Le opposizioni in seduta spiritica verso le elezioni di giugno

    Uno dà soltanto un’occhiata alla prima pagina del Corriere della Sera e si illude o teme, secondo le preferenze politiche, che all’improvviso la maggioranza sia arrivata al capolinea sulla guerra in Ucraina e sia risorto in Italia il bicameralismo dalle ceneri cui era stato ridotto anche dall’ultima legge di bilancio, approvata dal Senato e ratificata a Montecitorio in poche ore con una blindatura di voti di fiducia.

         “Quell’attrazione irresistibile tra Salvini e Conte”, racconta appunto il Corriere riferendo delle “mosse degli ex alleati” sempre più stanchi o contrari, rispettivamente,  agli aiuti all’Ucraina e smaniosi di contribuire ad uscirne per via diplomatica con un ordine del giorno competitivo, diciamo così. con gli appelli e persino le iniziative del Papa e del suo Nunzio speciale.

         Che sorpasso di Conte sulla Schlein al Senato, veniva da dire,  nello stesso giorno in cui alla Camera il primo era stato costretto ad unirsi  alla seconda applaudendo uno scontro con la Meloni sulla sanità. Uno scontro da quale la premier era fisicamente uscita schiacciata sullo schienale della sua postazione di governo con gli occhi sbarrati verso il soffitto e l’ìepiteto di “regina dell’austerità” affibbiatale dalla segretaria del Pd. Un anticipo poco promettente, peraltro, del  famoso duello televisivo diretto fra la leader effettiva della maggioranza e quella potenziale o aspirante delle opposizioni.

         Poi si va a leggere bene il racconto della seduta al Senato e si scopre che tanto Salvini e Conte non ci sono entrati fisicamente. Si sarebbero mossi dietro le quinte dei loro capigruppo: l’uno, il leghista Massimiliano Romeo, autore del già ricordato ordine del giorno guadagnatosi subito la disponibilità dell’altro, il grillino Stefano Patuanelli, a votarlo per contraddire il rinnovo degli aiuti all’Ucraina approvato dalla maggioranza. Si scopre inoltre che il capogruppo leghista aveva tenuto a sottolineare il carattere pur paradossalmente “personale” del suo documento, prontamente modificato su richiesta del governo per togliere tutto ciiò che lo rendeva votabile dai grillini e infine appovato dalla maggioranza con gli stessi numeri -ma proprio gli stessi- raccolti il giorno prima dalla tanto contestata legge sulle autonomie differenziate, o “spacca Italia” nella rappresentazione opppsitoria.

         “Conte e Salvini -ha raccontato il retroscenista principe del Coriere, Francesco Verderami- in via ufficiale si fanno notare poco o niente insieme, come si conviene per certe liaisons dangereuses. Ma in via delle elezioni europee usciranno ancora allo scoperto”, cioè al semiscoperto, “e  fino a giungo andrà così, avvisa un cultore di manovra politiche come Franceschini. La campagna elettorale elettorale sarà lui e lui contro le altre”. Cioè i fantasmi contro le persone reali. Più che una campagna elettorale, una seduta spiritica. La Meloni si può pure ricompore e distogliere gli occhi dal lucernaio della Camera.

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Le opposizioni in diplopia: sparano sulle autonomie ma vedono il premierato

         Si chiama diplopia il disturbo che ha afflitto le opposizioni al Senato protestando contro la minaccia all’unità nazionale costituita, secondo loro, dalla legge sulle autonomie differenziate delle regioni ordinarie approvata con 110 voti favorevoli, del centrodestra, 64 contrari e 3 astensioni. Una legge di fatto prodotta, prima ancora che dall’attuale maggioranza, da quella di segno opposto nel 2001 modificando il titolo quinto della Costituzione per guadagnarsi a fine legislatura il favore della Lega di Umberto Bossi. Che aveva rotto l’alleanza di centrodestra ma che Silvio Berlusconi, orgogliosamente concavo e convesso secondo le opportunità, diversamente dall’alleato Gianfranco Fini, non disperava di recuperare

         Il piano di cattura dei leghisti ancora una volta, come già a cavallo fra il 1993 e il 1994, riuscì più a Berlusconi che ai suoi avversari. Il centrodestra tornò al governo nello stesso 2001 ma gli effetti della riforma costituzionale rimasero intasando la Corte Costituzionale con ricorsi. E ora il destra-centro sta cercando di rimediarvi discplinando appunto le autonomie differenziate con una legge ordinaria contestata dalle opposizioni cantando in aula l’inno nazionale. “Spacca Italia” la legge che passa ora alla Camera per un voto definitivo che si vorrebbe in tempo per le elezioni europee di giugno e “fratelli di mezz’Italia” quelli di Giorgia Meloni, che si considerano invece orgogliosamente tutti interi.

