Sconfitta rossoblu nello sciopero generale di Landini e Bombardieri

         Già imprudenti sul piano scaramantico nella scelta di un venerdì 17 per lo sciopero generale tinto del rosso della Cgil e del blu della Uil per quello che doveva essere lo scacco matto al governo, Maurizio Landini e Pier Paolo Bombardieri hanno avuto molto da ridere in piazza ma molto più da piangere nei loro uffici, a spulciare i dati di partecipazione effettiva dei lavoratori alla protesta contro Giorgia Meloni e, ancor più per loro scelta, Matteo Salvini. Definito “bullo istituzionale” per avere contestato la legittimità del carattere generale dello sciopero, al pari dell’Autorità di garanzia, e per il ricorso alla precettazione nel settore del trasporto pubblico.

         I due sindacalisti hanno un po’ rivissuto, fatte naturalmente tutte le debite differenze, il dramma o la delusione del povero Pietro Nenni di fronte alla sconfitta del cosiddetto fronte popolare nelle elezioni ormai storiche del 1948, quando si accorse che tanto erano state piene le piazze della sinistra quanto vuote le urne, insufficienti cioè i voti per poter vincere la partita ingaggiata contro la Dc e Alcide Gasperi. Di cui non vorrei adesso che i fratelli d’Italia della Meloni e i leghisti di Salvini, montandosi troppo la testa, si sentissero eredi.

         Le adesioni allo sciopero nel maggiore settore della pubblica amministrazione, la scuola, sono state appena del 6,5 per cento. I treni ad alta velocità hanno tutti viaggiato regolarmente, o quasi. Gli altri no, ma limitatamente, decisamente al di sopra di ciò che si attendevano i capi sindacali promossisi sul campo con alquanta disinvoltura.

         Non è stato forse un caso, subodorando cioè la realtà, che entrami i contendenti alla guida dell’opposizione politica al governo, la segretaria del Pd Elly Schlein e il presidente delle 5 Stelle Giuseppe Conte, hanno preferito tenersi lontani dalla piazza, pur avendo partecipato nelle loro sedi alle critiche al governo.

         Ma un colpo forse ancora più duro delle scarse adesioni allo sciopero generale è giunto anche ai sindacati, e non solo alla Schlein e a Conte, dall’agenzia internazionale di rating Moody’s con la promozione dell’Italia governata dalla Meloni: “Baa 3 e outlock stabile”, dice la formula tecnica, pur in presenza di un debito alto e della necessità di ridurre il deficit. Da Moody’s invece la coppia rossoblu, ma anche l’opposizione politica nel suo complesso, si aspettava una mano per rappresentare il Paese governato dal centrodestra, o dalla destra-centro, prossimo a “sbattere”, come i sindacalisti hanno gridato in piazza con compiaciuto autolesionismo.

         Nonostante tutto questo, il giornale debenedettiano non dei radicali ma della “radicalità”- Domani– ha titolato su tutta la prima pagina che “le piazze piene allarmano Meloni”. E la storica testata dell’Unità ha gridato, non so se più sorpresa o compiaciuta: “C’è vita a sinistra”. Ma vita da cani, mi pare, con immutata amicizia e simpatia per Piero Sansonetti, il direttore del giornale che fu del Pci.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

La segretaria del Pd riscopre la centralità del Parlamento. Meglio tardi che mai

Conoscitore com’è anche per radicate ragioni familiari delle virtù ma pure dei vizi della sinistra, Federico Geremicca sulla Stampa ha insinuato il sospetto che, rifiutando l’invito alla festa annuale della Destra di Giorgia Meloni -chiamata Atreju, come il bambino allevato dalla sua tribù nel romanzo “La storia infinita” di Michael Ende-  sulla segretaria del Pd Elly Schlein si fosse allungata “l’ombra della presunzione e arroganza”  che tanto danno ha fatto alla sua parte politica. Essa è diventata anche per questo “antipatica”, secondo il celebre saggio di Luca Ricolfi. Un’ombra di “superiorità” certamente più credibile della ragione armocromatica prospettata da chi ha scritto o insinuato invece che la Schlein non abbia nulla di nero nel suo guardaroba, e sia stata sconsigliata dalla sua amica e consulente di moda dal procurarsene perché quel colore le starebbe malissimo. Se è per questo, la signora o signorina del Nazareno avrebbe potuto cercare e trovare alla fine un altro colore.

         Ma anche dell’ombra della presunzione e dell’arroganza Geremicca ha finito per dubitare ricordandosi della provenienza non comunista o, più in generale, di una certa sinistra della Schlein, “che ha ripreso dopo anni la tessera del Pd solo per poter partecipare alle primarie” poi vinte nella scalata al vertice del partito. E allora Federico ha ripiegato sulla ragione ufficiale del rifiuto addotta dalla Schlein e apparsagli all’inizio inattendibile, e comunque sbagliata perché sottrarsi ad ogni confronto è sempre un errore, una “occasione mancata”. La ragione sarebbe quella di preferire ad una festa di partito, pur nello scenario suggestivo e quasi natalizio, a metà dicembre, del romanissimo Castel Sant’Angelo, la Camera dei Deputati di cui entrambe fanno parte. Che sarebbe poi anche un modo di rivalutare -si è augurato Geremicca, pur con qualche segno di scetticismo- un Parlamento un pò in affanno per il soverchiante peso del governo e dei suoi troppi decreti legge, destinati coi loro tempi abbreviati a passare come tanti bulldozer sul bicameralismo ancora vigente nella carta costituzionale.

         Per fortuna, debbo dire, l’ultimo “pacchetto sicurezza” uscito dal Consiglio dei Ministri col dichiarato “orgoglio” della premier è fatto di disegni di legge e non di decreti, di cui ho sentito parlare in qualche trasmissione televisiva. Il suo sarà pertanto un percorso ordinario. Come anche quello, al tempo stesso anche speciale per la cosiddetta doppia lettura fra Camera e Senato, della riforma costituzionale su cui maggiore e più diretto potrà essere lo scontro fra la Schlein dai banchi dell’opposizione piddina e la Meloni dai banchi del governo. Una Meloni appena accusata in piazza dalla Schlein sotto il Pincio, per il suo progetto di premierato, cioè di elezione diretta del presidente del Consiglio, di voler “comandare” più ancora di governare con la doppia investitura del popolo e della fiducia del Parlamento. Mancando la quale, la Meloni avrebbe preferito che le Camere fossero sciolte automaticamente, ma ha dovuto accettare, nel testo della riforma appena controfirmato al Quirinale per la presentazione al Senato, la possibilità di una prova d’appello per il Parlamento di turno. Cui potrà chiedere la fiducia anche un altro, secondo governo presieduto da un eletto nelle liste della maggioranza.

Pubblicato sul Dubbio 

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