L’aggressione mediatica alla Meloni per la tragedia di Giulia Cecchettin

Caro direttore, ti prego di permettermi una postilla al tuo coraggioso editoriale garantista -nei tempi che corrono, quando il garantismo continua ad essere per molti una mezza parolaccia- sui diritti che ha tuttora, in attesa del processo, Filippo Turetta. Sì, proprio lui, il giovane veneto catturato in Germania e accusato di avere massacrato a coltellate l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, contraria a riprendere con lui una relazione, diciamo così, difficile.

         Fra i diritti di Turetta, oltre a quello del “giusto processo” imposto dall’articolo 111 della Costituzione modificato nel 1999 dopo lo scempio compiuto con gli abusi negli anni delle cosiddette “mani pulite”, credo vi sia anche quello di non vedersi attribuire complici diretti o indiretti nella sua condotta, o solo nella sua interpretazione dei rapporti interpersonali, affettivi o solo di genere.

         Fra questi complici -non faccio altri nomi, specie di colleghi, per il rispetto che ho ancora della nostra professione- ho visto, sentito e letto anche quello di Giorgia Meloni per la sua presunta concezione “patriarcale” della famiglia nel trittico della destra con Dio e la Patria.

Deriverebbe da questa concezione, entrata di soppiatto quasi nel nostro dna, anche il fenomeno del femminicidio, ostinato a resistere a tutte le evoluzioni sociali e legislative, anche o soprattutto in paesi -per esempio, quelli nordici- considerati molto più avanti dell’Italia. Che, questa volta per fortuna, è tuttavia rimasta un po’ il fanalino di coda nelle statistiche delle donne ammazzate dagli uomini.

         Questa specie di reato della concezione “patriarcale” della famiglia, e dei suoi conseguenti rapporti, interni ed esterni, è stata attribuita alla Meloni per la sua scelta, all’arrivo a Palazzo Chigi l’anno scorso, di farsi chiamare con tanto di comunicati da accademia della Crusca presidente del Consiglio al maschile, e non al femminile. Per fortuna neppure a me che ho continuato sempre a preferire di darle della presidente del Consiglio o della premier, è ancora giunta qualche diffida, multa, sanzione o altro accidente.  

         Mi è appena capitato di assistere ad una specie di processo sommario e in diretta televisiva alla Meloni per avere contribuito a coltivare e diffondere questa cultura -chiamiamola così- così pericolosa per i fraintendimenti cui si presta. E mi sono chiesto -credimi- se questo sia davvero giornalismo. E davvero libertà di stampa, informazione, opinione e quant’altro.

Pubblicato sul Dubbio

Lilli Gruber processa in diretta televisiva Giorgia Meloni per patriarcato

         In attesa del processo a Filippo Turetta per la responsabilità giudiziaria dell’orrenda fine della ex fidanzata Giulia Cecchettin, con un certo abuso -a mio avviso- della libertà di stampa, o di presunto diritto alla difesa da una critica ricevuta via social dall’interessata, Lilli Gruber ha offerto ai telespettatori de la 7, e ai lettori dei resoconti giornalistici, un surreale processo alla premier Giorgia Meloni. Processo per una sostanziale complicità, politica o ambientale, nel delitto, ma anche per un certo “abuso di potere” -ha detto uno dei suoi ospiti- che la Meloni avrebbe compiuto reagendo al di fuori del salotto televisivo di Otto e mezzo alle critiche ricevute il giorno prima, senza offrirsi a un confronto diretto, che certo avrebbe procurato alla conduttrice un maggiore ascolto del solito.

         La complicità della Meloni, a dispetto della foto ostentata da lei via social con la mamma, la nonna e la figlia Ginevra, consisterebbe nel fatto che la leader della destra, preferendo all’inizio del proprio mandato di governo, la definizione di presidente del Consiglio, maschile, a quella della presidente del Consiglio avrebbe tradito, diciamo così, la sua concezione “patriarcale” della famiglia ed oltre.  Una concezione dalla quale deriverebbe la brutta abitudine di certi maschi di abusare della donna, sino a sopprimerla piuttosto che rinunciare a considerarla un oggetto da possedere. E di scambiare la fine di un rapporto sentimentale per un tradimento da punire anche con la pena capitale, oltre alle sevizie morali e fisiche che spesso la precedono.