         La diplopia accennata all’inizio sta nel fatto che le opposizioni vedono in quella appena approvata al Senato anche un’altra legge, ancora più impegnativa, non ordinaria ma di riforma della Costituzione, che è destinata a seguirla, sia pure in un percorso più lungo, per quello che la segretaria del Pd in persona Elly Schlein ha definito “odioso baratto”. E la riforma del cosiddetto Premierato, peraltro in una versione ancora più rigida di quella proposta in origine dal governo: l’elezione diretta del presidente del Consiglio alla cui caduta in Parlamento non seguirebbe altro che lo scioglimento delle Camere- Un obbligo per il Capo dello Stato e non più un’opzione evitabile, secondo la prima formulazione della proposta del governo, con la nomina di un altro governo dello stesso programma e della stessa maggioranza ma guidato da un altro parlamentare dello stesso schieramento  ancora più forte del precedente perché provvisto, lui sì, di quello che una volta, nella cosiddetta prima Repubblica, si chiamava “il decreto in tasca dello scioglimento delle Camere”. Come il Fanfani del 1987 scomodato dalla Presidenza del Senato con decisione combinata di Francesco Cossiga al Quirinale e di Ciriaco De Mita a Piazza del Gesù per licenziare Craxi da Palazzo Chigi e rimandare gli italiani alle urne con un governo che aveva sarcasticamente persino un ministro per i rapporti col Parlamento, da sciogliere.

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Meloni alla guerra con Repubblica come ai tempi di Berlusconi e di Craxi

         Come ai tempi non solo di Silvio Berlusconi, a 30 anni dal suo esordio politico e a meno di uno dalla morte, ma anche, o forse ancor più di Bettino Craxi, a 24 anni dalla morte e a 41 dal suo approdo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dove rimase per quasi quattro, interminabili anni agli occhi e alle viscere dei suoi avversari, è guerra ad alta intensità per fortuna soltanto politica fra la Repubblica di carta, che non è quella naturalmente del Quirinale, e Palazzo Chigi. La Repubblica che, allora diretta da Eugenio Scalfari e posseduta da Carlo De Benedetti, Ugo Intini definiva anche, per conto di Craxi, “il partito irresponsabile”. Così inteso perché non rispondeva a nessun elettore ma riusciva a portarsi appresso, nelle sue offensive, partiti piccoli e grandi, a cominciare dal Pci addirittura del mitico Enrico Berlinguer.

         Ospite di un’altra Repubblica ancora, la quarta di una rete televisiva dei Berlusconi, Gorgia Meloni è sbottata contro quella di carta che l’aveva accusata qualche giorno fa di avere messo “l’Italia in vendita”,  rinfacciando all’editore nipote del mitico avvocato Gianni Agnelli di avere lui sì  venduto davvero la Fiat ai francesi, per cui il maggiore dei suoi giornali non è il pulpito adatto a impartire “lezioni di italianità”. In un tentativo di sobrietà tradottosi in reticenza il direttore Maurizio Molinari, evitando poco coraggiosamente di riportare esplicitamente nella sintesi della prima pagina la faccenda della francesizzazione della Fiat, ha contestato alla premier “carenza di rispetto e comprensione per la libertà di informazione”, sotto il titolo “Chi ha paura di un giornale libero”. Che non potrebbe essere “delegittimato”, specie al livello politico e istituzionale della Meloni, “a causa della proprietà”. Come se questa avesse il sesso degli angeli.

         Solidale una volta tanto con la Repubblica già posseduta da Carlo De Benedetti, il nuovo giornale dell’ingegnere –Domani- deluso dei figli per la gestione delle sue eredità ha tentato di dare una mano a Molinari e al suo nuovo editore titolando contro una “Meloni senza freni”. Che, per tornare a Repubblica, oltre a “vendere” l’Italia la starebbe “spaccando” con la legge sulle autonomie differenziate il cui percorso parlamentare si integra con la riforma costituzionale per l’elezione diretta del premier.  

