La svolta agostana del decisionismo di Giorgia Meloni

         Non foss’altro per ragioni cronologiche, essendo stato pubblicato dopo le ultime interviste della premier, si può escludere che sul “decisionismo” mostrato da Giorgia Meloni rivendicando di avere scelto da sola, e imposto quindi agli altri, la tassazione degli extraprofitti bancari abbia potuto influire un impietoso articolo dedicato ai ministri in carica dal direttore Claudio Cerasa sul Foglio di ferragosto. Che è un po’ valso il doppio dell’ordinario per l’assenza di 24 ore dalle edicole impostasi dai giornali per la maggiore festività estiva ereditata dagli imperatori romani. Che a metà agosto liberavano generosamente un po’ di detenuti anche dalla tentazione, che doveva essere forte e diffusa pure in quei tempi, di uccidersi fra le sbarre.

  Spero che questo ricordo storico non suggerisca al pur stimabile guardasigilli Carlo Nordio, su cui Cerasa ha sospeso il giudizio nel suo  “pagellone dei ministri”, pur per altri motivi ancora, un’altra uscita infelice come quella sugli imputati  di Norimberga e riusciti ad ammazzarsi in cella nonostante la sorveglianza militare, come per giustificare in qualche modo, pur in un “fardello di dolore” provato già ai tempi in cui da pubblico ministero era stato costretto ad occuparsene, i suicidi troppo frequenti nelle carceri italiane. Dove, in verità, si muore anche di scioperi della fame e della sete, non avendo tutti i detenuti evidentemente la fortuna mediatica dell’anarchico Alfredo Cospito, recentemente salvato dal tentativo di lasciarsi morire digiunando per protesta contro la sua detenzione nel regime duro del famoso articolo 41 bis.

Costretta spesso in meno di un anno di governo a mettere “la pezza” -come ha osservato appunto il direttore del Foglio– a ministri e vice presidenti del Consiglio improvvidi o distratti, compreso il cognato Francesco Lollobrigida, arrivati a occupare sino a metà del loro tempo per partecipare al cosiddetto dibattito politico su temi estranei alle proprie competenze, Meloni potrebbe essere compresa e persino giustificata  sulla strada del decisionismo appena imboccata sulle orme di illustri predecessori. Fra i quali l’amica -presumo- Flavia Perina, già direttrice del Secolo d’Italia, il giornale ufficiale che fu della destra missina e post-missina, ha messo al primo posto la buonanima di Bettino Craxi. Che, prima ancora di essere  liquidato dalla politica per via giudiziaria, era finito con gli stivali ai pedi e la testa in giù nelle vignette dei giornali ai tempi della sua permanenza a Palazzo Chigi. Visto l’uso frequente che fa dei pantaloni,  anche la Meloni è apparsa alla Perina a rischio di vignette ducesche, con tanto di stivali. Già qualcuno, del resto, la chiama “ducetta” fra le doglianze dell’insospettabile Luca Ricolfi. Che su Libero ha accusato la sinistra, da lui ben conosciuta e spesso persino votata, di saper solo dipingere di nero e demonizzare gli avversari di turno, senza “la maturità democratica” di  capire le ragioni dei loro successi elettorali.

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Il caso Meloni-Tajani sulle banche chiuso, ma soltanto a parole.

“Turbato” scrive di Antonio Tajani Il Foglio per “lo sfregio” fattogli da Giorgia Meloni rivendicando contenuto e metodo dell’intervento del governo sugli extraprofitti bancari derivati dall’aumento dei tassi d’interesse. Al segretario forzista, di cui non va dimenticata l’attesa del congresso del partito -il primo nella sua storia trentennale- convocato per la fine di febbraio, non è piaciuto “il messaggio” mandatogli dalla premier e così riassunto da Sofia Ventura sulle prime pagine del Giorno, Resto del Carlino e Nazione: “Al timone del governo c’è lei e alleati e ministri devono adeguarsi”.

         “Si è trattato- ha scritto il direttore Augusto Minzolini sul Giornale ancora un po’ della famiglia Berlusconi- di un esempio di quel sano decisionismo che caratterizza le leaderhip: una qualità che in un premier non gusta. Tutt’atro”. Ma indicativo del fatto che “il governo, per chi non lo avesse capito, non è di centro-destra ma di destra-centro, che affronta i temi sociali con una cultura diversa da quella puramente liberale” posseduta dal compianto Silvio Berlusconi. E che andrebbe ripristinata, o comunque rispettata, perché “altrimenti si corre il rischio di perdere qualche pezzo” della maggioranza, peraltro determinante anche sul piano numerico in Parlamento.