         E’ un po’ come se io -scusami, cara Lilli Gruber se me lo permetto da brutto, vecchio e cattivo collega che posso sembrarti- sospettassi o accusassi di patriarcato la tua ospite da remoto di ieri sera e filosofa Rosi Braidotti, peraltro la più eccitata nel processo televisivo alla Meloni, perché si fa chiamare, come leggo navigando in internet, “professore emerito” dell’Università di Utrecht, anziché professoressa. Anche lei dovrebbe sentirsi quindi un po’ responsabile o complice di tutti i femminicidi che si commettono nel mondo, e non solo di quelli in Italia per fortuna al di sotto della media generale, pure ora che a governare il Paese è una donna a capo, per giunta, di una combinazione di destra-centro. Dove cioè a prevalere è una destra orgogliosa, fra l’altro, del trittico Dio, Patria e famiglia, con la minuscola che merita perché è messa alquanto male, come ha osservato forse non a torto Luca Caracciolo, un altro ospite ieri sera della Gruber. Che, in verità, ho visto un po’ imbarazzato nella partecipazione, con Massimo Giannini, alla formula dello scontro tre a uno. Tre pubblici ministeri e al tempo stesso giudici contro l’imputata assente, ma con difensore d’ufficio scelto nella persona di Mario Sechi, presentato non a caso dalla Gruber come direttore di Libero e sino a qualche mese fa capo dell’ufficio stampa, o “responsabile della comunicazione”, di Palazzo Chigi.

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La diabolica capacità della cronaca di spiazzare attori e spettatori

Senza scomodare la Storia, con la maiuscola, com’è curiosa, imprevedibile, capricciosa la cronaca, con la minuscola, che ci mette alla prova ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, nella rapidità che l’informazione ormai ci consente, ponendoci un po’ in diretta con gli eventi senza neppure uscire da casa, liberamente o costrettivi per qualsiasi ragione.

         Nella Germania appena apertasi alla nostra attenzione con la consolante cattura del disumano omicida della ex fidanzata Giulia, responsabile solo di non volere essere sua come un oggetto, abbiamo risolto anche il conflitto creatosi almeno in quella parte di noi che -magari ingenuamente agli occhi dei sapientoni- si erano trovati in difficoltà a seguire la partita di calcio fra un’Italia aspirante a difendere il suo titolo di campione nei campionati europei dell’anno prossimo e un’Ucraina impegnata col nostro sostegno politico e militare nella drammatica guerra  scatenata dalla Russia di Putin.

         Il risultato della partita a Leverkusen ha messo almeno noi italiani convinti del sostegno- ripeto-  politico e  armato agli ucraini in pace con i propri sentimenti sportivi perché a porte inviolate abbiamo guadagnato la difesa del nostro titolo senza procurare una sconfitta alla squadra trovatasi in competizione con la nostra nazionale.

         Guardate invece, anche con l’aiuto del vignettista del Corriere della Sera Emilio Giannelli, che cosa è successo a Papa Francesco, l’argentino e oriundo italiano Jorge Mario Bergoglio. Al quale Giannelli, appunto, sapendolo sospettato di simpatie a sinistra, diciamo così, ha fatto commentare così l’elezione del destrissimo, trumpiano Javier Milei a presidente dell’Argentina: “Ucraina, Israele, popolo palestinese….Mi sono dimenticato di pregare per la mia Argentina!”. Mia, peraltro, come la chiamava anche la celebratissima Evita Peron ispirando un film e una colonna sonora indimenticabili.   

         Non meno spiazzante, almeno per i politicamente interessati profeti di sventura di un’Italia irreparabilmente destinata all’isolamento in Europa, è la cronaca- trovata peraltro in evidenza sulla prima pagina dell’insospettabile Repubblica, una specie di nave ammiraglia della flotta antigovernativa- di “un accordo con la Germania su migranti e Difesa” contestuale alle modifiche al cosiddetto patto di stabilità europeo e alla ratifica italiana del tanto a lungo contestato Mes. Che non è naturalmente una marca di sigarette, né tradizionali né elettroniche, ma l’acronimo del “Meccanismo europeo di stabilità”, noto anche come fondo salva-Stati.  

Destra e sinistra riescono a litigare anche sulla orrenda fine di Giulia

Per quanto bipartisan, condotto cioè da entrambe le parti, sinistra e destra o viceversa, l’una attaccando e l’altra ricambiando, lo sciacallaggio politico e la sua appendice mediatica della tragica fine di Giulia Cecchettin è stato, anzi è di uno squallore certamente prevedibile ma non per questo accettabile.

