Anche Mattarella adesso nel giallo agostano del generale Vannacci

“La manina di Mattarella nella guerra al generale”, ha titolato su tutta la prima pagina La Verità– quella di Maurizio Belpietro- come per dare una chiave di lettura al più alto livello istituzionale di questo giallo d’estate che è ormai diventato il libro dell’ex comandante della Folgore Roberto Vannacci felicemente intitolato ai fini promozionali “Il mondo al contrario”. E naturalmente portato in testa alla classifica delle vendite dai suoi stessi detrattori con un’autorete sulla quale forse dovrebbero riflettere prendendo lezione da un omosessuale dichiarato come Tommaso Cerno. Che ha portato la vicenda sulla prima pagina della sua Identità più per scherzarci sopra che per indignarsi. “Il De Bello Gaio, il libro scritto dal Generale Vannucci che si è definito nipotino di Giulio Cesare- ha scritto il simpatico ex parlamentare pd  ed ex direttore dell’Espresso– è la prova che in Italia le minoranze come i gay non solo non sono rappresentate ma servono alle maggioranze per parlare di sé e occupare gli spazi che finora non avevano avuto”.

          Belpietro ha cercato di attribuire la sua intuizione, sospetto e quant’altro sulla “manina” di Mattarella, disturbandone le vacanze sulle Dolomiti, al ministro della Difesa in persona, Guido Crosetto. Che ha raccontato di avere disposto la sostanziale rimozione di Vannacci dal comando dell’Istituto Geografico Militare di Firenze per soddisfare le attese, richieste, pressioni delle alte gerarchie militari, potendo bastare secondo lui un intervento meno drastico.  Fra le altre gerarchie militari, con un po’ di buona volontà più che verità, al minuscolo, si potrebbe anche mettere Mattarella per il ruolo attribuitogli come presidente della Repubblica dall’articolo 87 della Costituzione di capo delle Forze Armate.  Cui forse non ha esagerato ad attribuire “lo sconcerto” neppure Domani, il giornale dell’ingegnere Carlo De Benedetti in questa fase dichiaratamente “radicale” del suo impegno pubblico.

         Ciascuno ormai dà il suo contributo quotidiano a far cadere il generale- che in qualche modo ha già dismesso la divisa e comincia a farsi intervistare dalle televisioni in maniche di camicia civile- nella tentazione di qualche candidatura politica. Il leader leghista Matteo Salvini lo ha già chiamato al telefono, cominciando col promettergli che avrebbe letto tutte le 300 pagine e più del suo libero. E lui, il generale, in una intervista al Tg1 ha rivendicato per sé il diritto e l’interesse a non escludere nulla, per cui Il Giornale non ha forzato la mano titolando: “Vannacci: politica, chissà…”.

Magari, alla Lega verrà la voglia di candidare Vannacci persino alle politiche in concorrenza col meloniano Crosetto. Che ha procurato al Fatto Quotidiano la sorpresa, domenica scorsa in prima pagina, di “difenderlo”, per quanto “guerrafondaio” sull’Ucraina. Nessun imbarazzo invece per Matteo Renzi, che sul suo Riformista ha cominciato a chiamarlo per nome: “Salvate il soldato Guido”. Scherzi d’estate.

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La curiosa centrale di Matteo Renzi che emette proteste e lezioni

         L’argomento ormai è logorato dalle polemiche, per quanto l’accaduto sia recente. Ma trovo significativo -visto anche il ruolo centrale, da “Centro” come ha deciso di chiamare il nuovo prodotto politico che sta confezionando- ciò che Matteo Renzi ha voluto scrivere sul conto dei quattro giovani italiani scappati dal ristorante albanese e fatto saldare dalla premier Giorgia Meloni, a proprie spese, dall’ambasciatore d’Italia.  I connazionali risultano peraltro ripresi da una telecamera o altro, per cui non dovrebbe essere difficile identificarli e metterli a una gogna che, una volta tanto, potrebbe anche essere condivisa.

Il fatto è sempre meno grave di un presunto stupro compiuto in casa di un padre pubblicamente esposto come il presidente del Senato, seconda carica dello Stato eccetera eccetera, ma resta una mascalzonata della quale capisco che la premier si sia vergognata apprendendola peraltro dal presidente albanese di cui era ospite. Che, magari,  avrebbe potuto tenersi per sé la notizia  sostituendosi nel saldo all’amica, “sorella” e quant’altro invitata con tanto dispendio di simpatia.

         Renzi, dicevo,  ha chiesto ai destinatari della sua solita lettera elettronica: “E’ giusto che una Premier intervenga per dare 80 euro a un ristoratore albanese? O è solo un gesto di comunicazione”. Come se lui da politico non ne avesse mai compiuti.  E ha spiegato: “Questa concezione per cui il Governo è una sorta di padre/madre compassionevole che se tu ti ubriachi viene a prenderti con il taxi gratis in discoteca (unico modo di trovare un taxi, ultimamente: ubriacarsi in discoteca), se non paghi il conto arriva l’ambasciatore e salda il debito è lo stesso impianto culturale per cui la casa te la rifanno -gratuitamente come diceva Conte- con i soldi dello Stato attraverso una miriade di bonus. Non mi stupisce il gesto in sé finalizzato a prendere tre like su TikTok. Mi stupisce che anche il governo di destra ha lo stesso impianto culturale del Governo grillino: il cittadino come suddito da accarezzare, sovvenzionare, sostenere. Per me questo approccio è sbagliato. Il vero campo largo è quello che va da Meloni a Conte passando per Salvini”.

