Forza Italia, ilpartito di Silvio Berlusconi che ha celebrato da poco trent’anni, dei quali sette mesi all’incirca vissuti senza il fondatore, ha avuto sin dall’’inizio il suo simbolo e il suo inno. Non mi pare che abbia mai adottato un fiore. Da ieri ne ha uno, regalato al suo segretario Antonio Tajani da Stefania Craxi, in una teca come quella che il padre Bettino offriva agli amici cui teneva ed era il simbolo del suo partito: il garofano rosso. Col quale egli aveva voluto sostituire la falce e il martello sul libro di Marx che ne aveva caratterizzato la storia dopo la sostanziale, disastrosa sovietizzazione del socialismo tentata dalla rivoluzione d’ottobre in Russia.
Il segretario forzista -o azzurro, come Berlusconi preferiva che fossero chiamati gli iscritti al suo partito, se bisognava dar loro un colore- ha gradto il dono ricordando con ammirazione il padre di Stefania, da tempo senatrice di Forza Italia e ora anche presidente della commissione Difesa ed Esteri di Palazzo Madama. Un’ammirazione compatibile con l’origine dichiaratamente liberale di Tajani lungo il filone del liberalsocialismo in cui lo stesso Craxi si riconosceva, fedele alla lezione di Carlo Rosselli, ucciso dai fascisti in Francia nel 1937.
Proprio da liberalscialista Taiani aveva scritto nel 1982 una empatica biografia di Lelio Lagorio, amicissimo di Craxi, chiamato “Granduca” per il suo forte seguito nella sua Toscana, ministro della Difesa negli anni della partecipazione italiana al riarmo missilistico della Nato in Europa. Che e avrebbe portato al collasso del comunismo senza spargere una goccia di sangue.
Dal Fatto Quotidiano
L’affollato e festoso convegno a Rho, vicino Milano, in cui si è voluta sancire, in vista del congresso di fine mese e delle elezioni europee e regionali e amministrative di giugno, l’ormai consolidata identificazione di gran parte dei socialisti di tendenza e fede craxiana nel partito fondato da Silvio Berlusconi, è stato declassato dal solito Fatto Quotidiano in una “seduta spiritica”, organizzata per chiedere aiuto ai due leader scomparsi nelle contingenze politiche di questo 2024. Che vede obiettivamente Forza Italia insidiata nelle urne dagli alleati di centrodestra, Gorgia Meloni e Matteo Salvini, e da quel che pur di scompoasto si muove al centro.
Titolo del Giornale
Matteo Renzi ha appena dato alle stampe un nuovo libro- “Palla al centro”- di cui ha chiesto e ottenuto dal generoso Giornale ora solo parzialmente della famiglia Berlusconi un’anticipazione per proporsi, anzi riproporsi come quello che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto sottrarre al Pd considerandolo un anticomunista, anche se incontrato la prima volta in un abito di velluto “da comunista”, gli disse nel palazzo della provincia di Firenze. Dubito tuttavia che il battutismo dell’ex premier, ex sindaco di Firenze e ancora altro, possa procuragli chissà quale pesca in acque forziste da qui a giugno.
A Mario Draghi, a 71 anni compiuti da pochi mesi, non riuscì molto bene la disponibilità offerta alla fine del 2021 ai partiti che ne componevano il governo e la maggioranza a fare “il nonno” degli italiani, oltre che il loro momentaneo presidente del Consiglio. Tutti vi videro, a torto o a ragione, la voglia di succedere al Quirinale a Sergio Mattarella. Che stava concludendo il suo mandato rifiutando pubblicamente, tra piazze e teatri, tutte le sollecitazioni a farsi rieleggere.
Si scatenò una gara fra quanti, o aspirandovi in proprio o non volendo saperne di lui addirittura come capo dello Stato, dopo averlo subìto a Palazzo Chigi, si misero a disseminare di trappole la reale o immaginaria corsa di Draghi al Quirinale: da Silvio Berlusconi, che si divideva fra le sue ville di Arcore e di Rona, sull’Appia Antica, e Giuseppe Conte fra le strade e i vicoli attorno alla Camera e al Senato.
Mario Draghi
Finì notoriamente con la conferma di Mattarella, dopo la solita processione reverenziale al Quirinale, come già accaduto con Giorgio Napolitano. E seguì l’indebolimento di Draghi al governo. Che imboccò la discesa verso la crisi e le elezioni anticipate fortunatamente risolutrici di una crisi della quale avevano perso i fili anche quelli che l’avevano programmata.
Romano Prodi
A Romano Prodi, che in agosto compirà 85 anni, è riuscita un pò meglio, almeno sinora, il no alla funzione di “padre” del Pd, attribuitagli generosamente sul Corriere della Sera da Antonio Polito, a vantaggio del “nonno”. Così egli ha preferito sentirsi e chiamarsi, sempre sul Corriere, in una intervista fattagli a Bologna da Marco Ascione e pubblicata martedì scorso 30 gennaio.. Un nonno “che può somministrare affetto, non influenza e comando”, ha precisato il professore non so francamente se più deluso o preoccupato dal mancato ascolto dei suoi consigli da parte della segretaria del partito Elly Schlein. Come quello di non lasciarsi tentare dal candidarsi per finta alle elezoni europee. O di avere meno riguardi, diciamo così, per Giuseppe Conte, che non ha ancora deciso con chi stare davvero, ha avvertito lo stesso Prodi. Che d’altronde aveva sì aupicato di recente che la Schelly potesse “federare” alcuni oppositori purchè -aveva ammonito- costoro fossero stati d’accordo.
