La doccia fredda, anzi gelata, di Marcello Pera sui contrari al Premierato

         Per come lo conosco -ed è difficile che sia cambiato iimprovvisamente alla sua età, compiendo 81 anni a fine gennaio- Marcello Pera non rimarrà né sorpreso né dispiaciuto della fine dell’improvvisa e rapida attenzione riservatagli dalla sinistra per certe distanze prese dalla riforma costituzionale del premierato appena annunciata da Giorgia Meloni. Nelle cui liste egli è pur tornato l’anno scorso al Senato dopo averlo presieduto ai tempi in cui faceva parte della berlusconiana Forza Italia, o di quella variante che fu il Partito della Libertà, rigorosamente al singolare per il suo carattere unico e assertivo. Che Gianfranco Fini invece scambiò e praticò al plurale per sfasciarlo contestando progressivamente la leadership di Silvio Berlusconi, sino a farsene “cacciare”. Come poi si lamentò per spiegare, giustificare e quant’altro la disinvolta decisione presa come presidente della Camera eletto dalla maggioranza di centrodestra di ospitare nel suo ufficio i promotori di una mozione di sfiducia al governo dello stesso Berlusconi. E  di aiutarli a redigerne il testo.

         Ma torniamo a Pera e alle speranze, oltre alle attenzioni, suscitate dalle sue prime reazioni o riserve -chiamatele come volete- espresse all’annuncio del disegno di legge sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. Da persona seria com’è, vista la strumentalizzazione tentata dalle opposizioni di alcuni suoi rilievi tecnici, che peraltro egli ha confermato augurandosi di vederli superati nel percorso parlamentare della riforma, Pera ha profittato della occasione offertagli da un’intervista ai giornali del gruppo Monti Riffeser- Il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione- per una “premessa” di chiarimento, probabilmente frutto anche di un confronto personale avuto con la premier. Eccola: “Questa volta la riforma si farà. La presidente del Consiglio l’ha promessa agli italiani e la maggioranza su questo punto è coesa. Giorgia Meloni va presa alla lettera”. “Perciò -ha proseguito incalzando lui gli avversari della premier- ci sarebbe bisogno anche che l’opposizione si facesse sentire, che proponesse qualcosa”, senza arroccarsi nella pratica già sperimentata a sinistra di fare le riforme istituzionali “gli uni contro gli altri”. 

         E il prevedibile referendum finale, mancando prevedibilmente la maggioranza parlamentare dei due terzi per evitarlo? “I referendum- -ha risposto e al tempo stesso chiarito l’ex presidente del Senato- sono una lotteria. Quello di Berlusconi non passò perché nel frattempo avevamo perduto le elezioni, eravamo molto deboli, c’era già un altro governo. Quello di Renzi non è passato per una colpa irredimibile che si chiama Renzi. Ma questa volta Giorgia Meloni può vincere. La domanda che porrà –“volete voi che a governare sia il premier eletto o i partiti politici?”- contiene si un po’ di antipolitica, ma ad oggi ha un consenso positivo molto ampio. Se fossi nell’opposizione, non confiderei troppo nel referendum”.  Una doccia fredda, direi, anzi gelata. 

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In meno di un anno Elly Schlein è già passata in piazza alla sua seconda fase

Abbastanza giovane con i suoi 38 anni, quasi 10 in meno di una Gorgia Meloni entrata in politica però molto prima di lei e perciò più attrezzata per forza di cose, Elly Schlein ha forse commesso per inesperienza nell’affollata piazza romana del Popolo sabato scorso un errore che si sarebbero forse risparmiati, non foss’altro per ragioni scaramantiche, quei vecchi marpioni del suo partito nascosti nel retropalco. Ha esplicitamente, orgogliosamente ma anche imprudentemente aperto “una fase nuova” della sua segreteria che pure non ha compiuto ancora nemmeno il primo anno festeggiato invece dalla Meloni a Palazzo Chigi.

