La solita, monotona prova di antifascismo chiesta alla conservatrice Meloni

   Sono sempre a senso unico le strade della strumentalizzazione: anche quella delle prime pagine dei giornali piene oggi di titoli indignati contro “il saluto romano” lamentato dal Corriere della Sera e l’”adunata nera” denunciata da Repubblica per quelle centinaia o migliaia di braccia levate davanti a quella che fu la sezione romana missina di via Acca Larenzia. Dove da più di 40 anni si ricorda una strage successiva con tre giovani vittime successiva a quell’altra odiosa del 1973 a Primavalle.

         Un po’ di onestà d’informazione e d’immagine dovrebbe fare accompagnare le foto delle  tante braccia alzate con quelle del 7 gennaio 1978, con o senza i cadaveri. Basterebbero quelle senza. O la riproduzione di qualcuna delle tante scritte di poco glorioso antifascismo a scoppio ritardato -visti gli anni trascorsi dalla fine della dittatura-  con le quali si invocavano sui muri di diverse città italiane, senza che nessuno si scandalizzasse più di tanto, “10, 100, 1000 Acca Larentia”.

         Senza volere sposare la riduttiva vignetta del Foglio su quelle braccia e mani levate per reclamare “come un sol uomo” in un’aula scolastica o simile il bisogno di “andà in bagno”, ma neppure ridurre tutto all’ennesima “trappola identitaria” -ha titolato il Corriere–  in cui sarebbe caduta col suo silenzio anche la premier Giorgia Meloni, penso che si debba finirla con questa pagliacciata di reclamare da lei un giorno sì e l’altro pure dimostrazioni della rottura con un passato che anagraficamente non le può appartenere. La Meloni non deve farsi perdonare come il Fini pur tanto apprezzato a suo tempo per la rottura con Silvio Berlusconi quel Mussolini ancora scambiato nel 1994, dopo lo sdoganamento della destra da parte dello stesso Berlusconi, come “il più grande statista” del secolo allora non ancora concluso.

         Via, sarebbe ora anche per noi giornalisti, oltre che per i politici dalla coerenza a corrente alternata, di uscire dall’asilo Mariuccia e di affrontare con maggiore serietà problemi vecchi e nuovi dell’Italia. Persino Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano è riuscito a contenere la sua polemica per il silenzio rimproverato alla Meloni scrivendo sopra la testata, senza dileggiare la leader della destra conservatrice di questo secolo col solito fotomontaggio in orbace o simili, che la premier dovrebbe dissociarsi da quelle braccia alzate “non perché sia fascista ma perché è la premier di uno Stato antifascista”. La cui Costituzione non sarà dichiaratamente antifascista, come ha recentemente sostenuto il presidente del Senato Ignazio La Russa, ma fu fatta da antifascisti. E, pur pur con una norma compresa fra “le disposizioni transitorie e finali”, dispone il divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

         Come ho già scritto qui e altrove, a me sembra che la premier sia tornata alle “dimensioni”, e altro ancora, più democristiane che del fascismo degli anni del “consenso” storicizzato da Renzo De Felice.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it  

Il Quo Vadis un pò democristiano della premier Giorgia Meloni

   Non so se per ragioni più di prigrizia o di calcolo, temendo in quest’ultimo caso di portare acqua ad un mulino sgradito, si misurano più le piccole distanze elettorali e sondaggistiche fra il Pd di Elly Schlein e il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte che quelle consistenti fra il Pd anche della Schlein, dopo quello di Enrico Letta, e la destra di Giorgia Meloni. Che, in dimensioni ormai democristiane, sovrasta di una decina di punti il partito nel quale confluirono i resti del Pci e della sinistra scudocrociata nel 2007. Quando Walter Veltroni pensò di poter strappare con quell’operazione al centrodestra a forte trazione ancora berlusconiana l’eredità elettorale, politica e maggioritaria della Dc. Che era stata sciolta 14 anni prima da Mino Martinazzoli nella speranza rapidamente svanita di farla rivivere nell’originario partito popolare del compianto don Luigi Sturzo.