Beppe Grillo
L’unico obiettivo elettorale di Conte avvertibile chiaramente è quello di sorpassare il Pd per assumere con la forza, visto che l’uomo non ci riesce con l’astuzia, la guida dell’opposizione. Che equivarrebbe ad un’opa sul Pd simile a quella tentata da Beppe Grillo in persona nel lontano 2009 iscrivendosi d’estate ad una sezione di Arzachena per scalare la segreteria nazionale appena lasciata, a sorpresa, da Walter Veltroni. Rifiutato in partenza su ordine da Roma, , il comico corse in piazza a Bologna a prenotare il suo partito personale e lanciarlo nello spazio, farcito di parolacce e di stelle.
Elly Schlein
In pochi giorni dalla sua intervista al Corriere Prodi ha visto la sua Schlein –“sua” perché emersa politicamente nel 2013 come aspirante vendicatrice della mancata elezione del professore al Quirinale- finalmente accorgersi delle troppe ambiguità di Conte. E contestargli pubblicamente la lotta che preferisce fare più al Pd che al governo di centrodestra.
La Conferenza ItaliAfrica
Ma soprattutto, sempre con la sua intervista del 30 gennaio, Prodi ha voluto clamorosamente contraddire la versione quanto meno minimalistica data dal Pd alla Conferenza ItaliAfrica voluta a Roma dal governo. Egli ne ha riconosciuto la sostanziale continuità con la politica verso quel continente perseguita dall’Italia fra prima e seconda Repubblica. Una politica su cui Meloni, decisa a non fare più dell’Africa solo o prevalemtemente un continente di esportazione di migranti, ha avuto l’astuzia di appendere come un quadro il famoso “piano Mattei”, dal nome del fondatore e a lungo presidente dell’Eni: uomo della sinistra democristiana che fece vedere i sorci verdi a tutti quelli che l’Africa volevano solo sfruttarla, come altre terre ricche di fonti energetiche. Un uomo ancora, Mattei, protagonista di una lotta partigiana la cui storia non mi risulta abbia creato alla Meloni la paura, la repulsione, il fastidio e quant’altro le viene attribuito dagli avversari un giorno si e l’altro pure quando si parla del passato e lo si proietta sul presente e sull’avvenire.
Meloni e von der Leyen
“La scelta di guardare all’Africa non è solo giusta, ma anche necessaria”, ha premesso Prodi, Certo, serve “un progetto più ampio portato avanti dall’Europa intera”, perché “da sola l’Italia può fare ben poco per fronteggiare la forte penetrazione sistemica, in Africa, della Cina in campo economico e della Russia in campo politico, non so quanto in accordo fra loro”. Ma l’Europa non era certo assente alla Conferenza voluta dalla Meloni e svoltasi al Senato. L’Unione Europea c’era con i suoi vertici istituzionali, a cominciare dalla presidente della Commissione Ursula von ver Leyen. La cui “attenzione” per l’Italia guadagnatasi dalla Meloni -ha detto Prodi dando un’altra botta a chi nel Pd suona tutt’altra musica- è straordnariamente intensa e profonda”. Tanto intensa e profonda che “la premier italiana -ha continuato il professore- sta diventando una sorta di polizza di assicurazione per von der Leyen in caso di incidente elettorale” a giugno.
E’ avvertibile in tutte queste parole e ragionamenti, passati un pò inosservati nei giorni scorsi, un filo di continuità non solo fra il Prodi di Palazzo Chigi e di Bruxelles e la Meloni ma anche fra questa e tutta -ripeto- la politica sempre condotta dall’Italia repubblicana verso l’Africa: oltre a Mattei, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Giulio Andreotti e il socialista Bettino Craxi.
Sergio Mattarella
Non è d’altronde solo per un capriccio elettorale che il partito della Meloni ha assunto quelle dimensioni della Dc che furono per un po’, nella cosiddetta seconda Repubblica , della Forza Italia di Berlusconi. E che il Pd della Schlein può ormai vedere solo nella cartolina di Trieste di cadorniana memoria. Ma molti anziché vedere questa specie di luna, comprensiva del vetice europeo appena concluso con un compattamento dovuto anche all’azione della premier italiana, preferiscono fermarsi al dito puntato contro di essa. Che è il dito delle polemiche sui saluti romani di via Acca Larentia e simili, o sul premierato anticamera di una nuova edizione del fascismo, col povero Sergio Mattarella trascinato in catene nei sotterranei del Quirinale, peggio di Ilaria Salis nella cella del carcere ungherese prima del sopralluogo del procuratore generale che l’ha fatta ripulire, credo, per le telecamere.