         Ma questo Conte -Giuseppe Conte- come ce lo siamo ritrovati in Italia? Dopo un turno elettorale perduto dal Pd ancora guidato nel 2018 da un Renzi che non mi pare si fosse accorto del fenomeno grillino. Avremmo potuto liberarcene già l’anno dopo, nell’estate del 2019, se lo stesso Renzi ancora nel Pd, spiazzandone il segretario Nicola Zingaretti, non gli avesse praticamente regalato un altro anno e mezzo scarso di governo con una diversa maggioranza per consentirgli di fare altri danni non previsti, come la precedente vittoria elettorale. Domanda per domanda: non è un po’ esagerato dare lezioni a destra e a sinistra con simili precedenti, da una centrale così malmessa?  Dalla quale ora mi aspetto qualcosa anche sul generale omofobo Vannacci punito da Crosetto fra le proteste di Salvini e il silenzio della Meloni.

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L’Unità celebra i 34 anni dal ripudio dell’era togliattiana del Pci

Nell’estate del 1989, trentaquattro anni fa, mancavano pochi mesi alla caduta del muro di Berlino, e a tutto ciò che ne sarebbe seguito. Erano inoltre trascorsi otto anni dallo “strappo” compiuto in televisione da Enrico Berlinguer definendo “esaurita la spinta propulsiva” della rivoluzione comunista del 1917, in risposta ad una mia domanda sul regime militare appena costituito in Polonia per evitare un’invasione sovietica simile a quella del 1968 nella Cecoslovacchia di Dubcek. Non parliamo poi dei tredici anni trascorsi dall’intervista, sempre di Enrico Berlinguer a Giampaolo Pansa sulla Nato da considerare un ombrello di protezione anche per l’evoluzione dei rapporti fra il Pci aspirante all’autonomia e l’Unione Sovietica ancora di Leonida Breznev.  Sotto quell’ombrello nacque anche il documento di politica estera approvato dai comunisti con i democristiani nella maggioranza di solidarietà nazionale del governo monocolore dc di Giulio Andreotti formatosi dopo le elezioni anticipate del 1976.

         Eppure, con tutto ciò che stava accadendo a livello internazionale ed era già accaduto a livello nazionale, nell’agosto del 1989 un articolo di Biagio de Giovanni sull’Unità nel venticinquesimo anniversario della morte di Palmiro Togliatti in Crimea apparve e fu una bomba fuori e dentro il Pci con quel titolo, nella parte pur bassa della prima pagina, che diceva come più chiaramente non si poteva: “C’erano una volta Togliatti e il comunismo reale”. Riscrivendone sabato scorso sull’Unità recentemente riportata in edicola col direttore Piero Sansonetti, un ancora emozionato e 91.enne Biagio de Giovanni ha ricordato che alla ripresa autunnale dell’attività politica nella direzione del partito il segretario Alessandro Natta disse che bisognava proteggersi in estate dai “colpi di sole”.  E il povero de Giovanni, un filosofo curiosamente laureato in giurisprudenza, alla prima occasione perse il suo posto nell’organismo direttivo del Pci, dove per troppa modestia lui si considerava, partecipandone come intellettuale, “il due di coppe” a briscola. Che però -non si è ben capito se o con quanto consenso del direttore Massimo D’Alema al largo in barca a vela- venne scelto dalla direzione dell’Unità, fisicamente rappresentata a Roma da Renzo Foa, Piero Sansonetti e Giancarlo Bosetti, come il compagno più adatto a ricordare in quel modo Togliatti, l’ormai ex “migliore”, a 25 anni dalla morte.

         La ripubblicazione di quell’articolo, con le riflessioni dell’autore storicamente importanti, a cominciare dall’accenno all’assenza da Roma del direttore velista, è stata una felice iniziativa di Sansonetti. Che da sola peraltro libera la “sua” Unità dall’ombra allungatole addosso ingenerosamente dopo qualche settimana dal ritorno in edicola con la protesta dei figli di Enrico Berlinguer contro l’abuso che si sarebbe fatto della testata storica del defunto partito comunista e delle immagini dell’ancor più defunto loro genitore e segretario delle Botteghe Oscure.