         Quella fusione tra “anime”- si disse- così diverse fallì non meno del sogno di Martinazzoli e fu impietosamente e rapidamente declassata, come si ricorderà, da Massino D’Alema ad “amalgama malriuscito”. Cui si cerò di rimediare prima virando ancora più a sinistra con Pier Luigi Bersani e poi più verso il ricordo democristiano con due segretari di comune origine scudocrociata ma che più diversi fra di loro non potevano essere o rivelarsi come Matteo Renzi ed Enrico Letta. Fra i due ci fu l’intermezzo dell’ex funzionario del Pci  Nicola Zingaretti.

         Messasi in politica da ragazza quando la Dc già boccheggiava e la destra cominciava a raccoglierne l’eredità elettorale a Roma con Gianfranco Fini arrivato al ballottaggio pur sfortunato per il Campidoglio contro Francesco Rutelli, Giorgia Meloni non porta nel suo bagaglio d’opposizione l’antidemocristianismo, diciamo così. Porta solo anticomunismo prima e antisinistrismo generico poi. Che le permette ora di non essere vista così pericolosamente da quel che rimane del vecchio elettorato democristiano o dei suoi figli e nipoti.

         Non è per caso che non un blasonato democristiano a riposo come Pier Ferdinando Casini, a suo agio ormai come ospite del Pd nei ritorni al Senato, ma un democristiano ancora alle prese con le pratiche del tesseramento di una Dc immaginaria come Gianfranco Rotondi, dopo un lungo passaggio per Arcore, sia entrato non dico nel cerchio magico o familiare di Giorgia Meloni ma quasi. Egli ha partecipato con entusiasmo alle sue feste anche di compleanno.

         Un’accelerazione sulla strada di una certa democristianizzazione della destra meloniana – altro che l’omaggio ad Antonio Gramsci da parte del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano con una targa commemorativa ventilata nella clinica romana dove morì il fondatore del Pci- – è seguita anche alla conferenza stampa d’inizio d’anno della premier. Che ha approfittato, per esempio, dell’occasione offertale da Giuliano Amato con le stizzite dimissioni dalla guida di una commissione di studio ed altro sull’intelligenza artificiale per sostituirlo con un frate e teologo – Paolo Benanti- consigliere del Papa. Cosa, forse, che neppure un presidente del Consiglio davvero democristiano avrebbe fatto per paura di non apparire abbastanza laico o “adulto”, alla Prodi.

         L’ottantottenne Domenico Fisichella, che aiutò una trentina d’anni fa il Movimento Sociale di Fini ad uscire dalla sua ridotta per l’avventura di Alleanza Nazionale, ha appena sfoderato intellettualmente e politicamente per i conservatori rappresentati a livello internazionale dalla Meloni una definizione che potrebbe far sentire a casa loro molti veterani della Dc e discendenti. “Il conservatore -ha spiegato o garantito Fisichella lasciandosi intervistare dal Giornale fra i suoi libri- è un riformatore, vuole l’innovazione e lo sviluppo con costi accettabili e profitti durevoli”. 

         Pur privo forse di una biblioteca alle spalle come quella di Fisichella, ma ancora capace di maneggiare parole e simboli in quello che Berlusconi chiamava “teatrino politico”, si è fatto sentireanche Gianfranco Fini, stavolta sul Foglio, per dire che al punto in cui sono ormai arrivate evoluzioni, cose e quant’altro, si può anche “discutere” della rinuncia della destra alla “fiamma”. Che lui volle preservare pur uscendo “per sempre dalla casa del padre” e ancora si presta a tante paure, polemiche e strumentalizzazioni. L’altro Gianfranco, il già citato Rotondi che continua a stampare tessere della Dc, avrà rischiato l’esplosione del petto gonfiandolo di soddisfazione o speranza, o entrambe.

Pubblicato sul Dubbio

Blog su WordPress.com.

Su ↑