Il governo Meloni spiazza gli avversari con una stangata alle banche

         Non dico ridendo come in certe foto d’archivio, ma di certo con qualche motivo di soddisfazione Giorgia Meloni ha adottato in Consiglio dei Ministri alcune misure che sarebbe piaciuto prendere ad alcuni avversari di sinistra che la stanno mettendo in croce: per esempio, la “stangata alle banche” annunciata da un giornale finanziario per ridurre le trattenute sugli stipendi e sostenere i titolari di mutui.

         Non si è ancora ben capito, in verità, in quanti provvedimenti di immediata applicazione siano state calate le misure decise dal governo su più versanti: dai taxi ai treni, dal Covid al ponte sullo stretto di Messina, sotto le cui arcate passeranno anche gli stipendi d’oro dei manager che se ne occuperanno,  e all’intervento già citato sugli extraprofitti bancari. Sui giornali si va da un unico ”decreto omnibus” ai due indicati dal Corriere della Sera, agli otto della Stampa e, più genericamente, ai “decreti d’agosto” della Gazzetta del Mezzogiorno.

         Il solito Fatto Quotidiano ha preferito riferire di un solo decreto legge per potere meglio  attaccare sia la Meloni, che vi avrebbe fatto ricorso nonostante le ripetute proteste di Mattarella dal Quirinale contro l’abitudine di usare i provvedimenti come salsicce, sia lo stesso Mattarella che anche questa volta “mugugna e firma” per soccorrere la premier alle prese magari con problemi più personali che politici, ma proprio per questo più fastidiosi.

         Uno, per esempio, è quello che gli avversari della premier non intendono archiviare con le scuse pubbliche -continuando a reclamarne le dimissioni- di Massimo De Angelis, portavoce  del presidente della regione Lazio e già parlamentare di destra e direttore del Secolo d’Italia. Che nel 43.mo anniversario della strage alla stazione ferroviaria di Bologna, dove morirono più di ottanta persone nell’esplosione di una bomba, ha riproposto in polemica anche contro il capo dello Stato  l’innocenza -in passato sostenuta pure  da esponenti di sinistra- dei condannati di destra con sentenza definitiva. Ancora oggi sull’Unità da poco riportata nelle edicole Piero Sansonetti ha titolato: “L’assurdo caso De Angelis- Dire ciò che ragionevolmente si pensa su una sentenza è uno scandalo. (Anche a Mosca è così)”. Ma l’aggravante di De Angelis è la quasi parentela, o mancata, diciamo così, dell’ex parlamentare della destra con la Meloni, che fu fidanzata del fratello. Siamo insomma ai confini di una eversione familiare.

         L’altro problema un po’ anche personale della Meloni è la contestata ministra del Turismo, amica e collega di partito Daniela Santanchè, sfuggita di recente alla sfiducia “individuale” tentata al Senato dagli avversari e socia nella sua nota e discussa “Visibilia” di Luca Giuseppe Reale Ruffino, subentratole al vertice della società l’anno scorso e suicidatosi sabato scorso a Milano. Un suicidio avvenuto, secondo molti titoli di oggi sui giornali, senza le motivazioni di salute ventilate ieri fra le righe delle cronache nere e giudiziarie.

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Misterioso suicidio del successore di Daniela Santanchè in “Visibilia”

         Chi più e chi meno, ma col maggiore risalto sul Corriere della Sera, non vi è giornale che non abbia riferito in prima pagina di un suicidio misterioso risalente a sabato 5 agosto. Si è tolto la vita a Milano, sparandosi con una pistola regolarmente posseduta, il “re dei condomini” -come lo chiamavano nell’ambiente- Luca Giuseppe Reale Ruffino. Amministrava con la sua società 80 mila palazzi. Aveva compiuto da poco 60 anni. Già segretario locale dell’Udc, aveva spostato frequentazioni e simpatie verso la destra ambrosiana capeggiata da Ignazio La Russa e Daniela Santanchè, la ministra del Turismo della quale aveva rilevato quote per oltre un milione di euro della società “Visibilia” in prossimità del suo ingresso nel governo, nell’ottobre dello scorso anno.

