieste parlamentari condotte sulla tragedia, per sospettare che i terroristi avessero trovato connivenze nello Stato sia nella preparazione del sequestro, sia nella sua gestione. Connivenze sempre negate dai brigatisti ma di cui anche Maria Fida avvertì i segni protestando contro i buchi neri delle indagini.

   Maria Fida fu tra le più critiche all’interno della famiglia nei riguardi dell’allora ministro dell’Interno Cossiga, un cui uovo pasquale mandato al figlio, il piccolo Luca, durante la prigionia del nonno, la mamma  fece rotolare per le scale di casa strappandolo dalle mani degli agenti di Polizia che lo avevano portato.

Maria Fida Moro col figlio Luca

         Luca è proprio quel nipotino che Moro nella straziante lettera di addio inviata alla moglie, quando si accorse che stava per essere ucciso, immaginava di accarezzare i riccioli. E sperava di rivedere lassù perché -scrisse- “sarebbe bello che ci fosse luce”. Quel nipotino che era felice di ospitare ogni tanto nella sua casa di via di Forte Trionfale, sempre a Roma, a poca distanza peraltro dalla mia.

         Maria Fida quando il padre era presidente del Consiglio fece praticantato di giornalismo nella redazione romana della Gazzetta del Mezzogiorno, Al termine le toccò naturalmente l’esame di abilitazione. Il padre non era più a Palazzo Chigi.  Ebbi tuttavia una telefonata davvero inusuale dal suo capo ufficio stampa Corrado Guerzoni. Che, precisando di no nfarlo a nome di Moro , mi chiese d segnalare Maria Fida ad Alberto Giovannini, che faceva parte della commissione d’esame ed era il direttore del quotidiano per il qauale io allora lavoravo: Il Giornale d’Italia. Dove, peraltro, in dissenso da chi seguiva con me la politica interna, il compianto Franco Cangini, sostenevo la candidatura di Moro al Quirinale, al posto di Amintore Fanfani, l’altro “cavallo di razza” della Dc, come li chiamava Carlo Donat-Cattin. E convinsi persino, in una intervista, il leader liberale Giovanni Malagodi ad esprimersi a favore appunto di Moro, una volta fallita per i dissensi interni al partito la candidatura ufficiale dell’allora presidente del Senato.

   Ne derivò quasi u incidente nel Transatlantico di Montecitorio con un anziano e autorevole collega, Enrico Mattei, che mi accusò di avere manipolato Malagodi. Figuriamoci: uno che quando si lasciava intervistare dettava anche le virgole e i punti delle sue frasi. Il fatto è che Malagodi non condivideva la rappresentazione di Moro come di un uomo a disposizione -come dicevano gli avversari anche interni alla Dc- di un partito comunista che aveva fatto sapere di essere disposto a votarlo al Quirinale, “per quanto -disse Giancarlo Pajetta- sia stato l’unico a non avercelo chiesto”.

         Ma torniamo agli esami di Maria Fida. Felice di occuparsene, Giovannini mi informò dopo le prove che la figlia di Moro era “brava davvero” e mi chiese di far sapere all’allora ministro degli Esteri che l’avrebbe assunta volentieri al giornale che dirigeva. Riferii naturalmente a Guerzoni, che un quarto d’ora mi richiamò incaricandomi di riferire a Giovannini che Mari Fida sarebbe stata libera di accettare ma senza il conseno del padre,  Infatti non se ne fece nulla.

         Evidentemente il Giornale d’Italia ea troppo a destra per Moro, anche se ne aveva sostenuto l’elezione al Quirinale, Ma la figlia -ironia della sorte- sarebbe finita molto più a destra.e non solo, di quanto il padre avesse potuto immaginare.

Maria Fida Moro con Giulio Andreotti

         Eletta senatrice nel 1987 per la Dc, Maria Fida ne lasciò il gruppo per passare addirittura a Rifondazione Conunista. E infine, non più parlamentare, all’Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. Dove neppure riuscì a restare a lungo, visto che Lorenzo Cesa ne ha appena ricordato la figura lsciando intendere di averla in qualche modo riportata a casa nella sua formazione, che fa parte della diaspora democristiana.

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