         Se per il mio amico Sansonetti, col quale cominciò questa mia collaborazione al Dubbio, è stata un po’ una rivincita professionale, politica e umana il ritorno, con Biagio de Giovanni, all’Unità che li videro accomunati già 34 anni fa in uno dei tanti passaggi critici del Pci, per me che ho trascorso una vita scrivendo di politica su un fronte certamente diverso, anzi opposto al loro, questa è stata un’occasione d’imprevedibile e, tutto sommato, felice rimpianto. Rimpianto dei tempi che ci siamo forse troppo frettolosamente abituati a liquidare negativamente come quelli delle ideologie, con tutti i loro riti, le loro procedure, le loro asprezze. Cadute le quali, tutto sarebbe diventato più facile, più pratico, più spedito anche nella cosiddetta “governabilità” del Paese, se non del mondo intero. Questo non è semplicemente accaduto. Abbiamo solo dovuto accontentarci, diciamo così, di un maggiore e più disinvolto trasformismo.

Abbiamo visto brillare e spengersi stelle prima ancora che Beppe Grillo inventasse e riuscisse per un po’ a imporci anche le sue. Abbiamo visto alternarsi nelle bocciature referendarie riforme costituzionali proposte come risolutive. Le stagioni politiche si sono abbreviate e insieme intrecciate, producendo una maionese impazzita. Abbiamo una destra che non è più destra, per quanto gli avversari nominalistici sostengano il contrario e vedano il fantasma del fascismo dappertutto, e una sinistra che non è più sinistra, né delle periferie né, ormai, delle zone a traffico controllato. E non si può neppure dire, onestamente, che l’una abbia preso il posto dell’altra, o viceversa.  Si è persino perso “il gusto dei nostri antagonismi”, ha appena osservato su Domani il buon Marco Follini lasciandosi riprendere dalla tentazione di sperare in qualche forma di nuovo centrismo  all’ombra di una politica peraltro che mai è stata così femminile, e liricamente volubile,  con quelle due “regine del bipolarismo”  ch’egli forse vede con troppo ottimismo in Giorgia Meloni e Eddy Schlein.

Peccato che il generale Roberto Vannacci col suo omofobo “Mondo al contrario” pubblicizzatogli involontariamente reclamandone il rogo, o quasi,  ci impedisca di parlarne in altro, e più appropriato senso. Un mondo, in effetti, al contrario ma del buon senso di manzoniana memoria, e neppure a vantaggio del senso comune, o populista, sempre di memoria manzoniana. Dubito che ci sia qualcuno oggi in grado di dire che cosa sia il senso comune, tanto è diventato difficile rappresentare anche a livello parlamentare la realtà caotica del Paese, con i votanti sorpassati dai non votanti. O quelli che Antonio Gramsci -sì, proprio lui, il fondatore dell’Unità orgogliosamente richiamato da Sansonetti sotto la testata della sua Unità- chiamava gli indifferenti, odiandoli. E non a torto.

Pubblicato sul Dubbio

Dietro quelle quattro lunghissime ore di vertice conviviale fra Meloni e Salvini

         A dispetto della “blindatura” attribuita da Repubblica alle vacanze pugliesi della premier, al netto di quelle sottratte per andare in Albania con quello che Marco Travaglio ha chiamato il “PagoGiorgiamat”, usato anche per saldare a un ristorante il conto di quattro italiani miserabilmente scappati, si è avuta regolare notizia delle quattro ore di un incontro fra la Meloni e il suo vice presidente del Consiglio Matteo Salvini. Rigorosamente assente naturalmente l’altro vice presidente e leader forzista Antonio Tajani, che continua a dolersi a distanza del blitz fiscale voluto personalmente e vantato dalla Meloni contro le banche che hanno troppo guadagnato dall’aumento dei tassi d’interesse.  Quelli passivi naturalmente, perché di interessi attivi i titolari dei conti hanno continuato a non vedere neppure l’ombra.

         Quattro ore sono tante, anche se comprensive di un pranzo rivelato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, e successivo peraltro ad una cena recente a Bolgheri tra amici e familiari stretti della premier, a conferma di un rapporto speciale, diciamo pure privilegiato, fra i due alleati di governo, nonostante i retroscena quasi quotidiani sui loro conflitti. Che si svolgerebbero anche attorno alle spoglie forse un po’ troppo prematuramente intraviste della Forza Italia già declassata da Renzi -l’altro Matteo della politica italiana- a Forse Italia per la scomparsa di Silvio Berlusconi e la leadership di Antonio Tajani considerata troppo debole, in attesa di conferma al congresso convocato per fine febbraio.

         Anche con Salvini la Meloni si sarà forse scusata, o quanto meno giustificata, per essersi attribuita il merito dell’intervento sulle banche. Che ha un po’ spiazzato pure il leader leghista -per quanto d’accordo, diversamente da Tajani- per avere cercato di metterci la faccia lui, rimasto sulla scena del post-Consiglio dei Ministri dopo la sostanziale fuga del collega di partito e superministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Che aveva da poco escluso almeno l’imminenza di una misura del genere. In un altro momento, o in un’altra edizione di questa nostra Repubblica ormai a più stadi, un pasticcio del genere avrebbe provocato una crisi di governo, ha osservato qualche giorno fa il forzista vice presidente del Senato Maurizio Gasparri.

