Sospettato già al momento dell’arresto, il 17 gennaio scorso, di essersi lasciato catturare per garantirsi una migliore assistenza nella cura del timore che lo stava consumando, il superboss mafioso Matteo Messina Denaro è stato trasferito dal carcere all’ospedale dell’Aquila per essere operato di occlusione intestinale. Il cancro è ormai arrivato al quarto stadio e l’ergastolano può per sua fortuna affrontarlo in condizioni di maggiore sicurezza di quando potesse da latitante. Ne ha tutto il diritto, per carità, per quanto forse da lui negato a qualcuna delle sue vittime nelle eventuali medesime condizioni di salute. La cattura è stata forse il suo ultimo e migliore investimento, fatto per giunta nella orgogliosa rivendicazione, con i magistrati che lo hanno interrogato da detenuto, della sua “criminalità onesta” -un ossimoro su cui il compianto Leonardo Sciascia avrebbe saputo scrivere un altro dei suoi fortunati libri- e del rifiuto di pentirsi.
I giornali hanno fatto il loro dovere, per carità, riferendo -chi più e chi meno- del peggioramento delle condizioni di salute del superboss ed anche dell’occasione colta al volo, diciamo così, dal legale di sostenere la incompatibilità ormai fra il suo stato di malato terminale e il regime speciale di detenzione noto come 41 bis. O addirittura -come si è spinta a ipotizzare La Stampa- con una detenzione ordinaria, per cui si dovrebbe potergli consentire una sospensione della pena o gli arresti domiciliari.
Se queste sono le ambizioni, chiamiamole così, del legale e magari anche di qualche familiare o sodale di mafia sinora sfuggito alla giustizia, voglio sperare che una volta tanto non si traducano nelle solite polemiche mediatiche e politiche. Che decidano, com’è loro diritto e dovere, i magistrati competenti e non si levino barricate dirette più a speculare che altro. Cerchiamo di evitare a questo pur “onesto” criminale deciso a non pentirsi mai anche questa parte del suo buon investimento nella cattura di gennaio. E lasciamo che la politica si divida e magari si scanni pure, com’è purtroppo sua abitudine, sui temi che più le competono. E che certamente non mancano in questa estate affollata d’incendi, in cui gridano alle fiamme che le devasterebbero anche le banche sui cui extraprofitti da aumento dei tassi d’interesse è riuscito a sorpresa a intervenire un governo di destra piuttosto che di sinistra. E ciò per ricavarne qualche miliardo da destinare alla riduzione delle trattenute sugli stipendi o al sostegno ai mutui agevolati per la prima casa.
Si deve alla scomparsa di Silvio Berlusconi l’accelerazione del processo di crisi, anzi di dissoluzione, del cosiddetto terzo polo formato l’anno scorso da Carlo Calenda e Matteo Renzi, nell’ordine alfabetico accettato all’inizio anche dall’ex presidente del Consiglio, a vantaggio del suo ex ministro, con apparente generosità. Essi si erano esageratamente proposti di vanificare la ormai scontata vittoria del centrodestra in due anni, diventando nelle elezioni europee del 2024, per quantità di voti e capacità di movimento, un ingombro troppo grande per il governo di Giorgia Meloni. E al tempo stesso sbaragliando dall’altra parte il progetto di ripresa di un’alleanza fra il Pd e il MoVimento 5 Stelle dopo la rottura consumatasi con la caduta del governo di Mario Draghi.
Mentre a sinistra quel progetto di ripresa si è avvertito, pur tra alti e bassi, con l’arrivo di Elly Schlein al Nazareno, allarmando Calenda a tal punto da fargli forse temere di rimanere isolato, a destra la morte di Berlusconi ha reso agli occhi, ma forse ancor più alle viscere di Renzi, più contendibile l’elettorato azzurro di Forza Italia. A difendere il quale c’è naturalmente, con l’appoggio non certo irrilevante della famiglia dello scomparso fondatore, il segretario che il partito si è dato promuovendo il reggente Antonio Tajani. Che, a 70 anni appena compiuti e festeggiati con gli intimi, si sente forte della carriera fattagli fare da Berlusconi nel Parlamento europeo, portandolo per un certo tempo alla presidenza, e dei ruoli, sempre procuratigli da Berlusconi, nel governo in carica come vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Che precede non solo nel cerimoniale tutti gli altri, specie in un momento come questo, in cui la politica internazionale è il terreno scelto da Giorgia Meloni per l’evoluzione della sua destra così rapidamente cresciuta con lei tra tanti sospetti, diffidenze, preoccupazioni.