         Chi abbia cominciato per prima è difficile dire. Forse la sinistra cavalcando anche certe reazioni internettiane della sorella, Elena, della giovane assassinata da quell’aguzzino che alla fine si è rivelato il fidanzato Filippo Turetta. La congiunta, in particolare, facendo per me un pò di confusione fra potere, al minuscolo, e Stato, con la maiuscola, ha definito l’assassinio di Giulia un omicidio di un potere, appunto, ancora patriarcale nella concezione dei rapporti sociali, affettivi e familiari e quindi di uno Stato rivelatosi incapace di prevenire, educare e quant’altro.

         La ciliegina sulla torta già intossicata, volente o nolente, con questo tipo di ragionamento ce l’ha messa il giornale debenedettiano della radicalità –Domani- scrivendo in fondo ad un titolo ispirato ad una frase di Elena Cecchettin –“Se tocca a me voglio essere l’ultima”- che delle leggi necessarie “per educare alla libertà e all’affettività la destra ha paura”. Una destra -si deve dedurre- ancora attaccata alla già ricordata concezione patriarcale della società e della famiglia, da cui deriva la riduzione della donna a persona posseduta dall’uomo sino a diventarne vittima nel senso anche sanguinario della parola.

         La destra peraltro oggi guidata da una donna anche alla testa del governo- una giovane francamente difficile, con la sua storia personale, da immaginare come partecipe convinta di una simile concezione dei rapporti umani- non è rimasta naturalmente silenziosa o passiva davanti a questa rappresentazione di se stessa.  Ma, ahimè, è scesa al livello della sinistra -o pseudosinistra- d’attacco pregiudiziale, antipatica –direbbe Luca Ricolfi- nel rivendicare superiorità morale ed educativa anche in questo, Vi è scesa rivendicando il merito dei femminicidi diminuiti, rispetto al passato, nel 2023 contrassegnato dal governo  della Meloni. Un 2023 peraltro non ancora finito -vorrei ricordare al Giornale, che se n’è vantato- e perciò capace ancora di riservare brutte sorprese anche a questo modo di misurare, calcolare e quant’altro meriti e demeriti di una parte politica o dell’altra. Come si fa del resto in tema di migranti approdati sulle coste italiane.

Piuttosto che proseguire su questa strada oscena della strumentalizzazione o dello sciacallaggio di turno, sarebbe ora che almeno di fronte a certi fenomeni drammatici come il femminicidio la politica scoprisse il dovere o quanto meno il buon gusto di non dividersi e di esercitare in positivo la pratica bipartisan. Cioè affrontando unitariamente e solidarmente quella che è ormai diventata un’autentica emergenza, senza sgambettarsi e intestarsi da soli successi più o meno effimeri.

Pubblicato sul Dubbio

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Come sarebbe stato bello vedere Mattarella alla fiaccolata per Giulia

Non per fare polemica, ma francamente avrei preferito vedere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella -così presente e partecipe di solito dei sentimenti della gente comune, non a caso rieletto al vertice dello Stato per un secondo e pieno mandato, diversamente da quello breve del suo predecessore Giorgio Napolitano- tra i cittadini di Vigonovo nella struggente fiaccolata di ieri sera in memoria di Giulia Cecchettin. Che è, anzi era la laureanda in ingegneria biomedica sottratta alla giovinezza, ai sogni, ai genitori, agli amici da quello che doveva essere il fidanzato ed è stato invece il suo assassino. Di più, il suo aguzzino con tutte le sofferenze, fisiche e morali precedenti alle decine di coltellate infertele prima di caricarla sulla sua auto e di abbandonarla in un  dirupo lontano, scelto apposto per cercare di non farla trovare e, chissà, farla anche franca, o quasi, con la giustizia pur così male amministrata in Italia.  Con la quale, invece, dovrà fare i conti, ora che è stato catturato in Germania, dove è finita la sua corsa infame, e la sua estradizione è questione ormai solo di ore.