         In linea con l’editoriale del direttore è pertanto il titolo scelto dal Giornale per riassumere e definire la situazione creatasi con l’intervista di gruppo rilasciata al Corriere della Sera, a Repubblica e alla Stampa dalla premier prima di prendersi una breve vacanza albanese nella vacanza meno breve in Puglia: due terre dirimpettaie che si fanno ora concorrenza turistica. ”Per Forza Italia- ha titolato, in particolare, Il Giornale come se ne fosse l’organo ufficiale- caso chiuso, ma Tajani avverte: cambiare il testo” dell’intervento fiscale del governo quando se ne discuterà in Parlamento per la conversione del decreto legge. Non debbono evidentemente ritenersi sufficienti le modifiche già apportate dietro le quinte, diciamo così, nel passaggio del provvedimento da Palazzo Chigi al Quirinale per la firma del presidente della Repubblica, apposta anche per i cambiamenti riduttivi intervenuti.

         Sul fronte della Lega, destinataria anch’essa del messaggio “decisionista” della Meloni ma contrassegnata da una certa differenza di vedute e di condotta fra il leader Matteo Salvini, stavolta d’accordo con la premier, e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, si registrano più chiacchiericci che reazioni vere e proprie. In autunno, pur tra i prevalenti impegni della preparazione del bilancio, verranno al pettine i nodi, al plurale, della riforma delle autonomie regionali differenziate. Su cui non si sa se e come potrà esprimersi il decisionismo della premier in difficoltà stavolta anche con qualcuno dei suoi “fratelli d’Italia”, per niente d’accordo col progetto del ministro leghista Roberto Calderoli.

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Avvertimenti di Meloni agli alleati dalla vacanza pugliese in masseria

         In una intervista di gruppo agli inviati del Corriere, di Repubblica e della Stampa-  Giorgia Meloni ha lanciato segnali, avvertimenti e quant’altro non tanto agli avversari, scontati nella loro estate “militante” secondo la definizione  della segretaria del Pd Elly Schlein, quanto agli alleati. In particolare, a Matteo Salvini ma  ancor più ad Antonio Tajani.

         Al vice presidente leghista del Consiglio, rivendicando la decisione presa personalmente da lei di tassare gli extraprofitti delle banche, “veloci ad alzare i tassi dei mutui e a lasciare invariati i tassi riconosciuti ai risparmiatori”, la premier ha praticamente mandato a dire di non vantarsene. Come Salvini ha cercato appunto di fare nei giorni scorsi. Sin quasi a compiacersi sotto i baffi della dissidenza per niente nascosta del suo collega di partito e ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

         All’altro vice presidente del Consiglio e segretario ora di Forza Italia la Meloni non ha mandato a dire ma ha detto direttamente di non fare concorrenza a Giorgetti. “Non c’è anche un problema di metodo”?, hanno chiesto gli intervistatori ricordando il “mai più un simile blitz in Consiglio dei Ministri” pronunciato appunto da Tajani. E lei, per niente “la bella addormentata nel bosco” appena datale da Matteo Renzi, ha risposto: “Ci può essere sicuramente una questione di metodo. E’ più facile intervenire su una misura del genere se la notizia non gira troppo…. Tutti i partiti sono sempre estremamente coinvolti. Questa è una materia molto particolare e delicata su cui mi sono assunta la responsabilità di intervenire”. E ha concluso, come per avvertire che il caso non esiste più: “Ne ho parlato con Antonio”.

         “Con Antonio”, ripeto. Non – scavalcandolo- con Marina, la figlia del compianto Silvio Berlusconi con la quale la premier ha contatti frequenti. E alla quale, quando era ancora vivo il padre, si era generalmente attribuita la spinta decisiva a quella che apparve una correzione di rotta degli azzurri, all’interno del centrodestra, a favore della destra piuttosto che della Lega. Con cui teneva rapporti privilegiati la capogruppo forzista del Senato Licia Ronzulli.  

         Anche il rifiuto della Meloni, nella masseria pugliese dove trascorre le vacanze, di porre veti contro la destra francese di Marine Le Pen in eventuali nuovi equilibri politici in Europa, come ha titolato Repubblica,  va letto più contro Tajani che a favore di Salvini. La risposta contro il veto alla destra francese è stata data dalla Meloni ad una domanda sul no apposto alla Le Pen da Tajani, appunto.