         La Meloni e alleati sarebbero senza freni naturalmente anche nelle nomine, a tutti i livelli, compresa quella a direttore adottata al Teatro di Roma per Luca De Fusco, inviso ad artisti le cui proteste sono state sostenute sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio anche per essere stato nel 2011 l’autore, in Rai, di un documentario riabilitativo di Bettino Craxi. Colpa evidentemente imperdonabile. Come quella di Giorgio Napolitano a 10  anni dalla morte del leader socialista scrivendo pubblicamente alla vedova per lamentare  la “severità senza uguali” riservata ad un uomo la cui storia politica non poteva essere schiacciata da quella giudiziaria.

L’impronta di Berlusconi sul Premierato proposto da Giorgia Meloni

   Furono contemporanei 30 anni fa, il 18 gennaio 1994, lo scioglimento di fatto della Democrazia Cristiana, sostituita dal segretario Mino Martinazzoli con una riedizione del vecchio Partito Popolare di don Luigi Sturzo, e l’attivazione di Forza    Italia: il partito inventato da Silvio Berlusconi  per pendere il posto, i voti e quant’altro anche dello scudo crociato. Non gli bastava l’aiuto fornito a Pier Ferdinando Casini e a Clemente Mastella a creare una specie di Dc bonsai. Col suo movimento Berlusconi intendeva prendersi direttamente una buona parte dell’eredità democristiana, come anche del Psi craxiano e di altri partecipi del famoso “pentapartito”, nel quale erano confluite  dagli anni Ottanta le esperienze del centrismo e del centrosinistra.

         Otto giorni dopo l’attivazione di Forza Italia, in vista del voto di marzo per il rinnovo delle Camere con la nuova legge elettorale a prevalente sistema maggioritario, Berlusconi diffuse il famoso messaggio televisivo di “amore” per l’Italia e di candidatura a guidarne il governo con una coalizione di centrodestra. Un messaggio che rivoluzionò nel vero senso della parola la comunicazione politica, spingendo concorrenti ad avversari del Cavaliere a imitarlo. E che l’allora operatore televisivo di Fininvest Roberto Gasparotti ha rievocato gustosamente in una intervista ieri a Repubblica con orgoglio appena scalfito dall’amarezza di non essere stato neppure invitato da Antonio Tajani alla festa rievocativa, in questa settimana, dei 30 anni di una Forza Italia ormai orfana del suo fondatore.

   In questi 30 anni il partito azzurro, come Berlusconi preferiva che venisse chiamato dai giornali non gradendo l’aggettivo “forzista” che gli veniva spesso assegnato, non è neppure paragonabile a quello originario. Intanto è ormi stabilmente ad una sola cifra, contro le due di una volta. E il centrodestra è diventato destra-centro con la premier Gorgia Meloni, che ha ereditato le due cifre appunto da Berlusconi, dopo che Matteo Salvini si era illuso con la sua Lega di averne preso il posto fra il 2018 e il 2019 nella trasferta, chiamiamola così, con i grillini pemessagli dallo stesso Berlusconi nel primo governo di Giuseppe Conte. E ciò un po’ nella speranza di logorare entrambi e un po’ per evitare elezioni anticipate, dalle quali il Quirinale era talmente tentato da avere prenotato Carlo Cottarelli per fargliele gestire. Esse avrebbero potuto andare ancora peggio per Forza Italia.

    Di quel messaggio televisivo di Berlusconi, registrato  in uno studio televisivo ricavato nel cantiere di ristrutturazione della villa di Macherio destinata alla moglie Veronica, il buon Gasparotti ha naturalmente ricordato la calza fatta infilare nella telecamera dallo stesso Berlusconi “per rendere più morbida l’immagine, più patinata, creando l’effetto skin tone”. “Poteva venire in mente solo a lui una simile genialata”, ha ammesso il tecnico, anche a costo di deprezzarsi un po’. Ma riconoscendo a mezza voce che forse i nove minuti voluti dal Cavaliere furono eccessivi. Neppure il suo Tg5, diretto da Enrico Mentana, volle trasmetterli per intero, diversamente da Emilio Fede naturalmente nel Tg4.

    Poi Berlusconi, vinte le elezioni e approdato a Balazzo Chigi nonostante le resistenze dell’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, che gli concesse l’incarico  molto malvolentieri, cercando con una lettera inusuale di tracciargli il programma di governo, si portò appresso Gasparotti come consulente e poi anche “dirigente.”.

   Fedele e ancora devoto, ma politicamente poco accorto preferendo la sincerità all’astuzia tattica, Gasparotti ha respinto o smentito, come preferite, il tentativo offertogli generosamente dall’intervistatore di ridurre le responsabilità di un Berlusconi troppo osteggiato e “divisivo” per potere realizzare interamente quello che si era proposto e promesso agli italiani. Quel “divisivo” -ha detto Gasparotti- “era lui che l’aveva voluto, scatenando il qua o il di là”.  “Ma è la democrazia”, si è infine consolato.