         La partecipazione del presidente Mattarella alla fiaccolata, in testa o fra la gente di Vigonovo, i genitori della vittima ed anche quelli dell’assassino, che ritenevano di avere un “figlio perfetto”, come ha detto sconsolato e inorridito il padre, avrebbe contribuito anche non dico ad evitare ma almeno ad attenuare, allontanare, compensare -come preferite- l’immancabile spettacolo della strumentalizzazione di questa ennesima tragedia del femminicidio. O dell’”uso politico” del delitto denunciato da Libero.  

         Scrivo di un uso politico tentato sicuramente dai soliti noti del teatrino, o teatraccio, dei partiti e dintorni dell’opposizione ma disgraziatamente -secondo me- raccolto e amplificato da chi è caduto nella provocazione. E si è messo a vantare -come ha fatto, per esempio, il Giornale– che nel 2023 governato in Italia da Giorgia Meloni e dalla sua maggioranza di destra-centro ci sono state “meno donne vittime” rispetto al passato di altri governi e altre maggioranze. Una cosa che mi sarei francamente risparmiata anche perché l’anno non è ancora finito e i numeri potrebbero prendersi una triste rivincita.

         Di fronte alla disinvoltura e scelleratezza  di certe polemiche che -ripeto- una presenza di Mattarella a Vigonovo avrebbe ancora più bollato come la solita miseria, trovo esemplare il comportamento e le parole del papà della vittima tradotto felicemente dal Secolo XIX nel titolo “Da Giulia nasca qualcosa”. O dal titolo, temo troppo ottimistico, del Giorno, Nazione e Resto del Carlino “Che sia l’ultima”. E non invece soltanto la penultima in una società purtroppo rivelatasi al di sotto di ogni ragionevole aspettativa, anche dopo le leggi che sono state già approvate in materia, prima che altre sopraggiungano in tempi pure brevissimi, visto che all’ultima messa in cantiere manca solo il voto di una delle due Camere: il Senato.

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Avviso ai populisti: c’è qualcosa di peggio della politica

         In questa giornata oscena di cronaca nera guardo anch’io con struggente nostalgia, pur non avendola conosciuta, la foto della giovane Giulia Cecchettin ancora viva e felice, prima di essere accoltellata, uccisa e buttata da Filippo Turetta in un dirupo quasi inaccessibile, nel tentativo di non fare mai trovare il corpo di quella che era stata la sua fidanzata. E mi consolo in qualche modo -per un paradosso procurato dall’abitudine di occuparmene quasi da quando avevo ancora i calzoni corti- solo all’idea di poter dire ai populisti, qualunquisti, professionisti della cosiddetta antipolitica che c’è qualcosa di peggio della politica. E’ l’uomo quando è capace di compiere cose del genere.

  Non parliamo poi degli uomini al plurale capaci delle guerre più insensate e orribili, come quelle in corso da quasi due anni nell’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin e quella riproposta dai terroristi di Hamas riprendendo l’obiettivo di Hitler di ammazzare più ebrei possibili, specie se vicini di casa.

         E’ mille volte preferibile la politica, della quale è pur vero considerare la guerra una sua prosecuzione, ma solo quando la si rifiuta come il mezzo che dovrebbe essere di comporre pacificamente nella democrazia i contrasti. O la si scambia per un esercizio cinico di ludismo a mezza strada fra lo scherzo e la realtà, come ce l’hanno appena riproposta sia Beppe Grillo sia Giuseppe Conte, il fondatore persino garante e il presidente del MoVimento 5 Stelle ancora operante, pur con i voti dimezzati rispetto al 2018.

         Ospiti di un incontro sull’intelligenza artificiale, con tanto di attrezzature quasi fantascientifiche, Grillo e Conte si sono scambiati il solito sfottò. L’uno dicendo di avere trovato l’altro “più espressivo che dal vivo”, cioè continuando a dubitare della sua autenticità. E l’altro, appunto, chiedendogli tra una selva di microfoni e telecamere  di smetterla di porlo in difficoltà con battute di doppio senso.

         In particolare, Conte ha chiesto a Grillo ciò che è impossibile, ingenuo, diciamo pure sciocco chiedere a un comico di professione:  premettere ad ogni suo spettacolo la sottolineatura del suo carattere parossistico. L’ex premier insomma non si è ancora reso conto della natura appunto paradossale, e perciò antipolitica, del suo movimento o quasi partito, com’è diventato attingendo anch’esso a ciò che rimane del finanziamento pubblico, odiato sino a due anni fa  più di quanto non lo fosse stato dalla buonanima di Marco Pannella. Che rimase un politico sino all’ultimo momento di vita, mai fuggendo o nascondendosi nella comicità.