         Più dell’amministrazione di decine di migliaia di condomini, hanno naturalmente incuriosito i giornali -ma temo anche gli inquirenti, se è vero che si indaga anche per istigazione al suicidio- i rapporti del ricco Ruffino con la ministra appena uscita vittoriosa al Senato dallo scontro con le opposizioni che ne avevano proposto la sfiducia “individuale” per i suoi affari precedenti all’esperienza di governo e attenzionati, diciamo così, da due Procure -di Milano e di Bergamo- e dalla testata televisiva Report, di Rai 3.

         Il quotidiano Repubblica si è in qualche modo vantato di averne raccolto “l’ultima intervista” nella quale Ruffino aveva preso “in parte le distanze dall’accusa di “soccorso nero” nei confronti della sua socia” ministra. “Ma quale soccorso nero. Daniela Santanchè- aveva detto l’acquirente delle sue quote di Visibilia- ci deve un milione e mezzo di euro e per questo ha messo a garanzia anche la sua casa. Non ho nulla da spartire con lei per il resto e stiamo sistemando le cose che abbiamo trovato”.

Quella di rilevarne le quote “è stata -aveva raccontato Ruffino- una scelta imprenditoriale. Viene fatta confusione tra la posizione debitoria  gigantesca che Santanchè ha nei confronti del mondo intero e la posizione della holding di cui sono presidente”, debitrice di soli 150 mila euro  in corso di pagamento all’Agenzia delle Entrate. “Santanchè invece -aveva raccontato Ruffino- è una mia debitrice. Siamo creditori verso di lei di una somma importante, un milione e mezzo di euro, che lei sa ripianando con rate mensili da 50 mila euro”. Il credito è passato naturalmente agli eredi del suicida.

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Matteo Salvini a sorpresa piccona un pò il “suo” ponte sullo stretto di Messina

A furia di escogitare piani attribuitigli da retroscenisti di ogni colore per contrastare o quanto meno contenere i numeri elettorali di una Giorgia Meloni alla quale è appena arrivato il riconoscimento di una “visibilmente e inattesamente bravura” da parte del pur parco ed esigente senatore a vita Mario Monti, il leader leghista Matteo Salvini si è data una zappa sui piedi. Ed ha un po’ picconato, diciamo così, il progetto che più gli sta a cuore, su cui ha scommesso di più, forse più ancora delle “autonomie differenziate” coltivate dal suo collega di governo e di partito Roberto Calderoli: il ponte sullo stretto di Messina.

         Nel pentolone dell’ultima riunione del Consiglio dei Ministri prima delle ferie anche del governo, per quanto più contenute per durata e intensità di quelle delle Camere, Salvini è riuscito a infilare -forse per una svista del sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano- una deroga al tetto di 250 mila euro degli stipendi pubblici per i manager che dovranno occuparsi della costruzione del ponte, appunto. Che così, già controverso di suo, a torto o a ragione, in ordine alla sua priorità rispetto ad altri interventi, rischia l’impopolarità proprio per questa storia degli stipendi in un Paese che purtroppo vive di salari generalmente fra i più bassi d’Europa, specie in settori vitali come quello dell’istruzione.

         Ora le opposizioni hanno un altro argomento a disposizione per contestare un ponte la cui mancanza pur sembra incongrua in un mondo dove si costruiscono -e peraltro crollano meno che da noi- ponti di ogni portata e avvenirismo. Stefano Rolli, uno di quei vignettisti che sanno precedere gli editorialisti, e superarli nella capacità di fare opinione, ha opposto alla notizia degli stipendi destinati nei propositi di Salvini ai manager che si occuperanno della realizzazione dell’opera di collegamento fra la Calabria e la Sicilia: “Poi dicono che le retribuzioni sono ferme”. E ciò su un giornale come Il Secolo XIX di Genova, cioè di una città che di ponti ne ha visti costruire e crollare.

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Un’estate pazza anche di dossieraggi e veleni su cui indaga Cantone a Perugia

         In attesa dei decreti di attuazione della legge delega approvata in via definitiva alla Camera per la riforma fiscale, che vedremo sino a quanto si meriterà l’aggettivo “storica” applicatole da Giorgia Meloni, godiamoci ciò che resta di questa estate “dei dossier e dei veleni”, come l’hanno definita i giornali che compongono Il Quotidiano Nazionale del gruppo Riffeser Monti. Dossier e veleni denunciati dal ministro della Difesa Guido Crosetto quando si è visto pubblicate su Domani, il giornale di Carlo De Benedetti, notizie riservate su di lui. Se ne sta occupando, come riferisce il Corriere della Sera, la Procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone. Ma vuole interessarsene anche il Copasir, cioè il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.