         Capi di governo o di partito -sia nella prima sia nella seconda Repubblica di cui ci siamo abituati a parlare anche a Costituzione invariata- avventuratisi in seconde fasi delle loro avventure hanno generalmente finito per avvicinarne anziché ritardarne l’epilogo. Ma non c’è regola naturalmente che non abbia la sua eccezione, per cui la Schlein potrebbe essere la prima a sfatare questa leggenda e a svolgere per intero il mandato congressuale di quattro anni da lei già opposti a quanti ne hanno prospettato l’interruzione con i risultati delle elezioni europee di giugno del 2024, se non dovessero essere positivi per il Pd oggi attestato attorno al 18 per cento dei voti. Tallonato dal MoVimento 5 Stelle di Giuseppe Conte al 17, che gli contende perciò il primato nella costruzione dell’”alternativa” al centrodestra meloniano, o destra-centro, fisicamente indicata dalla stessa Schlein nella piazza romana. Alla quale si è presentata -chissà perché- in viola quaresimale anziché nel rosso vivace scelto due giorni prima in televisione per essere ospitata da Bruno Vespa. E in quella piazza c’era anche Conte – uno che “parla molto e si capisce poco”, parola di Beppe Grillo- non sopra il palco ma fra il pubblico, come il leone in quelle ore in fuga per le strade di Ladispoli dopo essere scappato dal circo.

         Non parliamo poi – a proposito di chi non vorrebbe aspettare i quattro anni del mandato congressuale per liberarsene- del mio amico Piero Sansonetti. Che dalla direzione della sua ritrovata Unità aveva rumorosamente chiesto il 7 novembre le dimissioni della Schlein per liberare il partito prima di chiuderlo, o quasi.

Sansonetti di fronte alla piazza romana di quattro giorni dopo ben affollata ha preso atto, sì, del successo di pubblico conseguito dalla segretaria ma è rimasto ugualmente “basito” dalla sua scala di valori, problemi e quant’altro avendo parlato della Palestina, peraltro senza molto impegno, e in disaccordo pure col padre, solo dopo avere criticato il governo sul tema della tassazione degli affitti brevi. E comunque ha trovato -sempre il mio amico Piero- quelle 50 mila persone raccoltesi sotto il Pincio troppo poche rispetto alle 500 mila, o 300 mila secondo altri, sfilate a Londra per la Palestina libera: si spera, almeno per quanto riguarda la mia personale opinione, anche dall’uso che ne fanno i terroristi di Hamas col permesso o le sollecitazioni, persino nella Nato -ripeto, la Nato- del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Roba da far cadere a terra il povero presidente americano Joe Biden senza neppure tentare di salire o di scendere da un aereo, o solo di accelerare il passo su un prato.

         Con la “fase nuova” annunciata nella gratificante piazza romana di sabato scorso la Schlein ha chiuso nella vecchia e buttata dietro le spalle anche la faticosa, a dir poco, missione compiuta il giorno prima al congresso -o quasi congresso- dei socialisti europei a Malaga. Dove neppure l’accorta rinuncia alla tentazione avvertita nel Pd di chiedere l’espulsione del premier albanese Edi Rama per il patto appena stipulato con l’Italia della destrissima Giorgia Meloni le aveva potuto risparmiare un certo isolamento, o una certa marginalità, sul tema spinosissimo dei migranti. La cui “esternalizzazione” da lei lamentata con il linguaggio criptico della politica, e concretizzatasi proprio con l’accordo italo-albanese per l’espletamento delle pratiche di asilo e protezione internazionale dei migranti soccorsi in mare da navi italane, era stata invece difesa in contraddittorio quasi diretto dalla vice presidente tedesca dell’Europarlamento Katerina Barley.

         La partenza in anticipo, e tutta fretta, da Malaga per non compromettere la partecipazione alla manifestazione di piazza a Roma del giorno dopo, preparata con tanta cura dai suoi collaboratori mobilitando 170 pullman e 7 treni straordinari, ha poi risparmiato alla Schlein lo spettacolo del cancelliere socialista in persona della Germania, Olaf Sholz. Che si è presentato a Malaga per dichiarare testualmente: “Seguiremo con attenzione l’esperimento dei centri che l’Italia vuole istituire in Albania. Ciò che conta è istituire un meccanismo di solidarietà nell’Unione Europea e non cercare di vincere le sfide da soli”.

         E’ stata musica naturalmente per le pur lontane orecchie sia della Meloni sia, o soprattutto, del premier albanese già spintosi a definire “pazzo” il Pd per le sue critiche all’intesa con una Italia che per lui “non è né la destra né la sinistra, ma un insieme di tutto quello che rappresenta per me e per noi albanesi: un paese straordinario col quale siano indissolubilmente legati”. Per cui “è sempre un onore poter dare una mano quando ce lo chiede”. E meno male che Rada si è fermato al “pazzo”, senza dare al Pd, come per altri versi il piddino Vincenzo De Luca in Italia, del “demente e maleducato”.

Pubblicato parzialmente sul Dubbio

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