Romano Prodi manda a quel paese, o quasi, il Pd della Schlein

   Romano Prodi, ormai sulla strada degli 85 anni da compiere in agosto,  si è stancato di essere chiamato “il padre del Pd”, peraltro fondato nel 2007 da Walter Veltroni in circostanze e con finalità -la famosa “vocazione maggioritaria”- non proprio in linea col modo di governare del professore. Che era apparso “mollaccione” già nel 1998 a Massimo D’Alema nei rapporti di mediazione tra i tanti e tanto diversi alleati dell’Ulivo. Come poi avrebbe fatto dieci anni dopo con quelli dell’Unione, finendo per perdere per strada a destra Clemente Mastella. Nel 1998 invece aveva perso a sinistra Fausto Bertinotti.

   Eppure era stato proprio D’Alema nel 1995 a incoronare Prodi  in un cinema romano, con rito quasi medievale, capo dello schieramento alternativo al centrodestra portato inaspettatamente alla vittoria da Silvio Berlusconi l’anno prima.  Inaspettatamente però -ha voluto precisare Prodi in una intervista oggi al Corriere della Sera- non per lui. Che, diversamente da Achille Occhetto alla guida della “gioiosa macchina da guerra”, aveva previsto che il Cavaliere vincesse la prima partita elettorale della cosiddetta seconda Repubblica, giocata con un sistema prevalentemente maggioritario. “Ero sicuro -ha detto il professore- che avrebbe vinto lui. Ci feci anche una scommessa con un amico, un mio futuro sottosegretario. Era troppo pervasiva e forte la sua onda. Si capiva bene che avrebbe sconvolto il sistema politico”.

   Quando previde quella vittoria il professore forse non immaginava neppure che sarebbe toccato poi a lui cercare di contenere l’irruzione di Berlusconi sconfiggendolo due volte nelle urne, pur per formare poi governi della durata effimera.

         Adesso, da nonno e non da “padre” del Pd com’è tornato a chiamarlo qualche giorno fa Antonio Polito, sempre sul Corriere, Prodi ritiene di potere “somministrare affetto, non influenza e comando” sul partito finito nelle mani di Elly Schlein. Che pure uscì dal quasi anonimato nel 2013 predicando l’occupazione delle sedi del partito per protesta contro i “traditori” che in Parlamento avevano impedito l’elezione di Prodi appena candidato al Quirinale.

   Ora la “ragazza”, come pare che Prodi la chiami con gli amici, lo abbraccia ma non lo sta tanto a sentire. Non ne ha sinora accettato, per esempio, il consiglio di non candidarsi alle elezioni europee per un Parlamento dove non intende andare, preferendo rimanere alla Camera e al Nazareno che dista qualche centinaio di metri.

         Alla Schlein il professore aveva anche detto di provare a “federare” gli oppositori della Meloni, ma se costoro avessero davvero voluto farsi federare. Invece -ha avvertito Prodi- “Conte deve ancora decidere dove sta”. E questo -è il sottinteso polemico dell’osservazione del professore -la Schlein non ha neppure il coraggio di contestarlo ogni tanto all’interessato. Finendo così anche per favorirne la concorrenza a sinistra e persino un soprasso elettorale che sarebbe la fine del Pd, e non solo della sua segretaria.

A ciascuno il sogno del sorpasso nella corsa verso le elezioni di giugno

   L’impegno, la promessa del “nuovo miracolo italiano” con cui Silvio Berlusconi chiuse il famoso videomessaggio della sua discesa in campo politico ricordato in questi giorni, a trent’anni di distanza da un evento che segnò più di ogni altro il passaggio dalla cosiddetta prima alla seconda Repubblica, evocava il miracolo degli anni Sessanta. Che lui aveva vissuto giovanissimo e di cui è generalmente interpretato tuttora come film evocativo “Il sorpasso”, diretto da Dino Rosi e interpretato da Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman. Un film drammatico, a dispetto di ciò che doveva o voleva rappresentare, perché dei due protagonisti amici quasi per caso, e insieme inebriati dalla voglia di vita e di benessere di quegli anni uno- Roberto- muore nell’ultimo sorpasso della trama.