         Sarebbero non meno di 750 le persone dossierate da un sottufficiale della Guardia di Finanza già in servizio alla Dia -la Divisione Investigativa antimafia- occupandosi delle segnalazioni bancarie di operazioni finanziarie sospette. Un dossieraggio meno consistente ma non meno inquietante di quello compiuto a suo tempo dall’allora Sifar, come si chiamava il servizio segreto militare, che fu scoperto negli anni Sessanta: quelli in cui si temette anche un colpo di Stato per l’interruzione del centro-sinistra dalla quale fu tentato, in particolare nell’estate -anch’essa- del 1964, l’allora presidente della Repubblica Antonio Segni. Che, preoccupato del pericolo di disordini di piazza, sollecitò il comandante generale Giovanni De Lorenzo, finito poi deputato del Movimento Sociale, a mobilitare l’Arma dei Carabinieri.

         Del dossieraggio emerso in questa nostra estate, che secondo Crosetto sarebbe stato usato l’anno scorso anche per influire sulla formazione del governo Meloni, è quanto meno curiosa la sintonia che si è creata fra tre giornali per minimizzarne o negarne la portata. A destra La Verità di Maurizio Belpietro ha liquidato la vicenda come una “grande buffonata”. A sinistra, diciamo così, Marco Travaglio ha scritto sul Fatto Quotidiano che il segreto su Crosetto scoperto dal sottufficiale della Guardia di Finanza sotto indagine era di quelli di Pulcinella, essendo arcinoto “il suo conflitto d’interessi di capo dei costruttori d’armi che diventa ministro della Difesa”. E poi, sempre secondo Travaglio, “oltre a Crosetto, fra gli attenzionati figurano Conte, Casalino, Renzi e non politici come Totti”. “Ce n’era per tutti”, insomma, per cui non sarebbe il caso di farne un caso politicamente particolare.

         Il giormale di Carlo De Benedetti, Domani, dal canto suo ha continuato a usare il dossieraggio finito sotto inchiesta per picchiare contro il ministro della Difesa titolando oggi, sia pure in fondo alla prima pagina. “Ecco i Mangione, soci di Crosetto. L’ultima indagine del tenente Striano”, evidentemente degradato ingiustamente dagli altri cronisti giudiziari a maresciallo.

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Il brivido della patrimoniale passato per la schiena anche di Giorgia Meloni

Meno male, per il governo e, più in particolare, per la premier Giorgia Meloni e i suoi “fratelli d’Italia”, che la Camera dei Deputati si è decisa ad andare in ferie. Almeno per qualche settimana sarà scongiurato un altro “brivido” come quello passato ieri, quando la presidente del Consiglio ha appreso che la sua amica e collega di partito Paola Frassinetti, generosamente promossa sottosegretaria al Ministero dell’Istruzione e del Merito, aveva gravato il governo del compito di “valutare” l’introduzione di una tassa patrimoniale sopra i 500 mila euro di proprietà accogliendo un ordine del giorno di Nicola Fratoianni. Che è titolare, diciamo così, dell’unica formazione dichiaratanente e orgogliosamente di sinistra presente in Parlamento: “Sinistra italiana”, appunto.

         E meno male, ancora, che la sottosegretaria in un sussulto di responsabilità, prudenza e simili aveva avvertito l’opportunità, nell’esprimere a nome del governo il parere positivo alla proposta, di chiedere a Fratoianni, e di ottenere, la “riformulazione” dell’ordine del giorno per limitare “l’impegno” ad una semplice valutazione, non all’adozione di un provvedimento.

