La scoperta leghista di Forlani 31 anni dopo avere contribuito a negargli il Quirinale

         Già ricordato dal presidente dell’assemblea Lorenzo Fontana il 25 luglio scorso nell’aula di Montecitorio, diciannove giorni dopo la morte, Arnaldo Forlani è stato ancor più commemorato ieri in un affollato convegno nell’aula dei gruppi della Camera alla presenza del Capo dello Stato.

         Rispetto a tre mesi fa, nel saluto introduttivo il presidente leghista di Montecitorio è stato ancora più prodigo di riconoscimenti al “grande protagonista” di quella che usiamo chiamare prima Repubblica, elogiandone la “larga visione”, la “disposizione all’ascolto”, la tendenza a “persuadere piuttosto che imporre le proprie concezioni”.

Fontana, che con i suoi 43 anni rappresenta la nuova generazione del partito che fu di Umberto Bossi, non si è spinto a dirlo -sarebbe stato troppo per un leghista pur giovane- ma Forlani avrebbe ben meritato per le sue qualità di essere eletto alla Presidenza della Repubblica nel 1992, quando fu candidato dal partito di cui era segretario per la seconda volta  ma non sostenuto abbastanza nel segreto dell’urna, essendogli mancati nel secondo ed ultimo scrutinio della sua corsa, prima della  rinuncia, 29 voti. La Lega ne aveva, fra deputati e senatori, un’ottantina, tutti spesi contro Forlani. Erano altri tempi. E lo stesso Bossi era un altro rispetto a quello che sarebbe diventato dopo due anni alleandosi con Silvio Berlusconi, rompendo dopo nove mesi, sì, ma poi riaccordandosi definitivamente.

Fra gli interventi successivi al saluto del presidente della Camera nella commemorazione del mancato presidente della  prima Repubblica -che avrebbe sicuramente gestito diversamente dalla buonanima del pur collega di partito Oscar Luigi Scalfaro il passaggio alla seconda- ho trovato particolarmente toccante la testimonianza dell’arrivo di Forlani al Ministero degli Esteri, nel 1976, da parte dell’ambasciatore Umberto Vattani. Che fu colpito con i suoi colleghi diplomatici dall’interesse di Forlani per la politica estera e dalla sua volontà di svilupparla a tal punto che forse la pur notevole struttura della Farnesina non era in grado di assecondarlo.

         Peccato che Vattani non abbia avuto il tempo troppo ristretto lasciato ai relatori per ricordare dell’esperienza di Forlani alla Farnesina negli anni della cosiddetta maggioranza di solidarietà nazionale estesa sino al Pci, il momento forse più significativo della sua personalità. Durante il rapimento di Aldo Moro, per quanto i comunisti si fossero inchiodati alla cosiddetta linea della fermezza, egli strappò all’allora segretario generale dell’Onu Kurt Waldheim un appello alle brigate rosse perché liberassero il loro ostaggio. Neppure quell’intervento -come anche l’appello “in ginocchio” di Papa Montini-  riuscì a smuovere quegli assassini tanto feroci quanto stupidi, alla ricerca ostinata, spavalda di un “riconoscimento” alla fine ottenuto ma  ignorato: per sfortuna del povero, incolpevole Moro ma per fortuna dello Stato ch’essi avrebbero voluto abbattere con la loro velleitaria rivoluzione.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

L’aggressione mediatica alla Meloni per la tragedia di Giulia Cecchettin

Caro direttore, ti prego di permettermi una postilla al tuo coraggioso editoriale garantista -nei tempi che corrono, quando il garantismo continua ad essere per molti una mezza parolaccia- sui diritti che ha tuttora, in attesa del processo, Filippo Turetta. Sì, proprio lui, il giovane veneto catturato in Germania e accusato di avere massacrato a coltellate l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, contraria a riprendere con lui una relazione, diciamo così, difficile.

         Fra i diritti di Turetta, oltre a quello del “giusto processo” imposto dall’articolo 111 della Costituzione modificato nel 1999 dopo lo scempio compiuto con gli abusi negli anni delle cosiddette “mani pulite”, credo vi sia anche quello di non vedersi attribuire complici diretti o indiretti nella sua condotta, o solo nella sua interpretazione dei rapporti interpersonali, affettivi o solo di genere.

         Fra questi complici -non faccio altri nomi, specie di colleghi, per il rispetto che ho ancora della nostra professione- ho visto, sentito e letto anche quello di Giorgia Meloni per la sua presunta concezione “patriarcale” della famiglia nel trittico della destra con Dio e la Patria.

Deriverebbe da questa concezione, entrata di soppiatto quasi nel nostro dna, anche il fenomeno del femminicidio, ostinato a resistere a tutte le evoluzioni sociali e legislative, anche o soprattutto in paesi -per esempio, quelli nordici- considerati molto più avanti dell’Italia. Che, questa volta per fortuna, è tuttavia rimasta un po’ il fanalino di coda nelle statistiche delle donne ammazzate dagli uomini.

         Questa specie di reato della concezione “patriarcale” della famiglia, e dei suoi conseguenti rapporti, interni ed esterni, è stata attribuita alla Meloni per la sua scelta, all’arrivo a Palazzo Chigi l’anno scorso, di farsi chiamare con tanto di comunicati da accademia della Crusca presidente del Consiglio al maschile, e non al femminile. Per fortuna neppure a me che ho continuato sempre a preferire di darle della presidente del Consiglio o della premier, è ancora giunta qualche diffida, multa, sanzione o altro accidente.  

         Mi è appena capitato di assistere ad una specie di processo sommario e in diretta televisiva alla Meloni per avere contribuito a coltivare e diffondere questa cultura -chiamiamola così- così pericolosa per i fraintendimenti cui si presta. E mi sono chiesto -credimi- se questo sia davvero giornalismo. E davvero libertà di stampa, informazione, opinione e quant’altro.

Pubblicato sul Dubbio

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