         Mi ha fatto una certa impressione leggere in questi giorni dell’ambizione al sorpasso, appunto, attribuita ad Antonio Tajani alla guida di Foza Italia in vista delle elezioni europee di giugno. Un sorpasso che, compiuto all’interno del centrodestra sui leghisti di Matteo Salvini, dovrebbe riportare il partito azzurro -come Silvio Berlusconi voleva che fosse chiamato- alle due cifre, da quella unica cui era sceso con lo stesso Cavaliere. Che mi risulta non se ne desse pace, per nulla consolato dai volenterosi che gli ricordavano il peso avuto nella storia della Repubblica da partiti di quelle pur modeste, anzi ancor più modeste dimensioni: ad esempio, il partito repubblicano di Ugo La Malfa e poi di Giovanni Spadolini, il primo peraltro ad avere interrotto la serie democristiana dei presidenti del Consiglio.

  Quelli erano partiti secondo Berlusconi -a dispetto dell’ammirazione e del riguardo avuti in particolare per Spadolini, compensato con la presidenza della sua Mondadori dopo la perdita della presidenza del Senato all’avvio della cosiddetta seconda Repubblica- adatti più al “teatrino” che al teatro al quale lui pensava di avere portato la politica italiana dedicandovisi. Un teatro nel quale Eugenio Scalfari, che notoriamente non gli voleva molto bene, considerava il Cavaliere -scrivendolo ogni tanto nei suoi fluviali articoli- non il protagonista e neppure un attore ma “l’impresario”. Cioè il proprietario, il padrone per la parte spettantegli rispetto a quello derivante dalla somma col teatro degli avversari. Fra i quali ultimi lo stesso Scalfari si considerava il grande consigliere, anzi il regolo, riuscendo spesso in effetti a influenzarli, indirizzarli e quant’altro.

         Grande pertanto fu la delusione del fondatore di Repubblica quando, dopo le elezioni del 1992 e la strage di Capaci, in un Parlamento costretto dalle circostanze a mandare al Quirinale uno dei suoi due presidenti, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro dalla Camera o il repubblicano Spadolini dal Senato, l’ormai ex Pci guidato da Achille Occhetto osò disobbedirgli. A Spadolini, che aveva già preparato il suo discorso di insediamento, tanto era sicuro dell’elezione, il Pds preferì Scalfaro. E solo perché così si liberava la presidenza di Montecitorio per Giorgio Napolitano.

         Ma torniamo ai nostri più modesti giorni. Non so quante probabilità abbia davvero Tajani di fare i suo sorpasso, pur con tutta l’esposizione che gli dà il Ministero degli Esteri in questi tempi dominati dalla politica internazionale. L’ultimo sondaggio di Alessandra Ghisleri attribuisce sulla Stampa al partito azzurro il 7.5 per cento delle intenzioni di voto, con lo 0,2 per cento in meno rispetto a quasi un mese prima, contro l’8,4 dei legihisti, tuttavia in maggiore calo, avendo perduto lo 0,6 per cento. Le distanze degli uni e degli altri dai fratelli d’Italia di Gorgia Meloni sono ormai siderali, con quel 28,5 per cento della destra proiettato ormai verso il 30.

   Neanche se lo volesse per un misto di generosità e opportunismo la Meloni sarebbe in grado nel segreto delle urne, chissà quanto frequentate peraltro in giugno, di dirottare qualche voto della coalizione di governo da sé verso Tajani. Che, ad occhio e croce, con tutte le riserve necessarie nelle valutazioni politiche, potrebbe poi crearle meno problemi di Salvini nella gestione della maggioranza.

   Di sorpasso a sinistra, nel campo opposto a quello del governo, sarebbe possibile solo quello di Giuseppe Conte sul Pd di Elly Schlein, saliti entrambi in un mese -sempre nel sondaggio della Ghisleri-  rispettivamente al 17,8 e al 19,5 per cento. Ma salendo Conte, con l’uno per cento, più della Schlein, spostatasi solo dello 0,3 per cento.  Figuriamoci se, in questa situazione, al capo delle 5 Stelle verrà mai la voglia di ridurre la concorrenza che fa al Pd sul versante del populismo per diventare davvero il capo dell’opposizione che già sente di essere. Con quali conseguenze per il Pd, per le sue tensioni interne e per la salute politica della segretaria è facile immaginare.

Pubblicato sul Dubbio

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