         Ma è bastata la promessa di una “valutazione”, denunciata prontamente dai renziani che si vantano di vigilare dall’opposizione la frontiera fiscale a difesa delle  tasche dei contribuenti, a fare sobbalzare la Meloni. Che era peraltro impegnata in un pranzo di lavoro con i vertici della maggioranza, a base di insalata di riso, due ricottine, mozzarella e prosciutto cotto, come riferisce l’informatissimo Foglio, per un maggiore e migliore coordinamento tra governo e gruppi parlamentari di centrodestra. Poco dopo è stato diffuso un comunicato per tirare fuori la maggioranza dalla “palude” in cui l’aveva ficcata la sottosegretaria di destra. “Valutazione fatta di corsa e patrimoniale esclusa”, ha riferito e riassunto con sollievo La Verità di Maurizio Belpietro.

         Al sollievo del giornale di destra si contrappongono naturalmente la delusione e la derisione dell’Unità, che per un po’ di ore ha rischiato di morire  per infarto di gioia nelle  edicole dove l’ha appena riportata Piero Sansonetti con Alfredo Romeo, l’editore anche del Riformista affidato a Matteo Renzi. Sormontato da un “occhiello” contro i “dilettanti allo sbaraglio”, il giornale storico dei comunisti italiani ha titolato in apertura: “Era ora: anche la destra vuole la patrimoniale! (Ma era uno sbaglio: Povera Giorgia!), ricollocatasi rapidamente al posto di affamatrice dei deboli e di protettrice  dei ricchi e degli evasori assegnatole dagli avversari di sinistra. Cui da qualche giorno, con un movimento appena costituito dall’ex ministro ed ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, si sono aggiunti avversari anche di destra. I quali la considerano rovinosamente convertita al “liberalismo e atlantismo”. Se ne discuterà sotto qualche ombrellone, in attesa che arrivi l’autunno e che Alemanno riesca a partecipare a qualche elezione.

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Il “terzopollismo” giustamente deriso da Marco Travaglio

         E’ forte la tentazione, ve lo debbo confessare, di cedere un po’ in questa pazza estate, d’altronde, di cedere a un po’ al qualunquismo inseguendo Salvatore Merlo col suo sarcastico racconto, sul Foglio, della Camera impegnata di prima mattina a discutere se continuare a permettere o no a parlamentari e ospiti di non indossare la cravatta o di calzare scarpe da ginnastica. O altri che hanno deriso Piero Fassino per avere sbagliato deliberatamente i conti di quanto prendono ogni mese i parlamentari sventolando, sempre nell’aula di Montecitorio, il cedolino dei suoi 4718 euro netti di luglio, senza tener conto dei circa 8 mila, sempre mensili e netti, di cosiddette diarie e benefit. Proprio lui  poi, Fassino,  di cui ho personalmente molta stima per essere stato fra i pochi a raccontare in una sua autobiografia tanti anni fa l’errore del pur mitico Enrico Berlinguer di lasciare superare il Pci da Bettino Craxi sulla strada del riformismo e dell’ammodernamento della sinistra, sin quasi a morirne a Padova nel 1984 dopo un comizio fisicamente devastante.

         Ma la notizia principale del giorno, anche rispetto alle rumorose polemiche sul colore politicamente nero della strage del 2 agosto 1980 nella stazione di Bologna, o a quelle sul reddito di cittadinanza tolto ai tanti cosiddetti “divanisti” difesi dal ritrovato “avvocato del popolo” Giuseppe Conte, è la dissoluzione di quello che un po’ tutti ci siamo abituati a chiamare “terzo polo” e anch’io -vi confesso pure questo- ho votato nelle elezioni politiche dell’anno scorso. Una dissoluzione compiuta secondo La Stampa col suo titolo sul “divorzio Renzi-Calenda”, o prossima a compiersi secondo Il Giornale. Che aspetta ancora il “passo” finale, forse per scaramanzia, desiderandolo forse più di tutti.

         E’ già da tempo, prima ancora dell’estate, della primavera e pure dell’inverno, già all’indomani del voto di settembre, che Renzi e Calenda, o viceversa in ordine alfabetico, come preferite, guardano l’uno in direzione opposta all’altro. C’è solo da scegliere la foto che ci piace di più nell’archivio prodotto dai due ritrovatisi chissà perché insieme un anno fa, quasi di questi tempi. Ormai Carlo e Matteo, come continuano curiosamente a chiamarsi, non sono più né alleati né concorrenti ma semplicemente avversari. L’uno cerca sempre più insistentemente di spostare l’altro a destra e viceversa, a sinistra, riuscendovi -bisogna riconoscerlo- alla perfezione. E, per giunta, non fra il compiacimento ma l’imbarazzo delle parti interessate.

