La politica italiana fra le tombe dei giganti in Sardegna…

   Altro che Mar Rosso, Yemen. Iran, Gaza e persino l’Aya, dove il mondo si è messo davvero al contrario senza aspettare l’intervento del generale Vannacci. Vi è finita sotto processo internazionale per genocidio non Hamas ma Israele, costretta alla guerra a Gaza dopo il pogrom del 7 ottobre. I partiti italiani e le loro reali o ipotetiche alleanze rischiano il collasso, il terremoto e quant’altro in Sardegna, dove si terranno le elezioni regionali fra poco di un mese, salvo improbabili rinvii per bisticci fra avanzi della Dc che se ne contendono le insegne.

         Il centrodestra sulla carta avrebbe i numeri per vincere, anzi rivincere, se non fosse scosso dalla crisi del più piccolo, anche se forse più noto partito dell’isola: quello sardo d’azione. Che reclama vitaminicamente la  ricandidatura del suo governatore Christian Solinas dall’alleato Matteo Salvini. Il quale vorrebbe, anche perché senza quel partitino il 6,3 per cento raccolto in regione dalla Lega nelle elezioni politiche del 2022 si dimezzerebbe, o quasi. E non potrebbe neppure interloquire col partito della premer Giorgia Meloni, salito al 23 per cento: di certo inferiore al 26 per cento nazionale arrivato nei sondaggi quasi al 30, visibile quindi  con  il cannocchiale da quelli del Carroccio. Che pertanto o si piegano alla candidatura quasi formalizzata del meloniano sindaco di Cagliari Paolo Truzzu o rischiano di scomparire dall’isola.

         In una situazione normale la sinistra potrebbe o dovrebbe aspirare a raccogliere i frutti delle divisioni, tensioni e quant’altro nel centrodestra. Ma anche in Sardegna -fatale come la Novara del 1849 per Carlo Alberto di Savoia o come essa stessa nel 2017 per il primo segretario del Pd Walter Veltroni, costretto alle dimissioni come l’altro all’abdicazione- la situazione della sinistra non è per niente normale. Anche sotto Elly Schlein il Pd è messo male perché per inseguire l’alleanza col pentastellato ex premier Giuseppe Conte ne ha accettato la candidata a governatrice Alessandra Todde, rompendo non dico con un gigante delle omonime tombe sarde, ma con un Renato Soru, ex governatore, che un certo seguito nell’isola ancora ce l’ha. Anche senza l’aiuto di una figlia rimasta fedele al partito dell’”illuminata di Lugano”, come la Schlein è stata ironicamente definita oggi su Repubblica dal pur simpatizzante a dir poco, Massimo Giannini.          I

   Il guaio per il Pd, ancor più che per il centrodestra pur sempre favorito dal premierato di fatto, se non ancora di diritto costituzionale, di una Giorgia Meloni presidente di turno- pensate un po’- anche del G7, è che le elezioni sarde del mese prossimo sono solo la prima tappa di una lunga corsa ad ostacoli che dovrebbe finire il 9 giugno con le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Volente o nolente la stessa Schlein, esse costituiranno un importante test, come lo chiama Meloni, anche per la politica italiana. E non solo una prova per dare all’Italia più peso nei nuovi organismi comunitari.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quel gioco rischioso a interpretare i silenzi della premier Meloni

   Interpretare i silenzi è sempre difficile. Ricordo -ahimè- il divertimento ma anche il fastidio che verso la fine degli anni Sessanta procuravano ad Aldo Moro le interpretazioni dei lunghi silenzi nei quali egli si chiudeva dopo avere lanciato qualche proposta imprevista o avere fatto qualche riflessione inattesa. Gli ancora amici o colleghi di corrente dorotea lo avevano appena allontanato da Palazzo Chigi per scavalcarlo a sinistra nei rapporti col Psi, ma soprattutto con l’opposizione comunista.

   A quest’ultima, esclusa con Moro fra il 1963 e il 1968 da una maggioranza rigorosamente “delimitata” di centro-sinistra, col trattino, pur di trasferirsi dalla segreteria democristiana alla guida del governo Mariano Rumor si era reso disponibile, d’intesa con i socialisti di Francesco De Martino, a un certo riguardo. Egli si era proposto, testualmente, per una “edizione più incisiva e coraggiosa” del centrosinisra, senza più trattino e “aperto ai ontributi” delle opposizioni. 