  Spiegato che “è troppo presto per parlare delle elezioni europee e che “sbaglia chi pensa che si possano a monte definire alchimie”, la Meloni ha così reagito a chi la tallonava per un più preciso pronunciamento sulla posizione del segretario forzista: “Io non metto veti, non ritengo di avere questa autorevolezza e comunque non mi pongo adesso il tema”.

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Il “fardello di dolore” di Nordio nel carcere dove corre da ministro ma non da ispettore

Per quanto insignito dall’Unità di Piero Sansonetti, forse con troppa fretta, di una disonorevole “medaglia d’oro del più cinico”, il ministro della Giustizia Carlo Nordio è corso in visita –“non d’ispezione”, ha precisato- nel carcere di Torino dove sono appena morte due detenute. Una si è impiccata allungando la lista di quelli che la Repubblica ha definito “suicidi di Stato” e l’altra si è lasciata morire -o, peggio, è stata lasciata morire- di fame e di sete in una protesta contro la detenzione ritenuta ingiusta e i rifiuti di farla  incontrare con i due figli.

         Nell’annunciare, proporre e quant’altro un “piano -ha titolato Il Giornale- per svuotare le carceri”, creandone di nuove nelle caserme dismesse, differenziando le detenzioni secondo i reati commessi o contestati o le condizioni degli inteessati, e ricorrendo sempre di più a “forme alternative” alla custodia in gabbia, il guardasigilli ha detto che “purtroppo il suicidio  in carcere è un fardello di dolore che affligge tutto il mondo ed è spesso imprevedibile. Accade per ragioni imprescrutabili. Da pubblico ministero -ha voluto ricordare- ne ho trattati tanti e non esiste mistero più insondabile della mente umana quando uno cerca soluzioni così estreme”.

         Pur con tutta la comprensione dovuta a un ministro in visita non ispettiva -ripeto- e rispettoso dei magistrati che stanno indagando sull’accaduto, Nordio converrà che c’è una grande, troppo grande e inquietante distinzione tra chi s’impicca e chi si lascia -o, ripeto- è lasciato morire in un lungo sciopero della fame e della sete. In questi casi il sovraffollamento carcerario e la carenza di personale non bastano mai a spiegare del tutto le morti, o a liquidarle per suicidi. C’è un problema di sensibiltà che è anche problema di moralità. E riguarda purtroppo non solo il ministro della Giustizia, i suoi collaboratori, le guardie carcerarie e i loro superiori, ma anche i giornali. E quindi noi giornalisti, che passiamo dalla vigilanza, chiamiamola così, esasperata della già ricordata Unità con le medaglie d’oro, d’argento e d’altro ancora da assegnare sarcasticamente al malcapitato di turno, ad una insopportabile indifferenza, o quasi.

         Segnalo la strana compagnia dei giornali sulle cui prime pagine di oggi non ho trovato un rigo -dico un rigo- sulle morti in carcere a Torino, e altrove, e sulla visita di Nordio: da Libero a Domani, che non sono certamente in sintonia politica, dalla Verità al Fatto Quotidiano, il cui direttore Marco Travaglio ha preferito rovesciare la sua attenzione e disapprovazione sui “cognati d’Italia”. Tutti accomunati -questi giornali, non i cognati- dal fascino delle manette e dalla smania, in genere, di vederle scattare ai polsi altrui, e poi da una sostanziale indifferenza -ripeto- al problema di come si viva, non si viva, anzi si muoia tra le sbarre. Non è solo fantasia o vuota protesta quel “Paese in gabbia”, appunto,  gridato nel titolo di apertura dell’Identità di Tommaso Cerno, già parlamentare.

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Meloni e il salario minimo fanno risorgere il Consiglio Nazionale dell’Economia e Lavoro

         Si è un po’ trasformato in una Pasqua fuori stagione l’incontro a Palazzo Chigi fra Giorgia Meloni e le opposizioni sul salario minimo di 9 euro l’ora. Che, per quanto da lei stessa considerato “controproducente”, la premier è disposta a discutere, tanto da avere di recente rinunciato a far votare in Parlamento l’emendamento della maggioranza soppressivo alla proposta di legge sostenuta dal Pd, dai grillini, dalla sinistra, dai verdi e da Carlo Calenda. Che fra gli ospiti della presidente del Consiglio è quello uscito più fiducioso e ottimista dall’incontro. “Nessuno può dire -ha dichiarato, diversamente da altri che hanno lamentato o denunciato mancanza di concretezza- come finirà questa battaglia.  Giusto essere molto vigili ma sia Schlein che Conte sono stati costruttivi. Per capirci, nessuno di noi ha detto: voi del governo volete affamare i lavoratori”.