         In attesa della formalizzazione della separazione dell’Italia Viva renziana e dell’Azione calendiana in entrambi i rami del Parlamento, forse una riuscendo a costruire un gruppo e l’altra confluendo in quello misto, salvo aiuti esterni all’ultimo momento, debbo ammettere che l’unica cosa a mettermi in imbarazzo è quella di dovermi riconoscere, una volta tanto, nel sarcasmo dei “terzopollisti” di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Mi doveva toccare anche questo. Pazienza.

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L’estate del corsaro Matteo Renzi ormai stufo dell’ingrato Calenda

         Nell’Italia della “occupazione da record senza boom economico”, secondo la rappresentazione di Avvenire, il giornale dei vescovi, e nell’estate più pazza del mondo, come molti l’hanno definita sotto tutti i punti di vista, Matteo Renzi ha deciso, o tentato, di riprendersi la scena proponendo anche formalmente in Senato l’elezione diretta del presidente del Consiglio in veste di sindaco d’Italia. Come dice lui che a suo tempo lo fece a Firenze, prima di scalare il Pd e Palazzo Chigi perdendo alla fine entrambi. “Pochi consensi, grandi mosse. Renzi è tornato”, hanno titolato in un piccolo richiamo di prima pagina La Nazione della sua Firenze, appunto, e gli affiliati Giorno e Resto del Carlino.

         Il Giornale della famiglia Berlusconi, pur ridotta dalla maggiore partecipazione della famiglia Angelucci, ha visto e indicato nella iniziativa di Renzi una “strizzata d’occhio ai “fratelli d’Italia” di una Giorgia Meloni tornata dai fasti della Casa Bianca alle miserie della “little Italy” indicate ieri dalla Stampa e riprese oggi anche da altri giornali. Fra i quali naturalmente ha cercato di distinguersi il solito Fatto Quotidiano con l’altrettanto solito fotomontaggio su una Meloni sempre sorridente, come nella campagna elettorale dell’anno scorso, ma non più pronta a “risollevare l’Italia”. Che è precipitata secondo i grillini nella povertà dalla quale essi l’avrebbero tirata fuori nel 2018 e anni successivi sforando i vincoli europei, introducendo il reddito di cittadinanza oggi sottratto da un minimo di 169 mila a un massimo di 240 mila famiglie e tagliando seggi parlamentari.

         Come accade peraltro in tutte le famiglie politiche, anche Renzi con la sua piccola Italia Viva e col cosiddetto terzo polo allestito con Carlo Calenda per le elezioni politiche dell’anno scorso, ma dichiaratamente proiettato di più verso le elezioni europee dell’anno prossimo, sottovaluta l’inconveniente di avere problemi in casa persino superiori a quelli esterni.

         Calenda, per esempio, non è più convinto dell’elezione diretta del presidente del Consiglio compresa nel programma dell’alleanza con Renzi, che glielo ha rinfacciato. “A forza di cambiare idea Carlo smentisce anche se stesso”, gli ha rimproverato Matteo, per rimanere al livello dei nomi e non dei cognomi. E quanto alle proteste dell’alleato -se lo si può ancora definire così- per le frequentazioni conviviali degli amici di una certa notorietà o peso  sorpresi a cena con la ministra di destra Daniela Santanchè nella Verisilia del Twiga, Renzi ha osservato parlandone al Corriere della Sera: di fronte al mondo che  va a pezzi dal Niger all’Ucraina, l’aumento dei prezzi che mette in ginocchio il ceto medio” e l’Europa al bivio fra “rilancio o morte del sogno dei padri fondatori…mi permetterà di non interessarmi alle cene di Bonifazi o di Richetti. Ognuno va a cena con chi vuole”, anche a costo di scandalizzare il Calenda che Renzi si mostra pentito di avere voluto “ministro, ambasciatore, candidato del terzo polo”.