         Chissà se nel loro incontro conviviale la Meloni e Salvini hanno voluto trovare il tempo -che pure avevano- ma soprattutto la voglia di parlare anche del caso Vannacci: il generale ex comandante della Folgore e destituito dal vertice dell’Istituto Geografico Militare di Firenze per avere scritto e autopubblicato un libro generalmente tacciato come omofobo. Domani, il giornale di Carlo De Benedetti, ha appena scoperto e denunciato che “sono Salvini e Meloni i cattivi maestri” del generale. Che ora si sta godendo sotto i baffi che non ha, oltre ai proventi del libro  a ruba proprio per le proteste generate,  lo spettacolo di una destra divisa dopo l’intervento censorio del pur suo ministro della Difesa.

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L’ombra della Meloni anche sul generale Vannacci, per quanto destituito da Crosetto

Visto che agosto non è ancora passato, disponendo di una decina di giorni ancora per riservarci sorprese, cerchiamo di sfruttarne tutte le potenzialità o di scoprirne bene i misteri. Ma questo generale Roberto Vannacci, già capo della Folgore, appena rimosso dal comando addirittura dell’Istituto Geografico Militare di Firenze per avere scritto e pubblicato con Amazon senza i dovuti ma impossibili permessi -con l’aria quanto meno culturale che spira in Italia- un libro offensivo per i gay e, più in generale, per “il mondo al contrario” gridato nel titolo, a chi è politicamente addebitabile, attribuibile e quant’altro? La risposta la troviamo sulla prima pagina della Stampa con tanto di ringraziamenti per “Lorenzo D’Agostino, collaboratore, tra gli altri, di Libè, Der Spiegel, Cnn”, che ha “rintracciato un libro di Giorgia Meloni al cui confronto il generale Vannacci è un sincero democratico”.

         Il generale, adeguatamente sbeffeggiato naturalmente da Riccardo Mannelli nella vignetta di giornata del Fatto Quotidiano, è quindi figlio anagraficamente miracoloso della pur più giovane presidente del Consiglio. E ne porta in qualche modo le colpe. Del resto, anche il buon Aldo Grasso sulla prima pagina domenicale del Corriere della Sera, sotto un titolo sul “generale della battaglia persa”, ha scritto che “forse” Vannacci “ha valutato il cambiamento politico del Paese”, avvenuto appunto con la prima donna, e di destra, arrivata alla guida del governo, “come un lasciapassare ideologico”. Non aveva previsto, poveretto, che un ministro della Difesa dello stesso colore politico della premier lo ’avrebbe potuto rimuovere per “farneticazioni” e “negargli ogni avallo, per ora”. Ripeto: “per ora”. Di doman non v’è certezza, diceva ai suoi lontani tempi Lorenzo dei Medici, il Magnifico.

         Potrebbe peraltro giocare maledettamente a favore di “un generale che ha sempre i suoi soldati e le sue salmerie” anche l’ombra incombente, secondo Grasso, di Donald Trump sulla Casa Bianca. O addirittura -aggiungo io- di Putin sull’Europa se dovesse vincere la guerra contro l’Ucraina cominciata l’anno scorso anche per liberarla, con la benedizione preventiva del Patriarca di Mosca, di tutti gli omosessuali e simili che la popolerebbero rendendo la loro terra affine a un Occidente vizioso e balordo.

         Par di capire che, sprovveduto o sfortunato come ogni generale perdente, Vannacci non possa rendersi conto del pasticcio in cui si è infilato col suo libro, per quanti soldi potrà procurargli il lancio pubblicitario al quale stanno provvedendo i suoi critici o nemici, per rimanere sul piano militare. Può comunque consolarlo il silenzio più o meno misericordioso riservatogli sulle loro prime pagine dall’Osservatore Romano, all’estero, che un suo peso ce l’ha a prescindere dalle famose armate di cui scetticamente chiedeva in vita  Giuseppe Stalin, e L’Identità in Italia: un quotidiano dignitosamente, anzi brillantemente diretto da un omosessuale come  Tommaso Cerno.

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Scampoli d’agosto nei quali affoga miseramente la politica italiana

Chiamiamoli pure scampoli d’agosto, se volete. E cerchiamo di trattarli con ironia, sottraendoci alla tentazione di renderli emblematici della tossicità della politica. Che riesce, per esempio, a trasformare in un mezzo scandalo, con tanto di comunicato, proteste e controcomunicato, un gesto di semplice buon senso -non di chissà quale patriottismo a buon mercato- la decisione presa da Giorgia Meloni nella sua beve vacanza in Albania di far pagare dall’ambasciata italiana gli 80 miserabili euro di un conto al ristorante dal quale sono fuggiti quattro altrettanto miserabili connazionali. Miserabbili, direi, con la indimenticabile doppia b del compianto Ugo La Malfa.