         La Pasqua estiva, anziché primaverile, sta nella sostanziale resurrezione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, ora presieduto dall’ex ministro forzista Renato Brunetta, cui la premier ha passato la palla prendendo alla lettera l’articolo 99 della Costituzione. Che  Matteo Renzi a Palazzo Chigi tentò inutilmente di rottamare con la riforma bocciata nel referendum del 2016.

         Composto di “esperti e rappresentanti delle categorie produttive in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa”, il Cnel “è organo di consulenza delle Camere e del Governo” e “ha iniziativa legislativa”. Può proporre cioè leggi al Parlamento o “contribuire alla elaborazione” di altre di diversa iniziativa. Questo dice, appunto, l’articolo 99 della Costituzione che la Meloni ha liberato dalla polvere accumulatasi nella lunga stagione nella quale questo organo “ausiliario” dello Stato, al pari del ben più vivo Consiglio di Stato, sembrava finito. Ora dovrà recuperare il tempo in qualche modo perduto nei due mesi assegnatigli dalla premier per elaborare una proposta sul problema che sembra avere miracolosamente messo d’accordo le opposizioni, fatta eccezione per Renzi, generalmente divise fra loro. E che costituiscono proprio per questo il maggiore elemento di forza e stabilità del governo.

         Dopo avere “resuscitato” il Cnel, forse davvero “disarmando i piromani”, come Libero ha titolato il suo commento, la Meloni è tornata in volo in vacanza in Puglia. Una vacanza nella quale spero personalmente che non si distragga a tal punto, al pari del ministro della Giustizia in ritiro non so dove, da lasciare circoscritte a Torino, dove il grave fatto è accaduto, le polemiche su cui ha titolato oggi Il Messaggero riferendo del suicidio in carcere per fame di una giovane nigeriana, accusata di sfruttamento della prostituzione, che per tre settimane ha rifiutato cibo e acqua reclamando l’innocenza e il diritto di vedere i figli. Che cosa aveva di meno da Alfredo Cospito, ad esempio, per non meritare attenzione e aiuto? Forse la pelle bianca cui ha alluso sull’Unità Piero Sansonetti ?

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Dietro l’incontro a Palazzo Chigi con le opposizioni sul salario minimo

         Al manifesto chiamano “giochi di palazzo”, forse non a torto, quelli sviluppatisi attorno all’incontro odierno del governo con le opposizioni sul cosiddetto “salario minimo”. Che Giorgia Meloni, gelando gli ospiti- titolo del Corriere della Sera- prima ancora di riceverli a Palazzo Chigi, ha confermato di ritenere “controproducente”, senza tuttavia deludere del tutto sull’Unità Piero Sansonetti. Che ha titolato, ancora speranzoso, alternando come al solito il nero e il rosso: “Cambiamogli nome, se non piace a Giorgia. Ma una norma contro i salari da fame è urgente”.

         Sono giochi agostani di palazzo -temo- sia quelli di chi ha chiesto l’incontro, sia quelli di chi lo ha accordato, sia quelli di chi si è rifiutato di parteciparvi, cioè Matteo Renzi. Che già ieri sul suo Riformista raccontava: “Su banche, aerei, intercettazioni, salari minimi destra e sinistra si ritrovano unite più che mai. A fare l’opposizione restiamo solo noi riformisti, gli unici a non andare in processione a Palazzo. E gli unici a criticare nel merito le misure che fanno bene ai sondaggi ma fanno male al Paese”.  Come quelle, secondo l’ex presidente del Consiglio, appena adottate con urgenza per tassare gli extraprofitti bancari e controfirmate dal presidente della Repubblica mentre arrivavano in qualche modo pure  al Quirinale le valutazioni critiche della famosissima agenzia internazionale Moody’s.

         “Anche rimanendo da soli, continueremo -ha concluso Renzi nel suo proclama da trincea- a contrastare il grande abbraccio trasversale che lega Fratoianni a Tajani, Schlein a Salvini, Conte a Meloni”. Nessuna citazione, quindi, dell’ormai irrilevante, perduto e quant’altro socio terzopolista Carlo Calenda. Importante, particolarmente significativa invece quella di Tajani, il segretario di Forza Italia di cui Renzi considera contendibile più che mai da parte della sua Italia Viva, o come altro dovesse decidere di chiamarla, l’elettorato orfano di Silvio Berlusconi.