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La festa della sinistra e dintorni per il calo del pil nel secondo trimestre dell’anno

Ciò che resta della sinistra, fra il Pd di Elly Schlein e il ritrovato “avvocato del popolo” Giuseppe Conte, che è riuscito persino a trasformare il fondatore e garante Beppe Grillo in un consulente a libro paga -avrebbe detto una volta lo stesso Grillo- del MoVimento 5 Stelle, festeggia il pur modesto calo del pil registrato dall’Istat nel secondo trimestre dell’anno. In festa anche Repubblica col titolo di annuncio che “l’economia adesso frena” e l’Italia è o torna “ultima tra big europei”. La Stampa racconta a suo modo “il difficile ritorno” di Gorgia Meloni dagli Stati Uniti “a Little Italy”, stretta fra i problemi interni della sua maggioranza e le proteste politiche e sociali contro il reddito di cittadinanza tolto con un sms dall’Inps a 169 mila famiglie. Che stanno salendo in queste ore a 249 mila, una rappresentanza delle quali, contenuta dalle forze dell’ordine, ha protestato a Napoli -e dove sennò?- non riuscendo tuttavia ad occupare tutta Piazza del Plebiscito.

         Il mio amico Piero Sansonetti ha colto l’occasione per fare tornare sempre di più alle origini la sua Unità per compiacersi che “il miracolo italiano” targato Meloni sia “durato 3 mesi” soltanto, superato dal “crollo del pil” e dal carovita che “sale”, anche se -in verità- l’inflazione risulta in contrazione. Persino il buon Davide Giacalone, sulla sua “Ragione” certamente non di sinistra, pur riconoscendo che non stiamo marciando verso la recessione, ha voluto titolare sulla “DeCrescita”.

         A leggerne solo l’incipit pure l’ex senatore Carlo Cottarelli, eletto nelle liste del Pd e dimessosi con l’arrivo della segretaria Schlein, sembra partecipe, sulla Stampa, dello smacco subìto dalla Meloni con i dati sul pil del secondo trimestre di quest’anno. “Ma- ha poi avvertito onestamente l’economista che Sergio Mattarella tentò nel 2018 di mandare a Palazzo Chigi al posto di Conte- come era sbagliato prima esultare prematuramente” per la crescita del pil nel primo trimestre “sarebbe ora ugualmente sbagliato dare troppa importanza al dato di un singolo trimestre. Se guardiamo alla crescita nel complesso della prima parte dell’anno, l’Italia sta nella media europea”.

  Anche sul Foglio si racconta e si spiega “perché non c’è ancora da preoccuparsi per il calo del pil italiano”. Come, dove sto scrivendo, considero per niente preoccupante il calo, finalmente, della temperatura provocato solo da un bel maestralino, non da qualcuna delle grandinate “terroristiche” di cui ha parlato ieri in una intervista a Repubblica, a sostegno di una maggioranza d’emergenza nell’Unione Europea  per la transizione ecologica, il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato. Al quale, puntuale come un treno o un orologio svizzero, Maurizio Belpietro sulla Verità ha intimato di tacere contestandogli scarsa competenza ambientale e soprattutto quel pur modesto prelievo dai conti correnti bancari degli italiani effettuato dal suo primo governo nel  lontano 1992.

L’assist climatico di Giuliano Amato a Giorgia Meloni nell’Unione Europea

Ancora alle prese, a 85 anni belli che compiuti e ben portati, beato lui, con le palle da tennis da giocatore dilettante, secondo i suoi amici ed estimatori campione mancato negli anni giovanili solo per la sua scelta di non praticare da professionista questo sport, Giuliano Amato non perdona al clima di avere preso l’abitudine di mandarcene addosso di ghiacciate come sassi devastanti. E si è vendicato a suo modo dando proprio al clima del “terrorista”, persino peggiore di quelli degli anni di piombo perché “indiscriminato”, diversamente dai brigatisti, neri e soprattutto rossi. Che selezionavano i loro obiettivi pur quando praticavano “macelleria”, come ammisero di aver fatto in via Fani il 16 marzo 1978 i sequestratori di Aldo Moro sterminandone la scorta.