   In effetti, Berlusconi visse n tutto il suo carattere paradossale nel quasi trentennio di esperienza politica il contrasto fra il desiderio di piacere a tutti e l’inevitabile animosità di una politica fortemente bipolare come quella da lui voluta scendendo in campo a capo di una coalizione contro l’altra. E già prima che lo scontro fosse avvelenato -in tragica continuità con la fase finale della cosiddetta prima Repubblica- dalle interferenze della magistratura nella lotta politica.

    Tuttavia il lascito maggiore di Berlusconi a chi gli è successo alla guida del centrodestra non è più o non tanto, come molti ritengono anche tra i forzisti che reclamano la riforma prioritaria della giustizia, il rapporto ancora patologico con la magistratura. E’ la realizzazione davvero di una democrazia in cui al corpo elettorale tocchi il compito non solo di rinnovare le Camere ma anche di esprimere consapevolmente una maggioranza e il suo conseguente governo. Ciò in un sistema rafforzato dall’elezione diretta del presidente del Consiglio, non dalla sola designazione del candidato col nome stampato sulle schede elettorali. Di questo lascito si è astutamente appropriata Meloni con la riforma del premierato che, sotto la vigilanza attiva del presidente Ignazio La Russa, è all’esame del Senato. Sarebbe il passaggio vero dalla seconda alla terza Repubblica, se non dalla prima alla seconda illusoriamente cominciata 30 anni fa.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 27 gennaio

La Meloni a trent’anni dall’esordio politico di Silvio Berlusconi

         Celebrati un po’ dappertutto, e giustamente, i 30 anni dalla chiusura della Dc disposta dal segretario Mino Martinazzoli “con un telegramma” -come a lungo Umberto Bossi gli rimproverò sarcasticamente,, anziché ringraziarlo per i voti che liberò  al Nord a vantaggio della sua Lega, e non del Partito Popolare riesumato dai libri di storia-  non potevano mancare all’appuntamento celebrativo i 30 anni anch’essi trascorsi da “quel video di Berlusconi che cambiò la politica”- titolo della Repubblica di oggi-  il 26 gennaio 1994. Video registrato nel cantiere di ristrutturazione di una villa a Macherio acquistata da qualche anno e diffuso, tra l’edizione integrale di nove minuti e versioni ridotte, dai telegiornali privati e pubblici. E rimasto famoso per quella calza “ammorbidente” infilata sulla telecamera dall’operatore Roberto Gasparotti, oltre che per l’incipit dell’Italia “Paese che amo”, dove “ho le mie radici”, disse il Cavaliere.   

         Fu “la fine -ha scritto Stefano Cappellini, sempre su Repubblica– di ogni mediazione giornalistica e politica. Praticamente ciò che 30 anni dopo hanno fatto e fanno tutti: il blog di Grillo, i tweet di Reni, le dirette facebook di Salvini, Giorgia Meloni che trasforma la seduta del Consiglio dei ministri in una puntata pilota di Casa Meloni e suona la campanellina a favore di telecamera, din don”. Tutto vero. Fu anche questo, prima ancora dei risultati elettorali di marzo e dell’arrivo a sorpresa di Berlusconi a Palazzo Chigi, l’ingresso nella cosiddetta seconda Repubblica. Da dove si è già tentato di uscire più volte, ancora con lo stesso Berlusconi in vita, ma si riuscirà probabilmente solo se la Meloni ce la farà a cambiare la Costituzione con l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Diretta davvero, con la sorte delle Camere legata alla sua sopravvivenza politica, e non solo con l’espediente, tante volte raggirato negli anni scorsi, di stampare sulle schede elettorali il nome del candidato a Palazzo Chigi accanto ai simboli dei partiti o delle loro coalizioni concorrenti ai seggi di Montecitorio e del Senato.

         Quell’espediente è stato in qualche modo tollerato in ogni elezione dal presidente di turno al Quirinale, in grado poi di mandare a Palazzo Chigi durante la legislatura, o addirittura sin dall’inizio, tutt’altre persone, sostenute in Parlamento da tutt’altre maggioranze. Ciò accadde, per esempio, subito dopo le elezioni del 2013 con la formazione del governo di cosiddette “larghe intese” di Enrico Letta, dopo che Pier Luigi Bersani da segretario del Pd aveva cercato di forzare la mano a Giorgio Napolitano, sottrattovisi, con la formazione di un governo “di minoranza e di combattimento” appeso agli umori grillini.