         Quasi per fare eco alle ambizioni di Renzi l’avvocato Gaetano Pecorella, di origini socialiste e di esperienza parlamentare berlusconiana, ha appena dichiarato al Dubbio: “Forza Italia è l’unico partito garantista ma è senza un leader”. Tajani, evidentemente, non potrebbe esserne considerato neppure un’ombra, per quanto uscito formalmente dallo stato di “reggente”. D’altronde, solo qualche giorno fa, intervistato da Repubblica, il vice presidente forzista della Camera Giorgio Mulè ha praticamente sollecitato lo stesso Tajani a varare le regole del congresso già anticipato alla fine di febbraio per consentire pirandellianamente non uno ma centomila candidati alla sua successione. A mneo che, probabilmente, Per Silvio Berlusconi non ceda alla “tentazione” gridata in prima pagina da Libero di raccogliere anche l’eredità politica del padre. A quel punto forse anche Renzi si troverebbe spiazzato rispetto alla vecchia rappresentazione fogliante di “royal baby”.

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Si globalizza anche l’antipolitica. La Merkel contestata per i suoi costosi capelli

Pur alle prese con le fastidiose tensioni interne ed esterne alla maggioranza sui rapporti con le banche dopo la tassazione dei loro superprofitti per l’aumento dei tassi di interesse, Giorgia Meloni si può consolare assistendo al sorpasso che i tedeschi stanno facendo sull’Italia nell’antipolitica. Che comincia a procurare problemi anche a lei dopo che dalla comoda opposizione è approdata al meno comodo governo, anzi alla sua guida. E per giunta in una prospettiva lunga, di legislatura, viste le condizioni in cu si trovano i suoi avversari di sinistra, o i concorrenti terzopolisti.

         Angela Merkel, la ex cancelliera più o meno di ferro, è tornata sui giornali tedeschi non elogiata ma sbeffeggiata per quanto continua a costare allo Stato per i parrucchieri che le tengono in ordine e in colore i capelli, a cominciare da quella frangia biricchina che contribuisce ad abbassarle un po’ l’età, specie nella combinazione con l’abito turchese che ha indossato nella sua ultima comparsa pubblica, in occasione di un concerto.

         Non la troppa e anch’essa un po’ costosa frequentazione di Putin e dei suoi fornitori di petrolio, ai tempi del potere, ma quella col parrucchiere, fisso o di turno, uomo o donna, rischia quindi di appannare il ricordo della signora che a Berlino ha un pò diretto l’orchestra europea per tanto tempo, spesso offuscando la commissione esecutiva dell’Unione, a Bruxelles. Nei primi due anni da ex cancelliera la signora ha fatto spendere per i suoi capelli allo Stato tedesco, che continua a finanziarla, 55 mila euro. Che sono un’inezia, per carità, rispetto al milione e mezzo di euro che nel solo 2022 il suo successore Olaf Scholtz è riuscito a spendere tra parrucchiere, pure lui, per quanto scarso in capelli, visage e fotografi al seguito. Ma almeno è il cancelliere in carica. La Merkel invece dovrebbe considerarsi in disarmo.

         Quest’altro passo avanti della diffidenza e persino ostilità viscerale verso la politica e chi la pratica, provenendo addirittura dalla ricca Germania, che certi lussi potrebbe pure permetterseli col permesso luterano, avrà consolato in Italia Piero Fassino. Che è stato messo letteralmente in croce, a cominciare dalla segretaria del suo partito Elly Schlein, per avere sostenuto nell’aula di Montecitorio, sventolando il cedolino, il carattere tutto sommato parsimonioso dei cinquemila euro scarsi al mese che riscuote di indennità, o stipendio. E il resto, fuori cedolino, altrettanto e di più?, gli hanno chiesto i critici. Ai quali Fassino, il nostro “grissino d’oro”, come lo sfottono nei corridoi parlamentari e nelle redazioni dei giornali, ha risposto ricordando che si tratta solo di benefit o denaro in transito, destinato a collaboratori e spese attinenti alle funzioni parlamentari.

