Dietro l’incontro a Palazzo Chigi con le opposizioni sul salario minimo

         Al manifesto chiamano “giochi di palazzo”, forse non a torto, quelli sviluppatisi attorno all’incontro odierno del governo con le opposizioni sul cosiddetto “salario minimo”. Che Giorgia Meloni, gelando gli ospiti- titolo del Corriere della Sera- prima ancora di riceverli a Palazzo Chigi, ha confermato di ritenere “controproducente”, senza tuttavia deludere del tutto sull’Unità Piero Sansonetti. Che ha titolato, ancora speranzoso, alternando come al solito il nero e il rosso: “Cambiamogli nome, se non piace a Giorgia. Ma una norma contro i salari da fame è urgente”.

         Sono giochi agostani di palazzo -temo- sia quelli di chi ha chiesto l’incontro, sia quelli di chi lo ha accordato, sia quelli di chi si è rifiutato di parteciparvi, cioè Matteo Renzi. Che già ieri sul suo Riformista raccontava: “Su banche, aerei, intercettazioni, salari minimi destra e sinistra si ritrovano unite più che mai. A fare l’opposizione restiamo solo noi riformisti, gli unici a non andare in processione a Palazzo. E gli unici a criticare nel merito le misure che fanno bene ai sondaggi ma fanno male al Paese”.  Come quelle, secondo l’ex presidente del Consiglio, appena adottate con urgenza per tassare gli extraprofitti bancari e controfirmate dal presidente della Repubblica mentre arrivavano in qualche modo pure  al Quirinale le valutazioni critiche della famosissima agenzia internazionale Moody’s.

         “Anche rimanendo da soli, continueremo -ha concluso Renzi nel suo proclama da trincea- a contrastare il grande abbraccio trasversale che lega Fratoianni a Tajani, Schlein a Salvini, Conte a Meloni”. Nessuna citazione, quindi, dell’ormai irrilevante, perduto e quant’altro socio terzopolista Carlo Calenda. Importante, particolarmente significativa invece quella di Tajani, il segretario di Forza Italia di cui Renzi considera contendibile più che mai da parte della sua Italia Viva, o come altro dovesse decidere di chiamarla, l’elettorato orfano di Silvio Berlusconi.

         Quasi per fare eco alle ambizioni di Renzi l’avvocato Gaetano Pecorella, di origini socialiste e di esperienza parlamentare berlusconiana, ha appena dichiarato al Dubbio: “Forza Italia è l’unico partito garantista ma è senza un leader”. Tajani, evidentemente, non potrebbe esserne considerato neppure un’ombra, per quanto uscito formalmente dallo stato di “reggente”. D’altronde, solo qualche giorno fa, intervistato da Repubblica, il vice presidente forzista della Camera Giorgio Mulè ha praticamente sollecitato lo stesso Tajani a varare le regole del congresso già anticipato alla fine di febbraio per consentire pirandellianamente non uno ma centomila candidati alla sua successione. A mneo che, probabilmente, Per Silvio Berlusconi non ceda alla “tentazione” gridata in prima pagina da Libero di raccogliere anche l’eredità politica del padre. A quel punto forse anche Renzi si troverebbe spiazzato rispetto alla vecchia rappresentazione fogliante di “royal baby”.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Si globalizza anche l’antipolitica. La Merkel contestata per i suoi costosi capelli

Pur alle prese con le fastidiose tensioni interne ed esterne alla maggioranza sui rapporti con le banche dopo la tassazione dei loro superprofitti per l’aumento dei tassi di interesse, Giorgia Meloni si può consolare assistendo al sorpasso che i tedeschi stanno facendo sull’Italia nell’antipolitica. Che comincia a procurare problemi anche a lei dopo che dalla comoda opposizione è approdata al meno comodo governo, anzi alla sua guida. E per giunta in una prospettiva lunga, di legislatura, viste le condizioni in cu si trovano i suoi avversari di sinistra, o i concorrenti terzopolisti.

         Angela Merkel, la ex cancelliera più o meno di ferro, è tornata sui giornali tedeschi non elogiata ma sbeffeggiata per quanto continua a costare allo Stato per i parrucchieri che le tengono in ordine e in colore i capelli, a cominciare da quella frangia biricchina che contribuisce ad abbassarle un po’ l’età, specie nella combinazione con l’abito turchese che ha indossato nella sua ultima comparsa pubblica, in occasione di un concerto.

         Non la troppa e anch’essa un po’ costosa frequentazione di Putin e dei suoi fornitori di petrolio, ai tempi del potere, ma quella col parrucchiere, fisso o di turno, uomo o donna, rischia quindi di appannare il ricordo della signora che a Berlino ha un pò diretto l’orchestra europea per tanto tempo, spesso offuscando la commissione esecutiva dell’Unione, a Bruxelles. Nei primi due anni da ex cancelliera la signora ha fatto spendere per i suoi capelli allo Stato tedesco, che continua a finanziarla, 55 mila euro. Che sono un’inezia, per carità, rispetto al milione e mezzo di euro che nel solo 2022 il suo successore Olaf Scholtz è riuscito a spendere tra parrucchiere, pure lui, per quanto scarso in capelli, visage e fotografi al seguito. Ma almeno è il cancelliere in carica. La Merkel invece dovrebbe considerarsi in disarmo.

         Quest’altro passo avanti della diffidenza e persino ostilità viscerale verso la politica e chi la pratica, provenendo addirittura dalla ricca Germania, che certi lussi potrebbe pure permetterseli col permesso luterano, avrà consolato in Italia Piero Fassino. Che è stato messo letteralmente in croce, a cominciare dalla segretaria del suo partito Elly Schlein, per avere sostenuto nell’aula di Montecitorio, sventolando il cedolino, il carattere tutto sommato parsimonioso dei cinquemila euro scarsi al mese che riscuote di indennità, o stipendio. E il resto, fuori cedolino, altrettanto e di più?, gli hanno chiesto i critici. Ai quali Fassino, il nostro “grissino d’oro”, come lo sfottono nei corridoi parlamentari e nelle redazioni dei giornali, ha risposto ricordando che si tratta solo di benefit o denaro in transito, destinato a collaboratori e spese attinenti alle funzioni parlamentari.

         Povero Fassino. E ora povera Merkel. Ma a nessuno viene in mente di dire “povera democrazia” assediata da questo tipo di polemiche, per quanto a livello fortunatamente o finalmente a livello internazionale. Sono gli scherzi, anch’essi, della globalizzazione sotto le stelle: non solo le cinque che Beppe Grillo è riuscito a piazzare nel firmamento tricolore affidandone poi la gestione a Giuseppe Conte. Che dovrà pure avvertire, anche a costo di deludere il suo pubblico, qualche impulso solidaristico nei riguardi della Merkel. Alla quale egli riuscì a strappare quando era presidente del Consiglio -fra un cappuccino e l’altro, o qualche aranciata, in occasione dei summit europei- quel generoso assegno comunitario per la cosiddetta “resilienza” italiana che i suoi successori a Palazzo Chigi non sembrano in grado di spendere bene, e soprattutto in tempo. Ingrati o inetti che sono agli occhi del principe dei nostalgici di Conte a Palazzo Chigi, che è naturalmente Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano e autore del giallo titolato “Conticidio”. Che ancora ieri se l’è presa per la cattiva copiatura che la Meloni avrebbe fatto della sua personale e  anticipatrice proposta di tagliare le unghie alle banche, ben prima che gliele facessero crescere ancora di più i nuovi tassi d’interesse.

Pubblicato sul Dubbio

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