         E pensare che un partito professionale, diciamo così, come dovrebbe essere il Pd nato dalla fusione fra i resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli liberali e verdi,  continua o ha ripreso a  inseguire con la nuova segretaria Elly Schlein il cosiddetto “campo largo” con i grillini, o “giusto” come preferisce chiamarlo Conte con una certa presunzione.

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Sconfitta rossoblu nello sciopero generale di Landini e Bombardieri

         Già imprudenti sul piano scaramantico nella scelta di un venerdì 17 per lo sciopero generale tinto del rosso della Cgil e del blu della Uil per quello che doveva essere lo scacco matto al governo, Maurizio Landini e Pier Paolo Bombardieri hanno avuto molto da ridere in piazza ma molto più da piangere nei loro uffici, a spulciare i dati di partecipazione effettiva dei lavoratori alla protesta contro Giorgia Meloni e, ancor più per loro scelta, Matteo Salvini. Definito “bullo istituzionale” per avere contestato la legittimità del carattere generale dello sciopero, al pari dell’Autorità di garanzia, e per il ricorso alla precettazione nel settore del trasporto pubblico.

         I due sindacalisti hanno un po’ rivissuto, fatte naturalmente tutte le debite differenze, il dramma o la delusione del povero Pietro Nenni di fronte alla sconfitta del cosiddetto fronte popolare nelle elezioni ormai storiche del 1948, quando si accorse che tanto erano state piene le piazze della sinistra quanto vuote le urne, insufficienti cioè i voti per poter vincere la partita ingaggiata contro la Dc e Alcide Gasperi. Di cui non vorrei adesso che i fratelli d’Italia della Meloni e i leghisti di Salvini, montandosi troppo la testa, si sentissero eredi.

         Le adesioni allo sciopero nel maggiore settore della pubblica amministrazione, la scuola, sono state appena del 6,5 per cento. I treni ad alta velocità hanno tutti viaggiato regolarmente, o quasi. Gli altri no, ma limitatamente, decisamente al di sopra di ciò che si attendevano i capi sindacali promossisi sul campo con alquanta disinvoltura.

         Non è stato forse un caso, subodorando cioè la realtà, che entrami i contendenti alla guida dell’opposizione politica al governo, la segretaria del Pd Elly Schlein e il presidente delle 5 Stelle Giuseppe Conte, hanno preferito tenersi lontani dalla piazza, pur avendo partecipato nelle loro sedi alle critiche al governo.

         Ma un colpo forse ancora più duro delle scarse adesioni allo sciopero generale è giunto anche ai sindacati, e non solo alla Schlein e a Conte, dall’agenzia internazionale di rating Moody’s con la promozione dell’Italia governata dalla Meloni: “Baa 3 e outlock stabile”, dice la formula tecnica, pur in presenza di un debito alto e della necessità di ridurre il deficit. Da Moody’s invece la coppia rossoblu, ma anche l’opposizione politica nel suo complesso, si aspettava una mano per rappresentare il Paese governato dal centrodestra, o dalla destra-centro, prossimo a “sbattere”, come i sindacalisti hanno gridato in piazza con compiaciuto autolesionismo.

         Nonostante tutto questo, il giornale debenedettiano non dei radicali ma della “radicalità”- Domani– ha titolato su tutta la prima pagina che “le piazze piene allarmano Meloni”. E la storica testata dell’Unità ha gridato, non so se più sorpresa o compiaciuta: “C’è vita a sinistra”. Ma vita da cani, mi pare, con immutata amicizia e simpatia per Piero Sansonetti, il direttore del giornale che fu del Pci.

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La segretaria del Pd riscopre la centralità del Parlamento. Meglio tardi che mai

Conoscitore com’è anche per radicate ragioni familiari delle virtù ma pure dei vizi della sinistra, Federico Geremicca sulla Stampa ha insinuato il sospetto che, rifiutando l’invito alla festa annuale della Destra di Giorgia Meloni -chiamata Atreju, come il bambino allevato dalla sua tribù nel romanzo “La storia infinita” di Michael Ende-  sulla segretaria del Pd Elly Schlein si fosse allungata “l’ombra della presunzione e arroganza”  che tanto danno ha fatto alla sua parte politica. Essa è diventata anche per questo “antipatica”, secondo il celebre saggio di Luca Ricolfi. Un’ombra di “superiorità” certamente più credibile della ragione armocromatica prospettata da chi ha scritto o insinuato invece che la Schlein non abbia nulla di nero nel suo guardaroba, e sia stata sconsigliata dalla sua amica e consulente di moda dal procurarsene perché quel colore le starebbe malissimo. Se è per questo, la signora o signorina del Nazareno avrebbe potuto cercare e trovare alla fine un altro colore.