         Povero Fassino. E ora povera Merkel. Ma a nessuno viene in mente di dire “povera democrazia” assediata da questo tipo di polemiche, per quanto a livello fortunatamente o finalmente a livello internazionale. Sono gli scherzi, anch’essi, della globalizzazione sotto le stelle: non solo le cinque che Beppe Grillo è riuscito a piazzare nel firmamento tricolore affidandone poi la gestione a Giuseppe Conte. Che dovrà pure avvertire, anche a costo di deludere il suo pubblico, qualche impulso solidaristico nei riguardi della Merkel. Alla quale egli riuscì a strappare quando era presidente del Consiglio -fra un cappuccino e l’altro, o qualche aranciata, in occasione dei summit europei- quel generoso assegno comunitario per la cosiddetta “resilienza” italiana che i suoi successori a Palazzo Chigi non sembrano in grado di spendere bene, e soprattutto in tempo. Ingrati o inetti che sono agli occhi del principe dei nostalgici di Conte a Palazzo Chigi, che è naturalmente Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano e autore del giallo titolato “Conticidio”. Che ancora ieri se l’è presa per la cattiva copiatura che la Meloni avrebbe fatto della sua personale e  anticipatrice proposta di tagliare le unghie alle banche, ben prima che gliele facessero crescere ancora di più i nuovi tassi d’interesse.

Pubblicato sul Dubbio

Giorgia Meloni al fronte di una fasulla e curiosa guerra bancaria

         Costretti purtroppo dalla loro ormai quotidianità a trattare alla stregua di incidenti stradali, come è ormai costretto a fare anche l’Osservatore Romano, i naufragi dei migranti in fuga verso l’Europa, prendendocela con “il lavoro sporco” -come titola il manifesto- ora degli scafisti, ora dei mancati o svogliati  soccorritori, o di entrambi, dobbiamo continuare a navigare nelle acque spesso un po’ troppo torbide della politica interna.

         Il torbido questa volta viene dalle reazioni davvero curiose, in pieno conflitto d’interessi finanziari e partitici, alla tassazione decisa dal governo Meloni degli extraprofitti bancari derivati dall’aumento dei tassi d’interesse, applicato solo quando si concedono crediti e non quando si raccoglie e si conserva denaro. Guadagni “ingiusti”, li ha definiti la premier provocando altre polemiche delle quali tuttavia può consolarsi pensando più a quel “91 per cento dei consensi” della gente comune gridato da Libero che alle beghe interne alla maggioranza, e targate stavolta in prevalenza Forza Italia, o a quelle esterne. Fra le quali si distingue per rapidità e insistenza la protesta  di Matteo Renzi, sul suo Riformista, contro “la svolta grillina di Giorgia”.

         Chi, appunto come Renzi, e come il segretario forzista Antonio Tajani con la discrezione di un alleato ben educato, ha temuto e continua a temere danni pressocchè irreparabili agli istituti di credito, sorpresi dall’intervento del governo per finanziare la riduzione delle trattenute dagli stipendi e difendere la sostenibilità dei mutui, soprattutto quelli sulla prima casa, è rimasto inchiodato alla Borsa dell’altro ieri. Quella di ieri, che ha segnato un “rimbalzo” dell’1,3 per cento dei titoli bancari, favorito anche da una correzione apportata in fretta al primo testo dell’intervento, è servita a poco o niente.

  Eppure a completare il rimbalzo dell’1,3 per cento c’è l’aumento dell’indice bancario italiano del 3,68 per cento, contro l’1 per cento dell’indicatore “cugino” europeo. “Il rimbalzo ha mitigato il passivo settimanale (-3,7). Da ricordare che da gennaio i titoli bancari sono ancora in crescita del 28 per cento”, spiega il quotidiano economico “Il Sole- 24 Ore”, ancora di proprietà della Confindustria se non è stato acquistato, non solo in edicola fra le pochissime aperte di notte, dalla premier o da un suo prestanome.

Per quanto riguarda il regalo ai grillini lamentato da Renzi, l’onestà professionale vuole che si ricordi anche la orgogliosa rivendicazione del solito Fatto Quotidiano. Il cui direttore ha scritto, testuale: “E’ un successo delle opposizioni: dei 5Stelle e della sinistra che posero per primi il problema e del Pd modello Schlein che li segue. Ma anche del Fatto, che dai tempi di Draghi chiede di finanziare le politiche sociali con robuste liposuzioni del grasso in eccesso accumulato da chi ha lucrato su Covid, guerra e tassi: banche, assicurazioni, colossi farmaceutici, energetici e militari”. Un genio o profeta, questo Travaglio.