         L’elezione quasi diretta del presidente del Consiglio fu insomma un’incompiuta. La staffetta è passata, ora che Berlusconi non c’è più,  alla Meloni con quella che lei chiama “la madre di tutte le riforme”, ora in commissione  sotto la vigilanza del presidente del Senato Ignazio La Russa.

Ripreso da http://www.policymakermag.it 

Quel caos arbitrariamente attribuito al governo di Giorgia Meloni

         Giovanni Orsina, professore universitario di storia contemporanea, scrive oggi in prima pagina sulla Stampa: “Sono trent’anni che il sistema politico italiano si struttura intorno a una personalità dominante. Dal 1994 al 2011 è stato Berlusconi, dal 2014 al 2016 Renzi, nel 2018-2019 Salvini, adesso è Meloni. Nei periodi di interregno ha regnato il caos”.

         Probabilmente non ne sarà convinto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per non parlare del predecessore Giorgio Napolitano dall’al di là, convinti l’uno con Mario Draghi e l’altro con Mario Monti di avere cercato di risparmiare proprio il caos al Paese ricorrendo ai loro governi. Che nacquero dalla incapacità o impossibilità dei partiti di assicurare una soluzione ordinaria, diciamo così, alle loro crisi e dalla impraticabilità, avvertita al Quirinale, di un ricorso anticipato alle urne.

         E’ tuttavia degna di una riflessione, quanto meno, l’impressione scientifica di un esperto come il professore Orsina che questo periodo in cui è “doninante” Giorgia Meloni non debba o non possa essere catalogato in quello del caos. Che è invece sospettato o denunciato, in concorrenza fra di loro, dalla segretaria del Pd Elly Schlein, dall’ex premier grillino Giuseppe Conte, da Matteo Renzi, da Carlo Calenda e dall’unica e modestissima componente dichiaratamente di sinistra dello schieramento contrario al governo. “Questa destra” -come la Stampa ha voluto titolare l’analisi del suo editorialista- sarà pure “divisa” e “aggrappata a Giorgia”, ma non nel caos. Non a caso, del resto, la premier, e con lei  il Paese che rappresenta, gode di una certa credibilità all’estero: da Washington a Bruxelles, da Londra a Istanbul, dove è sbarcata ieri per colloqui e intese con Erdogan anche sul versante, importantissimo per l’Italia, dell’emigrazione diretta verso le nostre coste, confini meridionali dell’Europa, da paesi africani come la Libia. Dove la Turchia ha un certo peso in una situazione pur caotica.

         Su un giornale gemello dello Stampa come Il Secolo XIX il pur bravo Stefano Rolli ha voluto scherzare pesantemente nella sua vignetta sul lavoro della Meloni a Istanbul, attendendosi “cose curde” -cioè tragedie- da un “accordo con la Turchia per fermare i migranti”. Speriamo naturalmente di no, a meno che non si voglia preferire e praticare il masochismo.

   Dal carattere caotico dei periodi diversi da quelli “dominati”, secondo Orsina, da Berlusconi, Renzi e Salvini alleato -per poco più di un anno- con i grillini si può dissentire pensando ai passaggi straordinari già ricordati di Monti e di Draghi. Non certo per quello di Conte, soprattutto del suo secondo governo. Non a caso si è dovuto ricorrere ad un giurì d’onore alla Camera per stabilire se Conte, appunto, avesse nelle sue disponibilità la sottoscrizione del trattato europeo sul Mes che poi, una volta all’opposizione, egli ha contribuito a bocciare nella votazione parlamentare di ratifica.

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Elly Schlein rimpiange a Gubbio la buonanima di Silvio Berlusconi

         Non per improvvisazione -come si potrebbe sospettare per il ritardo col quale si è presentata ai deputati del Pd, scusandosi di avere voluto prima godersi un bel film al cinema sul disagio mentale, di cui sotto sotto soffre anche il suo partito- ma per un preciso calcolo politico Elly Schlein ha voluto usare il suo intervento a Gubbio per alzare ulteriormente il tono della polemica contro Giorgia Meloni. Che ha accusato di essere peggiore dello scomparso Silvio Berlusconi. O ha riconosciuto alla buonanima, in qualche modo rimpiangendolo dall’opposizione, di essersi rivelato migliore della premier arrivata al suo posto quando lui era ancora in vita. E non a caso, forse, aveva cercato di contenere.  