         Ma anche dell’ombra della presunzione e dell’arroganza Geremicca ha finito per dubitare ricordandosi della provenienza non comunista o, più in generale, di una certa sinistra della Schlein, “che ha ripreso dopo anni la tessera del Pd solo per poter partecipare alle primarie” poi vinte nella scalata al vertice del partito. E allora Federico ha ripiegato sulla ragione ufficiale del rifiuto addotta dalla Schlein e apparsagli all’inizio inattendibile, e comunque sbagliata perché sottrarsi ad ogni confronto è sempre un errore, una “occasione mancata”. La ragione sarebbe quella di preferire ad una festa di partito, pur nello scenario suggestivo e quasi natalizio, a metà dicembre, del romanissimo Castel Sant’Angelo, la Camera dei Deputati di cui entrambe fanno parte. Che sarebbe poi anche un modo di rivalutare -si è augurato Geremicca, pur con qualche segno di scetticismo- un Parlamento un pò in affanno per il soverchiante peso del governo e dei suoi troppi decreti legge, destinati coi loro tempi abbreviati a passare come tanti bulldozer sul bicameralismo ancora vigente nella carta costituzionale.

         Per fortuna, debbo dire, l’ultimo “pacchetto sicurezza” uscito dal Consiglio dei Ministri col dichiarato “orgoglio” della premier è fatto di disegni di legge e non di decreti, di cui ho sentito parlare in qualche trasmissione televisiva. Il suo sarà pertanto un percorso ordinario. Come anche quello, al tempo stesso anche speciale per la cosiddetta doppia lettura fra Camera e Senato, della riforma costituzionale su cui maggiore e più diretto potrà essere lo scontro fra la Schlein dai banchi dell’opposizione piddina e la Meloni dai banchi del governo. Una Meloni appena accusata in piazza dalla Schlein sotto il Pincio, per il suo progetto di premierato, cioè di elezione diretta del presidente del Consiglio, di voler “comandare” più ancora di governare con la doppia investitura del popolo e della fiducia del Parlamento. Mancando la quale, la Meloni avrebbe preferito che le Camere fossero sciolte automaticamente, ma ha dovuto accettare, nel testo della riforma appena controfirmato al Quirinale per la presentazione al Senato, la possibilità di una prova d’appello per il Parlamento di turno. Cui potrà chiedere la fiducia anche un altro, secondo governo presieduto da un eletto nelle liste della maggioranza.

Pubblicato sul Dubbio 

Il “pacchetto sicurezza” depositato dal governo sotto l’albero anticipato di Natale

         La foto ufficiale del “pacchetto di sicurezza” approvato ieri dal Consiglio dei Ministri, e costituito da alcuni disegni di legge destinati al percorso parlamentare prima di diventare esecutivi, è sicuramente quella che riprende la premier e i ministri riuniti, prima della seduta del governo, con i rappresentanti delle forze dell’ordine, ben lieti anche dell’aumento degli stipendi che vi è incluso.

         La foto non ufficiale, ma non meno emblematica, è quella d’archivio dell’albero di Natale che ogni anno si allestisce nel cortile di Palazzo Chigi. E che oggi immagino al suo posto con l’anticipo di un mese, e quel pacchetto depositato sotto come dono agli italiani comprensibilmente desiderosi di maggiore ordine. O legalità, come ha gridato Il Giornale in prima pagina titolando sull’”ora legale”.

Ora legale così spiegata dal direttore Alessandro Sallusti a conclusione del suo soddisfattissimo editoriale: “Di legale in Italia c’è soltanto l’ora, ebbe a dire Roberto Benigni” presumibilmente nelle stagioni nelle quali vige derogando a quella solare. “Non dico che avesse tutti i torti, ma da oggi -ha scritto Sallusti- certamente potremo contare almeno su qualche minuto di legalità in più”, a spese di borseggiatori, truffatori d’anziani, occupanti abusivi di case, autori di blocchi stradali,  rivoltosi nelle carceri e via elencando.