         Come si permette la presidente del Consiglio -hanno protestato subito da Roma alcuni non miserabili ma, direi, penosi politici di cui non faccio i nomi per carità umana- di scialacquare il denaro pubblico? Di farsi bella con i soldi degli altri? E lei, la povera Meloni, si sente costretta a far precisare dall’ambasciata d’Italia a Tirana, con tanto di ufficialità, che la diplomazia ha pagato solo “materialmente” il conto, in realtà addebitato a “fondi personali della presidente del Consiglio”.

Si spera che la storia, lo scampolo, finisca qui. E non si reclami di provare che gli 80 euro saranno pagati proprio dalla Meloni, tirandoli fuori dal suo portafogli, se ancora ne porta uno addosso, e non prelevati da misteriosi e segretissimi scrigni di Stato.

         Da uno scampolo all’altro. Uno legge sulla prima pagina del Corriere della Sera che è stato “tolto il comando al generale” spezzino Roberto Vannacci, già capo della Folgore, per un improvvido libro omofobo scritto e autopubblicato con Amazon senza il necessario permesso delle autorità superiori e si chiede di quale comando, in particolare, fosse stato titolare l’alto ufficiale. E scopre che si tratta del sicuramente inoffensivo -mi scusi il generale già scelto per la successione- Istituto Geografico Militare di Firenze, con tutte le maiuscole al loro posto.

         Non si è trattato tuttavia di una destituzione pura e semplice, attesa invece dalla vigilante opposizione, ma di un trasferimento “in forza extra-organico” nel meno inoffensivo -se le parole hanno ancora il loro senso- “Comando forze operative terrestri”. O “Comfoter”, se vi piace di più l’acronimo dei comunicati ufficiali  che non credo abbiano potuto ancor più gonfiare il petto del ciclopico ministro della Difesa Guido Crosetto.

         Uno poi, magari lo stesso colpito dal titolo liquidatorio del Corriere della Sera, legge su Libero che “salta il generale e il libro diventa un best seller”, a ruba con le sue 373 pagine a euro 17,96, acquistabile direttamente da Amazon usando anche il bonus cultura e il bonus della carta del docente, e si chiede se è tutto vero o uno scherzo. Nel quale è riuscito a cadere anche un uomo dal fisico bestiale di Crosetto distraendosi da affari seri come la guerra in Ucraina o quella, ancora più vicina a casa nostra, degli scafisti nel Mediterraneo. 

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Mai così contendibile l’elettorato azzurro dello scomparso Berlusconi

Non so se Matteo Renzi sappia che quel “Forse Italia” fatto stampare sotto la foto di Antonio Tajani sulla prima pagina del suo Riformista, peraltro declassando lo stesso Tajani a semplice ministro, e non anche vice presidente del Consiglio e segretario del partito, non è soltanto una sua trovata polemica più o meno fortunata per scrivere del movimento azzurro a più di due mesi ormai dalla morte del fondatore e presidente Silvio Berlusconi, non sostituito né sostituibile.

         Di “Forse Italia” capitò di parlare ironicamente, con altre variabili, a Marcello Dell’Utri quando ancora il partito azzurro non era ancora nato ma lui già se ne occupava per l’organizzazione e la selezione delle prime candidature al Parlamento, fra i quadri della sua Pubblitalia.  “Forse Italia”, appunto, o “Sveglia Italia” e simili dopo avere capito, senza bisogno che glielo comunicassero ufficialmente, che Berlusconi si sarebbe fatto assistere anche politicamente dal buon Gianni Letta, esonerandolo peraltro da ogni obbligo di iscrizione al partito o di candidatura alla Camera o al Senato. Cui d’altronde l’interessato non si sarebbe mai lasciato tentare di suo, bastandogli e avanzandogli quel che di pubblico si era già saputo guadagnare di suo facendo il giornalista di area democristiana negli anni in cui la Dc era davvero il centro della politica italiana. E lui a Roma era stato l’unico, dirigendo Il Tempo, a sapere andare perfettamente d’accordo sia con Giulio Andreotti sia con Amintore Fanfani, in ordine rigorosamente alfabetico. Un miracolo in quei tempi, ancor più che, a livello nazionale, fra Fanfani e Aldo Moro, sempre in ordine alfabetico.

         Se il socialismo di Bettino Craxi, pur amicissimo di Berlusconi, evocava troppo la sinistra in certi ambienti che adoravano il Cavaliere sperando ch’egli entrando in politica, anzi salendovi, riuscisse a far diventare ricchi tutti gli italiani, il democristianismo  di Gianni Letta procurava un po’ d’orticaria a chi si aspettava davvero una cosiddetta rivoluzione liberale. Neppure nella versione “storica” proposta o teorizzata dal segretario del Pci Enrico Berlinguer, o proprio in quella al massimo livello, il “compromesso” di casa fra i democristiani era guardato con sospetto, se non con avversione, da chi si aspettava, anzi reclamava scelte precise, nette:  di qua o di là, si diceva allora.