         A Guido Quaranta e a me che lo inseguimmo a Terracina, dove lui andava al mare ogni mattina raggiungendo la famiglia in completo grigio per leggere i giornali sotto l’ombrellone, Moro disse alquanto spazientito, prendendosela però più con altri assenti che con noi: “Quante cose riuscite a farmi pensare”.  Pronta ma inutile fu la nostra  offerta a raccogliere il suo recondito, vero pensiero in vista di una sessione autunnale del Consiglio nazionale della Dc che doveva ratificare la soluzione balneare appena data alla crisi di governo, col ricorso al solito Giovanni Leone, in attesa stavolta di Rumor a Palazzo Chigi. Cinque anni prima il povero Leone era stato scomodato d’estate in attesa dell’arrivo proprio di Moro alla guida del primo governo “organico” di centro-sinistra, ripeto, col trattino.

         Ce ne tornammo a Roma, Guido ed io, con la coda fra le gambe. Non potemmo annunciare dai nostri rispettivi giornali –Paese sera e Momento sera- nessuna rivelazione. Po l’ex presidente del Consiglio si sarebbe presentato al Consiglio nazionale democristiano uscendo dalla corrente dei dorotei, scavalcandoli a  sinistra con la proposta della famosa “strategia dell’attenzione” al Pci e passando  all’opposizione interna con un gruppo di persone che altro non potevano e non dovevano essere chiamati che “amici dell’onorevole Moro”.

         Mi avvalgo di questa premessa autobiografica, della cui lunghezza mi scuso, per dire al nostro pur ottimo Paolo Delgado che mi sono un po’ ritrovato nelle stesse condizioni di allora leggendo la sua lettura del silenzio di Giorgia Meloni -almeno sino al momento in cui scrivo- di fronte alle polemiche scatenatesi per quelle centinaia di braccia levatesi a Roma per ricordare, a 46 anni di distanza , le tre giovani vittime di un assalto, e conseguenti disordini, alla sezione missina di via Acca Larenzia.  

         Delgado ha trovato o letto in quel silenzio uno spirito persino di “revanscismo” della linea della Meloni. Che, pur sapendo di non correre poi grandi rischi elettorali, nelle dimensioni alle quali è riuscita a portare la sua destra, se si dissociasse anche lei da quelle braccia alzate da “imbecilli”, come li ha chiamati il suo devoto Giovanni Donzelli, se n’è stata muta per coerenza con la sua storia politica. Che non intenderebbe confondere con quella di Gianfranco Fini: l’uomo che a Fiuggi -ha raccontato lui stesso di recente- uscì “per sempre dalla casa del padre” procurandosi l’accusa di tradimento, anche se era stato ben attento a conservare nel simbolo di Alleanza Nazionale la fiamma del precedente Movimento Sociale. Una fiamma della cui opportunità adesso lo stesso Fini ritiene si possa “discutere”, tanta acqua è passata ormai sotto i ponti. E tanto diverse sono diventate le responsabilità della destra. Che è arrivata dove lui non riuscì, cioè alla guida del governo, per avere ceduto all’insofferenza verso un Silvio Berlusconi ancora ben deciso a tenersi stretto il comando della coalizione di centrodestra improvvisata nel 1994. Esplose una rottura dalla quale Fini fu travolto.

         Diversamente da Delgado, nella dicotomia gramsciana dell’ottimismo della volontà opposta al pessimismo della ragione, io sono tentato da una interpretazione positiva, appunto, del silenzio della premier. Che ha già tanti problemi di suo, e più consistenti, da affrontare e risolvere come premier dichiaratamente conservatrice in questo 2024 “complesso” – ha detto lei stessa- e particolarmente impegnativo per la presidenza italiana di turno del G7, per lasciarsi logorare dalle polemiche sulla fiamma e dintorni. E col ricorso più o meno parlamentare alla solita magistratura per violazione del reato di apologia del fascismo a suo tempo introdotto dalla legge Scelba come una specie di concorso esterno al fascismo. E’ un reato, ben oltre il divieto costituzionale di ricostituzione del partito fascista, che si presta un po’ a tante letture e applicazioni come quello di abuso di ufficio che si sta provvedendo finalmente, secondo me, ad abolirlo.

   Sull’apologia del fascismo siamo ormai appesi ad una vicina pronuncia della Cassazione a sezioni unite appena ricordata, procurandosi tante polemiche, dal presidente del Senato Ignazio La Russa.  Forse è il caso di pensare ad un’altra soppressione. A meno che non si voglia davvero credere e sostenere che quelle centinaia di braccia levate in via Acca Larenzia a Roma ogni 7 gennaio, con qualsiasi premier a Palazzo Chigi, siano quell’anticamera o anticipazione di un nuovo fascismo che si sta cercando di accreditare, in buona o cattiva fede poco importa a questo punto. Dentro e persino oltre i confini, visto l’intervento a gamba tesa, particolarmente tedesca, del Partito Popolare Europeo per l’episodio romano. Eppure in Germania si gioca ogni tanto anche con la svastica.

Pubblicato sul Dubbio

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