         Tutto bene, quindi? Alla malora la reazione sicuramene esagerata dell’Unità di Piero Sansonetti con quel titolo rossonero “Più carcere e meno sindacati”. Come fai a non dire che sono fascisti?” Giorgia Meloni e i sui ministri. Ed anche il più contenuto ma ugualmente critico titolo del Foglio contro “il trionfo della forca”? O contro “la faccia feroce” contestata dal giornale di Carlo De Benedetti –Domani- nella sua ultima versione di “radicalità”?

  Poiché ho la fortuna e la buona abitudine di leggere i giornali, e non solo di contribuire a scriverli, diversamente dalla collega giornalista professionista Gorgia Meloni, che ha confidato a Bruno Vespa di non leggerli per non rimanerne “influenzata” nella sua attività di governo, io mi sono fatto convincere a nutrire qualche dubbio dal “Buongiorno” di Mattia Feltri, così diverso per fortuna dal padre Vittorio, che La Stampa ha oggi pubblicato come editoriale. Egli se la prende, in particolare, col ministro della Giustizia Carlo Nordio -sulla carta, almeno, il più competente in materia, più ancora del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che si è intestato “il pacchetto”- perché si è ormai convertito all’idea, contestata quando faceva il  magistrato e insieme l’opinionista, di “inventarsi nuovi reati e, per quelli esistenti, aumentarne le pene”. “A voi -ha concluso Mattia rivolgendosi non più soltanto a Nordio- è consentito fare leggi e poi violarle, tanto non ne pagate le conseguenze, e se le vittime delle vostre violazioni si ribellano, fate altre leggi per bastonarle meglio. E poi lo chiamate stato di diritto”, giustamente tutto al minuscolo.

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Miracolo di Conte alla Camera, dove scatena l’ira di Antonio Tajani

         Siparietto o siparione, come preferite, nell’aula della Camera. Dove Giuseppe Conte, smanioso forse di liberarsi dell’immagine appena applicatagli da Beppe Grillo di uomo che parla molto e si fa capire poco, ha dato del “codardo”  al governo Meloni per l’astensione del delegato italiano all’Onu sulla mozione per una tregua umanitaria a Gaza. Che fu chiesta peraltro nel momento in cui faceva più comodo ad Hamas per riorganizzarsi nei sotterranei degli ospedali, delle case, delle scuole, dei campi profughi palestinesi per proseguire la sua attività terroristica contro gli ebrei.

         Il solitamente calmo, pacioso ministro degli Esteri Antonio Tajani, ora anche segretario di Forza Italia ancora presieduta da morto da Silvio Berlusconi, ha tirato fuori non le unghie di un gatto ma una zampa da leone e, a costo di spezzarli fra le mani, ha sventolato contro Conte i suoi occhiali gridando tutta la sua indignazione. E obbligandolo poi ad un nuovo intervento in cui l’ex premier e capo ora di ciò che rimane del MoVimento 5 Stelle ha cercato di distinguere il carattere generale da quello personale della sua accusa di vigliaccheria. E così egli è tornato al clichè grillino di chi parla molto e si fa capire poco, come un politico di professione nella immaginazione del comico ancora garante, e consulente a pagamento, del quasi partito che contende al Pd la guida delle opposizioni e della futuribile alternativa al centrodestra, o destra-centro. Dimenticando peraltro che l’Italia all’Onu si è trovata nell’occasione denunciata alla Camera in compagnia, fra gli altri, degli inglesi. Cioè, in abbastanza buona compagnia.  

         Sono così finite nel cestino le fotografie, del resto poche, di Conte e Tajani in armoniose strette di mano, se non solidarietà vere e proprie. E Dio solo sa quanto in questa lunga vigilia congressuale di Forza Italia il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri abbia bisogno di apparire ed essere non un gattone ingrassato, o il “coniglio mannaro” che ogni tanto veniva dato  al mio amico Arnaldo Forlani, ma un leone davvero fuggito dal circo di Ladispoli e non ripreso. Anche su questo hanno tenuto da ridire al Fatto Quotidiano lamentando il silenzio distratto, o complice con Tajani, dei deputati del Pd nel più o meno epico scontro a Montecitorio fra Conte e il governo.

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