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Il buon investimento di Matteo Messina Denaro nella cattura di gennaio

Sospettato già al momento dell’arresto, il 17 gennaio scorso, di essersi lasciato catturare per garantirsi una migliore assistenza nella cura del timore che lo stava consumando, il superboss mafioso Matteo Messina Denaro è stato trasferito dal carcere all’ospedale dell’Aquila per essere operato di occlusione intestinale. Il cancro  è ormai arrivato al quarto stadio e l’ergastolano può per sua fortuna affrontarlo in condizioni di maggiore sicurezza di quando potesse da latitante. Ne ha tutto il diritto, per carità, per quanto forse da lui negato a qualcuna delle sue vittime nelle eventuali medesime condizioni di salute. La cattura è stata forse il suo ultimo e migliore investimento, fatto per giunta nella orgogliosa rivendicazione, con i magistrati che lo hanno interrogato da detenuto, della sua “criminalità onesta” -un ossimoro su cui il compianto Leonardo Sciascia avrebbe saputo scrivere un altro dei suoi fortunati libri- e del rifiuto di pentirsi.

         I giornali hanno fatto il loro dovere, per carità, riferendo -chi più e chi meno- del peggioramento delle condizioni di salute del superboss ed anche dell’occasione colta al volo, diciamo così, dal legale di sostenere la incompatibilità ormai fra il suo stato di malato terminale e il regime speciale di detenzione noto come 41 bis. O addirittura -come si è spinta a ipotizzare La Stampa- con una detenzione ordinaria, per cui si dovrebbe potergli consentire una sospensione della pena o gli arresti domiciliari.

         Se queste sono le ambizioni, chiamiamole così, del legale e magari anche di qualche familiare o sodale di mafia sinora sfuggito alla giustizia, voglio sperare che una volta tanto non si traducano nelle solite polemiche mediatiche e politiche. Che decidano, com’è loro diritto e dovere, i magistrati competenti e non si levino barricate dirette più a speculare che altro. Cerchiamo di evitare a questo pur “onesto” criminale deciso a non pentirsi mai anche questa parte del suo buon investimento nella cattura di gennaio. E lasciamo che la politica si divida e magari si scanni pure, com’è purtroppo sua abitudine, sui temi che più le competono. E che certamente non mancano in questa estate affollata d’incendi, in cui gridano alle fiamme che le devasterebbero anche le banche sui cui extraprofitti da aumento dei tassi d’interesse è riuscito a sorpresa a intervenire un governo di destra piuttosto che di sinistra. E ciò per ricavarne qualche miliardo da destinare alla riduzione delle trattenute sugli stipendi o al sostegno ai mutui agevolati per la prima casa.  

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Fatale per la sorte del terzo polo la morte di Silvio Berlusconi

Si deve alla scomparsa di Silvio Berlusconi l’accelerazione del processo di crisi, anzi di dissoluzione, del cosiddetto terzo polo formato l’anno scorso da Carlo Calenda e Matteo Renzi, nell’ordine alfabetico accettato all’inizio anche dall’ex presidente del Consiglio, a vantaggio del suo ex ministro, con apparente generosità. Essi si erano esageratamente proposti di vanificare la ormai scontata vittoria del centrodestra in due anni, diventando nelle elezioni europee del 2024, per quantità di voti e capacità di movimento, un ingombro troppo grande per il governo di Giorgia Meloni. E al tempo stesso sbaragliando dall’altra parte il progetto di ripresa di un’alleanza  fra il Pd e il MoVimento 5 Stelle dopo la rottura consumatasi con la caduta del governo di Mario Draghi.

         Mentre a sinistra quel progetto di ripresa si è avvertito, pur tra alti e bassi, con l’arrivo di Elly Schlein al Nazareno, allarmando Calenda a tal punto da fargli forse temere di rimanere isolato, a destra la morte di Berlusconi ha reso agli occhi, ma forse ancor più alle viscere di Renzi, più contendibile l’elettorato azzurro di Forza Italia. A difendere il quale c’è naturalmente, con l’appoggio non certo irrilevante della famiglia dello scomparso fondatore, il segretario che il partito si è dato promuovendo il reggente Antonio Tajani. Che, a 70 anni appena compiuti e festeggiati con gli intimi, si sente forte della carriera fattagli fare da Berlusconi nel Parlamento europeo, portandolo per un certo tempo alla presidenza, e dei ruoli, sempre procuratigli da Berlusconi, nel governo in carica come vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Che precede non solo nel cerimoniale tutti gli altri, specie in un momento come questo, in cui la politica internazionale è il terreno scelto da Giorgia Meloni per l’evoluzione della sua destra così rapidamente cresciuta con lei tra tanti sospetti, diffidenze, preoccupazioni.