         Il vignettista del Foglio ha subito giocato con la nota vanità di Berlusconi facendolo inorgoglire fra le nuvole dell’al di là con una domanda che probabilmente il Cavaliere si sarà davvero posta tante volte in vita, anche ad una età e in condizioni di salute poco adatte: “Ma che farò io a ste donne?”. Pure la Schlein ha finito per cedere a una certa nostalgia, riconoscendogli di avere trattato con i suoi pur famosi editti dall’Italia e dall’estero chi in televisione si occupava di lui e del suo giro meglio  o meno peggio di quanto stiano facendo adesso la leeader della destra a Palazzo Chigi e i sottoposti dalle casematte loro assegnate.

         Saremmo ormai alla “capocrazia della premier” diagnosticata e raccontata così oggi da Massimo Giannini nell’editoriale di Repubblica: “Giorgia Meloni prosegue la sua marcia trionfale verso quei “pieni poteri” che l’avventato Uomo del Papoete invocò inutilmente cinque estati fa, e che ora l’astuta Donna della Garbatella potrebbe ottenere con tanto di investitura costituzionale. Con una coalizione piegata alla sua volontà, e un’opposizione fiaccata dalle sue vacuità, la Presidente ha una strategia ormai chiara: vincere le regionali e le europee, e poi sull’onda del successo giocarsi tutte le carte sulla “madre di tutte le riforme”: il premierato, che sancirebbe finalmente il passaggio dalla democrazia alla capocrazia”, appunto. Figuriamoci se su questa strada la Meloni e i suoi possono permettersi distrazioni nella vigilanza, diciamo così, esterna e mediatica.

         Vista forse l’imprudenza -deve avere pensato la segretaria del Pd- di avere accettato il duello televisivo propostole dalla Meloni, cui gli addetti stanno lavorando dietro le quinte, è meglio alzare i toni della polemica per non apparire o arrivare davvero debole all’appuntamento. Su cui peraltro Giuseppe Conte sparge veleno rappresentando la segretaria del Pd come l’avversaria preferita dalla Meloni a lui, che sarebbe più capace di metterla in difficoltà e di diventare davvero, alla fine anche nei sondaggi oggi ancora avari, il vero capo delle opposizioni e il federatore di quella che dovrebbe diventare alle prossime elezioni l’alternativa alla coalizione ormai di destra-centro.

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La sinistra monca del socialismo sepolto con Bettino Craxi

   Va bene ricordare -come si sta facendo in questi giorni- i 30 anni trascorsi dalla fine della Dc, i quasi 22 dalla chiusura anche del Partito Popolare Italiano, che ne aveva preso il posto e che l’ultimo segretario Pier Luigi Castagnetti portò nel movimento del post-radicale Francesco Rutelli -la Margherita- pensando di poter far crescere o sopravvivere il popolarismo di origine sturziana fra i cespugli liberali e ambientalisti. Non so, francamente, se consapevole o no che dopo cinque anni, nel 2007, sarebbero tutti finiti nel Pd con ciò che restava del Pci e edizioni successive, salvo perdere presto per strada lo stesso Rutelli.

         Vanno bene, ripeto, tutte queste ricorrenze. Ma vogliamo riflettere anche sui 24 anni appena trascorsi dalla morte di Bettino Craxi e su quelli ancora più numerosi dalla fine di quello che era stato il suo partito socialista? Ch’egli aveva restituito alla tradizione del garofano e all’autonomia perduta quando il predecessore Francesco De Martino aveva annunciato, alla vigilia delle elezioni per questo anticipate del 1976, che mai più il Psi sarebbe tornato al governo con la Dc senza la partecipazione o l’appoggio anche del Pci. Ne derivò, dopo il voto e il minimo storico raccolto nelle urne dai socialisti, un governo tutto democristiano presieduto da Giulio Andreotti e appoggiato esternamente, in due edizioni, dalle due componenti della sinistra sempre divise, persino sui tagli da apportare alla barba di Marx.

         Sono dunque trascorsi 24 anni dalla morte di Craxi, che ne aveva solo 66 ma se ne sentiva addosso molti di più per salute e morale dopo aver dovuto rifugiarsi in Tunisia, ritenendo che la sua libertà equivalesse alla sua vita, come fece poi scrivere sulla tomba ad Hammamet.  E la libertà per lui in Italia era ormai compromessa per i processi intentatigli ad esito scontato a causa del ruolo cinicamente assegnatogli di capro espiatorio del fenomeno generalizzato del finanziamento illegale della politica. “Bettino Craxi, dunque colpevole”, scrisse nel titolo di un celebre libro il suo difensore Nicolò Amato.