         Renzi, peraltro proveniente pure lui familiarmente dalla Dc, pur di sinistra, come apprese con stupore una volta in televisione Ciriaco De Mita dallo stesso Renzi, che parlava però del suo papà, pensa ormai di poter pescare a pieni voti nell’area elettorale presidiata secondo lui dal troppo timido, paziente Tajani. E per pescare ancora meglio ha spinto sempre più a sinistra il socio di breve durata del cosiddetto terzo polo Carlo Calenda. E medita, a divorzio finalmente consumato, più ancora del matrimonio improvvisato l’anno scorso, di chiamare “Centro”, o qualcosa di simile, ciò che rimarrà del suo albero dopo la caduta autunnale delle foglie di Calenda.

         Fra “le chat di partito” attribuite all’ex presidente del Consiglio sul Corriere della Sera da Claudio Bozza, con tanto di virgolette, c’è anche questa: “Nessuna polemica con Calenda. Lasciamo che Carlo litighi da solo. Per noi conta fare concorrenza a Tajani da una parte e al Pd dall’altra perché il centro sia decisivo in Europa come in Italia”. Ma dal Pd, si sa, Renzi dopo averlo lasciato è riuscito a portar via ben poco, quasi niente anche in termini che una volta si chiamavano di “nomenclatura”, alla sovietica. La stragrande maggioranza degli amici di un tempo ha preferito restarsene al Nazareno. E non è detto che riesca a farli andar via tutti la Schlein trattandoli come li tratta, cioè male. La direzione più a portata di mano per il senatore toscano resta quella forzista, o forsista, come adesso la chiama sfruculiando.

         Il guaio però per Renzi è che in quella direzione comincia a guardare anche la Meloni, costrettavi in qualche modo proprio da Tajani che ha deciso di crearle problemi sulla strada del decisionismo imboccata vantandosi di avere deciso da sola la tassazione degli extraprofitti delle banche, compresa la Mediolanum a partecipazione berlusconiana, per l’aumento dei tassi d’interesse solo a chi ha bisogno di indebitarsi, e non di chi risparmia.

         Premuta anche dall’altro vice presidente del Consiglio, quello leghista, che in Europa sogna di imbarcare in una nuova maggioranza anche la sua alleata francese Marine Le Pen, rifiutata invece da Tajani al pari della destra tedesca, Meloni è stata così rappresentata da Ciriaco Tommaso su Repubblica: “Non può scegliere Salvini, non può scegliere Tajani. Deve restare in equilibrio, con il rischio che la battaglia tra i suoi vice sfibri il governo. E rovini quel che resta delle sue vacanze” in Puglia, ora che è tornata dall’Albania.

Ma francamente mi sembra un’analisi sbagliata, almeno per ora. Una scelta la Meloni l’ha fatta: per Salvini e contro Tajani, temendo evidentemente più il primo che il secondo. Cioè pensando di doversi guardare più da Salvini che dal segretario azzurro, di cui si è rifiutata -dicendo con pesante ironia che gliene manca “l’autorevolezza”- di accettare il veto contro la destra francese in vista di nuovi equilibri nella prossima edizione dell’Europarlamento. E pure della destra tedesca c’è una parte del Partito Popolare Europeo, di cui Tajani forse non si è ancora accorto, che comincia a non avere più tanta paura, o avvertire tanto schifo, se la ritiene già preferibile ai socialisti a qualche livello locale.

Pubblicato sul Dubbio

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Ripreso da http://www.startmag.it il 20 agosto

Meloni si aspetta un autunno “importante”, non caldo e tanto meno bollente

         Caldo, caldissimo, rovente nelle intenzioni, promesse, minacce della sinistra politica e sindacale, con un Maurizio Landini in agitazione e avvolto nelle bandiere della sua Cgil contro la legge di bilancio prima ancora che venga scritta al Ministero dell’Economia, l’autunno che si aspetta Gorgia Meloni sarà soltanto “importante”. Così lo ha definito parlandone fra un caffè e una risata al premier albanese Edi Rama, che l’ha ospitata a Ferragosto come una “sorella”, per restare nella familiarità dei suoi “fratelli d’Italia” in Patria. E  l’ha incoraggiata ad essere fiduciosa.

         Del resto, neppure le opposizioni sotto sotto, o dietro la facciata di una mobilitazione applicata da Elly Schlein anche a quel che resta dell’estate, si fanno troppe illusioni sulla possibilità di profittare di qualcuno degli inconvenienti in corso per vedere il governo precipitarvi. Neppure con la premier raffigurata sul solito Fatto Quotidiano come una distributrice di carburanti che non irrora benzina a due euro e settanta centesimi a litro ma preleva con la sua pompa dalla tasca del malcapitato cliente bigliettoni di euro. O col ministro dello Sviluppo Adolfo Urss, anziché Urso, convinto che quella in vendita in Italia sia ancora la benzina meno cara d’Europa, con tutte le tasse che si trascina appresso.