         Renzi non lo ammette pubblicamente. Di recente ha anzi detto di ridere quando si sente attribuire una scarsa considerazione di Tajani come erede politico davvero di Berlusconi. Di cui lo stesso Renzi -ai tempi in cui era a Palazzo Chigi, dove Tajani ha potuto arrivare più avanti negli anni solo come vice-  si  lasciò ben volentieri rappresentare dal comune amico ed estimatore Giuliano Ferrara come il “royal baby”.

L’infante, è vero, diede al presunto padre il dispiacere di preferire Sergio Mattarella a Giuliano Amato al Quirinale nel 2015, ricevendone come ritorsione il no alla riforma costituzionale e la bocciatura referendaria destinata a costargli la guida prima del governo e poi del partito, sino a farglielo infine abbandonare. Ma, nonostante tutto questo, Renzi è riuscito sempre ad avere un rapporto cordiale con Berlusconi, ricambiato con tratti anche di simpatia.

         Ora -deve avere pensato l’ex presidente toscano del Consiglio alla morte del sovrano azzurro- è venuto forse il momento buono per cercare di trarne profitto e rinverdire in qualche modo la leggenda fogliante -dal Foglio, il giornale fondato da Giuliano Ferrara- del “royal baby”.

Marina Berlusconi protesta contro i magistrati -guarda caso, gli stessi contro i quali combatte Renzi a Firenze- che si ostinano a perseguire il padre come il beneficiario o addirittura il mandante, o quasi, delle stragi mafiose che ne accompagnarono l’approdo a Palazzo Chigi nel 1994? E lui, Renzi, corre a darle pienamente ragione.

         La Meloni mostra qualche incertezza, paura, imbarazzo sul fronte del garantismo per qualche scoria del passato giustizialismo della destra, e per il timore di un ritorno ai tempi scomodi di Berlusconi a Palazzo Chigi nei rapporti col sindacato delle toghe? Sino a prendere le distanze dal suo ministro della Giustizia Carlo Nordio, che insegue “priorità” non concordate nella maggioranza? E lui, Renzi, corre a schierarsi col ministro della Giustizia e a subentrare a un collega di partito nella competente commissione del Senato per sostenerne personalmente il disegno di legge di assaggio della riforma della giustizia cui  Swrgio Mattarella al Quirinale ha faticato un po’ a concedere l’autorizzazione all’approdo parlamentare.

         Con Berlusconi e le sue battaglie garantiste, insomma con la sua più significativa eredità politica, Renzi è stato più generoso, più tempestivo che con la buonanima di Craxi. Che pure aveva preceduto negli anni Ottanta l’attuale senatore di Scandici nel tentativo di ammodernare la sinistra e di fare del riformismo vero, non verbale, anzi parolaio.

         Dopo avere detto, nei tempi d’oro di segretario del Pd, di preferire il ricordo di Enrico Berlinguer a quello di Craxi pensando a un Pantheon della sinistra, Renzi si è deciso solo venerdì scorso, 4 agosto, a rivisitare Craxi, diciamo così, sul suo Riformista facendo celebrare i 40 anni dalla formazione del suo promo governo, il primo guidato in Italia da un socialista, con due interviste elogiative: una  al direttore uscente del Giornale, Augusto Minzolini, il restroscenista principe di quel governo, e l’altra a Gennaro Acquaviva. Che a Palazzo Chigi fu con Giuliano Amato il principale collaboratore di Bettino. E stato proprio Acquaviva in questa intervista, lusingandolo con astuzia, a indicare in Renzi l’uomo che politicamente potrebbe essere paragonato di più a Craxi per “determinazione, coraggio e fantasia politica”.

         Calenda, schierato ormai con la Schlein e con Conte per il salario minimo, ha qualcosa da ridire sulla partecipazione di alcuni esponenti renziani ad una cena con la ministra Santanchè nel Twiga di Briatore e ora del nuovo marito della stessa Santanchè? E Renzi difende i suoi amici inchiodando Calenda sulla spiaggia della Capalbio della sinistra chic dei vecchi tempi.  Fra la Capalbio di sinistra e la Versilia di destra Renzi sceglie la seconda.

Quello fra i due protagonisti del “terzopollismo” coniato sarcasticamente da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, lo chiamano ora “il divorzio breve”. Ma il loro è stato mai davvero un matrimonio politico? O solo “l’occasione sprecata” di Massimiliano Panarari sulla Secolo XIX? O, peggio ancora, solo la convivenza di due uccelli rapaci: uno attratto dalla carne di sinistra e l’altro dalla carne d destra? 

Pubblicato sul Dubbio

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