         Altro quindi che terroristi i cosiddetti negazionisti che, operosi anche in questo campo, denunciano la pericolosi delle reazioni della natura agli abusi che facciamo del territorio su cui abitiamo e facciamo schifezze di ogni tipo e grandezza. Il terrorista -ripeto- per Amato è proprio il clima, dal quale bisogna difendersi cambiando le nostre abitudini di vita e buttandola un po’ anche in politica. E come?  Formando maggioranze di “emergenza” per riparare ai danni compiuti, mettere in sicurezza ciò che sicuro non è più e placare la natura impazzita e incattivita nelle reazioni alle offese che ritiene di avere ricevuto per troppo tempo. Emergenza come quella praticata a livello politico in Italia nei già ricordati anni di piombo, quando democristiani e comunisti elettoralmente alternativi si misero d’accordo e crearono le premesse, quanto meno, della lunga azione di contrasto che negli anni successivi, pur con maggioranze diverse, e fra troppi funerali cui l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini partecipava piangendo e imprecando insieme, si riuscì a sconfiggere la violenza armata.

Poi, è vero, sarebbero arrivate le stragi mafiose e tutto il resto, compresi i processi e le indagini, tuttora in corso, per complicità, tradimenti, trattative e quant’altro di riconducibile alla politica e persino allo Stato o a suoi pezzi -si spera- deviati. Ma anche da quella stagione siamo riusciti a tirarci fuori, senza neppure bisogno di rinunciare alla fisiologia della lotta politica, in qualche modo esasperata dal pur bislenco bipolarismo della cosiddetta seconda Repubblica, o di questa che alcuni considerano persino quarta, almeno nei titoli di certe trasmissioni televisive.

         Amato ha troppa esperienza politica, ormai superiore anche a quella di giurista, per potersi fare soverchie illusioni sulla possibilità di pacificare maggioranza e opposizioni in Italia su un tema d’interesse così generale come il clima, diventato anch’esso di doppia, tripla lettura quasi ideologica, anche ora che le ideologie sono da tempo considerate scomparse. Dietro ogni gesto o solo sospiro della premier Berlusconi sono ancora in troppi a vedere ombre di fascismo, se non un fascismo vero e proprio di ritorno, inconciliabile con la democrazia. Anche se dovesse decidere di spegnere la fiamma che fu del Movimento Sociale nel simbolo del suo partito la Meloni continuerebbe ad essere sospettata di tentazioni o reincarnazioni fasciste. In questo il Pd di Elly Schlein e il MoVimento 5 Stelle di Giuseppe Conte dopo qualche esitazione marciano uniti, nelle piazze e non solo in qualche bar per consumare limonate.

         Ma a livello internazionale il discorso è diverso. L’agibilità, diciamo così, della Meloni è superiore perché lei più ancora della sorella a capo dei “fratelli d’Italia” è riuscita a imporsi come leader conservatrice. La sua non è più una velleità ma un’ambizione realistica di partecipare alla maggioranza nel Parlamento europeo che sarà rinnovato l’anno prossimo. Ed è proprio in Europa, al cui livello la transizione ecologica è più doverosamente e propriamente gestibile, che l’ex presidente del Consiglio in una intervista a Repubblica ha immaginato e auspicato la partecipazione della Meloni ad una nuova maggioranza. Una partecipazione non per sostituirsi ai socialisti nella loro ormai tradizionale alleanza con i popolari ma per aggiungersi ad entrambi.

         Alla intervistatrice, dubbiosa di tanta fiducia o ottimismo, che gli ricordava i rapporti comizianti della Meloni con la destra spagnola -reduce peraltro da una batosta elettorale che ha procurato alla presidente del Consiglio la raucedine attribuitale dal vignettista Emilio Giannelli sul Corriere della Sera-  Amato ha risposto col suo solito modo sottile di osservare e ragionare. Grazie all’estremismo mediatico praticato in Italia da Maurizio Belpietro, che ritiene esagerate e false le preoccupazioni per il surriscaldamento della terra e le cause e gli effetti che gli attribuiscono i verdi e simili, Amato ha potuto così difendere la premier italiana distinguendola dagli amici ispanici: “Nel programma di Vox è scritto che la transizione  ecologica è un’invenzione delle elites per portare via i soldi ai ceti popolari. Mi sembra che in Italia queste posizioni estremiste siano confinate ai titoli del giornale La Verità”, che è diretta appunto da Belpietro. E che ora tratterà il presidente emerito della Corte Costituzionale peggio ancora di quanto non abbia già fatto, per i più svariati motivi, dall’uscita del primo numero.

Pubblicato sul Dubbio

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