         Se la condizione degli avversari esterni continua ad essere a dir poco critica per l’incapacità perdurante di realizzare una realistica alternativa parlamentare a breve, ma neppure a medo termine, quella dei malpancisti interni alla coalizione di centrodestra non è migliore. Le riserve, e persino le proteste, del segretario forzista Antonio Taiani contro il decisionismo vantato dalla premier con la tassazione degli extraprofitti bancari realizzati con l’aumento a senso unico dei tassi d’interesse, applicati a chi chiede denaro e non a chi lo deposita, non sembrano proprio mobilitare il partito orfano ormai di Silvio Berlusconi, per quanto finanziato ancora dalla sua famiglia. Che, per quanto danneggiata anch’essa dall’intervento sulle banche per la sua partecipazione a Mediolanum, non sembra proprio tentata dall’idea di chissà quale ritorsione.

         Vorrà pur dire qualcosa il fatto che oggi Il Giornale, cioè la principale testata di riferimento dell’area del centrodestra, apra difendendo così il governo: “Caccia al capro espiatorio- “Prezzi, clima, donne: colpa della Meloni”. Ormai la sinistra la accusa di tutto”. E contemporaneamente Il Riformista di Matteo Renzi -riadottando non so se consapevolmente o una vecchia formula ironica e polemica insieme  opposta da Marcello Dell’Utri alla decisione presa da Berlusconi di farsi affiancare da Gianni Letta anche nella gestione della nascitura Forza Italia- titoli “Forse Italia”. E ne spieghi le ragioni con “le indecisioni del ministro Tajani”, decurtato anche delle sue cariche di segretario del partito e di vice presidente del Consiglio.

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Buone notizie alla Meloni dalla Germania in recessione economica e politica

         Dalla Germania in recessione, e un po’ anche in depressione psicologica con quell’atterraggio di fortuna della ministra degli Esteri Annalisa Baerbock, costretta a rinunciare ad una sua missione indo-oceanica per l’aereo troppo vecchio e in avaria su cui si era imbarcata, giungono buone notizie per Gorgia Meloni. Che trova, in particolare, nelle aperture pur locali della Cdu, componente importante del Partito Popolare Europeo, all’estrema destra di Alternativa una conferma alla sua decisione, in Italia, di opporsi ai veti del segretario forzista Antonio Tajani alla destra francese di Marine Le Pen, alleata nell’Europarlamento con Matteo Salvini e i tedeschi appunto dell’Afd, per la realizzazione di una nuova maggioranza nell’Unione. “la Germania in crisi apre all’ultradestra”, ha titolato La Stampa andando anche oltre la Cdu.

         “Io non ritengo di avere questa autorevolezza”, aveva risposto qualche giorno fa la premier italiana nel passaggio di una sua intervista sul veto, appunto, del vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, oltre che segretario di Forza Italia, alla destra francese e similari nella costruzione di nuovi equilibri politici nel Parlamento di Strasburgo che sarà eletto l’anno prossimo.

         Non avrà questa “autorevolezza”, magari anche agli occhi di “Antonio”, come lei chiama amichevolmente il suo alleato, ma la premier continua a muoversi a livello internazionale senza complessi. A cominciare da quello della “sfavorita” messosi alle spalle nel discorso di presentazione alle Camere, l’anno scorso, per la fiducia. Anche nella sua breve vacanza nella vacanza, nell’Albania raggiunta dalla Puglia con la famiglia su un traghetto di linea, la presidente del Consiglio ha sorpreso e spiazzato avversari e amici col “giallo della cena con Rama e Tony Bair” su cui ha titolato il suo retroscena La Repubblica.

         D’accordo, l’ex premier inglese dopo la cosiddetta Brexit, l’uscita cioè della Gran Bretagna dall’Unione, potrebbe pur essere  considerato  estraneo alle vicende comunitarie attuali e future. Ma Tony Blair fa parte di un certo estabilishment internazionale al pari del centenario Henry Kissinger, che la Meloni ha incontrato recentemente nell’ambasciata italiana degli Stati Uniti, dopo il vertice alla Casa Bianca col presidente Joe Biden. Una notizia, quella dell’incontro con l’ex segretario di Stato americano, peraltro reduce da un viaggio in Cina, che ha assunto un suo significato sia per l’invito rivolto dalla premier all’ospite sia per la risposta  ricevuta e le due ore della chiacchierata che ne è seguita.

A quel livello non si perde tempo, come può essere accaduto a chi ha intervistato in Italia l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno per raccoglierne il progetto alquanto avveniristico di un movimento populista di tipo grillino contro la ex collega di partito decisa a coniugare la destra con il conservatorismo liberale, e non col fascismo defunto ma evocato da coloro ai quali fa comodo avvertirlo sempre dietro l’angolo, come un fantasma.

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La risposta di Alemanno al “tradimento” meloniano della destra

Non so con quanta sincerità, e non invece con quanta malizia, l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno ha voluto tranquillizzare anche pubblicamente la sua amica ed ex compagna di area -o camerata, direbbero a sinistra secondo l’abitudine appena contestata da Luca Ricolfi di vedere nero dappertutto- che non nascerà mai, almeno di sua iniziativa, un partito più a destra di quello che lei ha saputo realizzare su posizioni dichiaratamente, direi orgogliosamente conservatrici.  