         A 24 anni di distanza dalla sua morte che cosa è rimasto non dico del suo ma, più in generale, del socialismo in Italia? E, ancor più, della sinistra se questa parola è stata deliberatamente esclusa dal nome del Partito Democratico oggi distanziato di quasi dieci punti dalla destra neppure sociale di Giorgia Meloni. E costretto a difendersi dal rischio del sorpasso, all’apposizione, da parte di ciò che rimane delle 5 Stelle di Beppe Grillo affidato dall’”altrove”, dove il comico si è rifugiato, all’ex premier Giuseppe Conte.

         Il Pd, che cerca di psicanalizzarsi in un ex convento di Gubbio diventato albergo di lusso, non si può o non si vuole dichiarare né di sinistra né socialista salvo quando supera i confini nazionali per partecipare a riunioni internazionali di partito, o ospitarne in Italia, come avverrà a marzo. E questo -ahimè- non senza conseguenze sul piano elettorale. E tutto in fondo solo perché inchiodati al contrasto prima e alla demonizzazione poi di Craxi. Che pure è rimasto nella storia d’Italia il primo presidente socialista del Consiglio, nominato da un presidente della Repubblica altrettanto socialista come Sandro Pertini.

   Già dalla sequenza di questi fatti e nomi si capisce, o si dovrebbe capire, che qualcosa a sinistra non ha politicamente e persino umanamente funzionato in questo nostro stivalone nazionale. E continua a non funzionare se uno come l’ancor convinto e fiducioso “popolare” Castagnetti, notoriamente simbiotico al capo dello Stato Sergio Mattarella, è costretto su Avvenire a riporre le proprie speranze o consolazioni in un Papa come quello regnante. Che si è dato il nome suggestivo di Francesco – invocato per un Pontefice dalla buonanima di Marco Pannella- ma non mi sembra francamente applicabile alla realtà politica italiana come sono stati tanti suoi predecessori, anche se Castagnetti non è il solo a sperarlo. Mostra ogni tanto di fargli compagnia, per esempio, la ricomparsa Unità del mio amico Piero Sansonetti. Cui non mi sembra che il Pd di Elly Schlein ispiri tanta fiducia. E ciò forse anche per lui -che ha vissuto nell’altra Unità, dove ha a lungo lavorato ed è cresciuto, il dramma della sinistra suicidatasi con la demonizzazione di Craxi- a causa dell’incapacità culturale, a dir poco, della Schlein di riprendere quella trama di sinistra tragicamente lacerata negli anni di Tangentopoli. Pur dopo la caduta del muro di Berlino, va precisato con ancora maggiore desolazione.

Pubblicato sul Dubbio

Alla ricerca del popolarismo perduto, e qualche volta anche tradito

         Parco nelle uscite anche per la sua vecchia e profonda amicizia con Sergio Mattarella, che lo espone sempre al sospetto di esprimerne opinioni e sentimenti, anche se il presidente della Repubblica è frequente alle esternazioni e non si trattiene più di tanto quando sente il bisogno di farsi sentire, Pier Luigi Castagnetti ha affidato ad Avvenire una sua lunga riflessione sul “pensiero aperto” del “popolarismo” a più di un secolo dalla fondazione del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, a 30 anni dal ritorno della Dc a quelle origini anche nominalistiche e a quasi 22 anni dalla chiusura pure di questa formazione politica. Che ebbe proprio in Pier Luigi Castagnetti il suo ultimo segretario, confluendo nel 2002 nel movimento La Margherita. Dove Francesco Rutelli, proveniente dall’esperienza radicale di Marco Pannella, volle e riuscì a raccogliere spezzoni, cespugli e quant’altro di liberali, ambientalisti e infine cattolici. Cinque anni dopo, nel 2007, tutti sarebbero poi confluiti, con ciò che restava del Pci, nel Partito Democratico affidato alla guida di Walter Veltroni.

         Non mancano negli archivi politici fotografie di Castagnetti anche con l’attuale segretaria del Pd Elly Schlein. Dalla quale penso però che gli sia capitato più volte di dissentire, pur senza arrivare alla rottura consumatasi -senza molta sofferenza pubblica, in verità, da parte dell’interessata- con cattolici anche di una certa notorietà e importanza come l’ex ministro Giuseppe Fioroni. Che fu peraltro il primo segretario organizzativo del Pd.