         “Se faremo qualcosa -ha detto Alemanno a Libero del 15 agosto parlando ambiziosamente al plurale, non sarà la destra della destra, ma un movimento aperto a tutti coloro che si aspettano un vero cambiamento, quindi anche chi viene da sinistra, dal Movimento Cinquestelle e chi vorrà”, magari pure dalla Lega. Dalla quale si sospetta peraltro che sotto sotto l’ex sindaco di Roma venga corteggiato da tempo, persino con l’offerta di una candidatura nelle liste del Carroccio, come indipendente o in forma federativa con un suo movimento, nelle elezioni europee dell’anno prossimo. Poi nel nuovo Parlamento di Strasburgo non dovrebbe creare certo problemi ad Alemanno la confluenza in un unico gruppo con la destra francese di Marine Le Pen. Che è quella contro la quale dall’Italia il segretario forzista Antonio Tajani, mostrando di parlare anche a nome e per conto del ben più vasto Partito Popolare Europeo, ha messo un veto che Giorgia Meloni ha contestato nella stessa intervista nella quale ha rivendicato il merito di avere deciso da sola, nel governo, di tassare gli extraprofitti bancari derivati dall’aumento dei tassi d’interesse.

         E’ nata da questa rivendicazione- contestata a sua volta esplicitamente da Tajani annunciando che il provvedimento urgente dovrà subire nel percorso parlamentare altre modifiche ancora rispetto a quelle già apportate nel tragitto da Palazzo Chigi al Quirinale per guadagnarsi la firma del presidente della Repubblica- la “svolta decisionista” attribuita alla premier. Attribuitale -aggiungo- con particolare vigore o scetticismo, come preferite, sulla Stampa dall’ex direttrice del missino Secolo d’Italia Flavia Perina. Che ha evocato la fine non proprio incoraggiante di altri “decisionisti” comparsi sulla scena repubblicana italiana, compreso o a cominciare da Bettino Craxi, prima impiccato come il cadavere di Mussolini nelle vignette dei giornali, e poi costretto all’esilio -o alla fuga, secondo gli avversari- per scampare al carcere a causa del finanziamento illegale del partito socialista e degli altri reati contestatigli dalla magistratura come appesi allo stesso ramo. Dall’Albania, raggiunta in traghetto dalla Puglia per una vacanza nella vacanza, la Meloni si sarà in qualche modo protetta con gli scongiuri adatti ad una donna, per quanto abituata sotto tutti i sensi a indossare pantaloni.

         Per tornare ad Alemanno e alla sua promessa di non fare un partito alla destra della destra, ma un movimento in sostanza concorrente con quello di Beppe Grillo e di Giuseppe Conte sul fronte del populismo interno e internazionale, pacifista e per niente “guerrafondaio”, come ha definito il ruolo assunto dalla Meloni sulla guerra in Ucraina, che pure è stata aperta da Putin e non da Zelenscky; per tornare, dicevo ad Alemanno del suo progetto si potrebbe ripetere col compianto generale Charles De Gaulle che è un “vasto programma”. Troppo vasto anche per la fantasia di noi italiani, capaci di fare in un partito di tre iscritti quattro correnti.

         L’intervistatrice Brunella Bolloli ha interrotto ad un certo punto i ragionamenti di Alemanno dicendogli che le sembrava di “sentir parlare Travaglio, Santoro e Marco Rizzo”. E lui, per niente imbarazzato, con la disinvoltura non di un ingegnere com’è lodevolmente riuscito a diventare quand’era ministro dell’Agricoltura sorprendendo a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi, ma di un acrobata o un prestigiatore ha risposto: “Infatti con Travaglio abbiamo fatto un convegno insieme”. Figuriamoci se il direttore del Fatto Quotidiano poteva trattenersi, vista la disinvoltura con la quale usa tutti i mezzi, fisici e materiali, a disposizione per colpire l’avversario di turno seduto a Palazzo Chigi dopo il passaggio quasi cavuriano – da Carlo Benso conte di Cavour- del mai sufficientemente rimpianto Giuseppe Conte.

         “Quando ci sono grandi temi che riguardano l’interesse nazionale- ha detto Alemanno- non devono esserci steccati, sono trasversali…Sulla guerra poi, vediamo da una parte il Pd a braccetto con la Meloni e dall’altra io e Conte che la pensiamo allo stesso modo”.  Ce n’è abbastanza, credo, per impensierire più Conte che la Meloni, almeno nel prosieguo delle loro vacanze. Poi, in un autunno che vedremo se sarà più caldo o bollente, fra le iniziative parlamentari e di piazza, e col povero Renato Brunetta già appeso figurativamente a qualche cappio per avere accettato la richiesta della premier di occuparsi del cosiddetto reddito minimo col suo Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, verifecheremo da quali altre tentazioni si lascerà prendere il primo e unico sindaco approdato da destra in Campidoglio. Dove non era riuscito a salire neppure Gianfranco Fini appena sdoganato da Silvio Berlusconi in un emporio autostradale.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 19 agosto

                                        

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