         E’ francamente difficile dire che cosa e dove sia rimasto del popolarismo italiano orgogliosamente contrapposto dai suoi migliori esponenti al populismo corrente un po’ dappertutto, più dei saluti romani che la Cassazione ha appena  sdrammatizzato decidendo che non sono tutti e sempre fascismo alle porte.  

         Lo stesso Castagnetti ha citato le indagini Ipsos di Nando Pagnoncelli per ricordare che “da tempo il voto dei cattolici va di pari passo con l’orientamento politico della maggioranza degli italiani: nel 2018 il più votato era il Movimento 5 Stelle tra chi andava a messa tutte le domeniche, nel 2019 era la Lega”. Che salì quell’anno al 34 per cento dei voti nelle elezioni europee, dopo avere già sorpassato nel centrodestra l’anno prima la Forza Italia di Silvio Berlusconi. Ora è la volta del partito della Meloni che ogni tanto grida in piazza, non a caso, di essere “donna, madre, cristiana…”. Ed ha stretto ormai un’amicizia solidissima con la popolare tedesca Ursula von der Leyen, presidente uscente e forse anche rientrante della Commissione Europea.

         Peccato che Castagnetti nell’intervento su Avvenire non abbia trovato lo spazio o la voglia, o entrambi, di spiegare la sua comprensibile “ambizione” di modificare la situazione attuale. Egli si è solo richiamato all’oriundo italiano ma argentino Papa Francesco. Ma, francamente, mi sembra troppo, o troppo poco.

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La vertenza sarda del centrodestra risolta dalla magistratura, come al solito

         Già barcollante, e parecchio, di suo per gli occhi e le mani per niente nascoste mosse sulla carica di governatore della Sardegna dai fratelli d’Italia, e soprattutto di Giorgia Meloni, cresciuti di parecchio anche nell’isola e perciò desiderosi di farsi valere pure sugli alleati sardo-leghisti dell’amministrazione regionale uscente, Christian Solinas è stato di fatto eliminato dalla gara con la solita “tegola giudiziaria” -come l’ha chiamata in prima pagina la Repubblica– cadutagli addosso con tempismo a dir poco sospetto.

     Accusato di abuso d’ufficio, corruzione ed  altro con sei amici o complici, e sottoposto anche ad un sequestro di beni per 350 mila euro, peraltro proprio mentre in Parlamento il ministro della Giustizia Carlo Nordio definiva “obsoleti” i reati contro la pubblica amministrazione di cui è infarcito il codice penale, Solinas potrà ormai rivedere in cartolina il suo ufficio dopo le elezioni del 25 febbraio, come Trieste nella leggenda del generale Cadorna rivolto alla regina.

         “L’indagine procedeva da qualche anno” su ben “due filoni”, ha raccontato Repubblica  riferendosi alla “compravendita di un immobile e lo scambio di un  incarico in un  ente pubblico con lezioni (ben retribuite) che Solinas avrebbe dovuto tenere in una università dell’Albania, con promessa di laurea honris causa”. La tegola giudiziaria, quindi, per rimanere nel linguaggio del giornale che si contende col Fatto Quotidiano l’accesso privilegiato alle Procure della Repubblica, può ben definirsi vecchia. Ma è caduta -ripeto- al momento giusto per produrre i suoi inevitabili effetti politici.

         A completare lo spettacolo contribuisce il già citato Fatto Quotidiano sparando in prima pagina il solito titolo di aggiudicazione del merito degli “scandali”, al plurale, di Solinas e dintorni da esso “svelati”, non so se pure agli inquirenti, oltre che ai lettori.

         Dicevo degli “inevitabili effetti politici” dell’operazione giudiziaria scattata a quattro giorni dalla scadenza dei termini per la presentazione delle liste dei candidati alle elezioni regionali sarde. Inevitabili, naturalmente, per l’abitudine che ormai accomuna destra e sinistra di giocare di sponda con le Procure per regolare anche i loro conti interni.

         Sarebbe stato bello se all’annuncio delle perquisizioni, del sequestro e altro in Sardegna  la premier Giorgia Meloni avesse trovato il tempo, interrompendo a Bologna e dintorni i suoi incontri di carattere anche internazionale, in particolare con l’ormai amica presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, per annunciare o magari solo far sapere con una certa discrezione a qualche giornalista che per rispetto della decenza istituzionale, del primato della politica e di tante altre cose la scalata del suo partito al governatorato dell’isola  s’interrompeva in quel momento. Invece il suo silenzio è caduto sulla testa di Solinas o Salvini come la scarpa nella vignetta di Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX.

   Così è se vi pare, alla Pirandello.

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