Renzi non lo ammette pubblicamente. Di recente ha anzi detto di ridere quando si sente attribuire una scarsa considerazione di Tajani come erede politico davvero di Berlusconi. Di cui lo stesso Renzi -ai tempi in cui era a Palazzo Chigi, dove Tajani ha potuto arrivare più avanti negli anni solo come vice- si lasciò ben volentieri rappresentare dal comune amico ed estimatore Giuliano Ferrara come il “royal baby”.
L’infante, è vero, diede al presunto padre il dispiacere di preferire Sergio Mattarella a Giuliano Amato al Quirinale nel 2015, ricevendone come ritorsione il no alla riforma costituzionale e la bocciatura referendaria destinata a costargli la guida prima del governo e poi del partito, sino a farglielo infine abbandonare. Ma, nonostante tutto questo, Renzi è riuscito sempre ad avere un rapporto cordiale con Berlusconi, ricambiato con tratti anche di simpatia.
Ora -deve avere pensato l’ex presidente toscano del Consiglio alla morte del sovrano azzurro- è venuto forse il momento buono per cercare di trarne profitto e rinverdire in qualche modo la leggenda fogliante -dal Foglio, il giornale fondato da Giuliano Ferrara- del “royal baby”.
Marina Berlusconi protesta contro i magistrati -guarda caso, gli stessi contro i quali combatte Renzi a Firenze- che si ostinano a perseguire il padre come il beneficiario o addirittura il mandante, o quasi, delle stragi mafiose che ne accompagnarono l’approdo a Palazzo Chigi nel 1994? E lui, Renzi, corre a darle pienamente ragione.
La Meloni mostra qualche incertezza, paura, imbarazzo sul fronte del garantismo per qualche scoria del passato giustizialismo della destra, e per il timore di un ritorno ai tempi scomodi di Berlusconi a Palazzo Chigi nei rapporti col sindacato delle toghe? Sino a prendere le distanze dal suo ministro della Giustizia Carlo Nordio, che insegue “priorità” non concordate nella maggioranza? E lui, Renzi, corre a schierarsi col ministro della Giustizia e a subentrare a un collega di partito nella competente commissione del Senato per sostenerne personalmente il disegno di legge di assaggio della riforma della giustizia cui Swrgio Mattarella al Quirinale ha faticato un po’ a concedere l’autorizzazione all’approdo parlamentare.
Con Berlusconi e le sue battaglie garantiste, insomma con la sua più significativa eredità politica, Renzi è stato più generoso, più tempestivo che con la buonanima di Craxi. Che pure aveva preceduto negli anni Ottanta l’attuale senatore di Scandici nel tentativo di ammodernare la sinistra e di fare del riformismo vero, non verbale, anzi parolaio.
Dopo avere detto, nei tempi d’oro di segretario del Pd, di preferire il ricordo di Enrico Berlinguer a quello di Craxi pensando a un Pantheon della sinistra, Renzi si è deciso solo venerdì scorso, 4 agosto, a rivisitare Craxi, diciamo così, sul suo Riformista facendo celebrare i 40 anni dalla formazione del suo promo governo, il primo guidato in Italia da un socialista, con due interviste elogiative: una al direttore uscente del Giornale, Augusto Minzolini, il restroscenista principe di quel governo, e l’altra a Gennaro Acquaviva. Che a Palazzo Chigi fu con Giuliano Amato il principale collaboratore di Bettino. E stato proprio Acquaviva in questa intervista, lusingandolo con astuzia, a indicare in Renzi l’uomo che politicamente potrebbe essere paragonato di più a Craxi per “determinazione, coraggio e fantasia politica”.
Calenda, schierato ormai con la Schlein e con Conte per il salario minimo, ha qualcosa da ridire sulla partecipazione di alcuni esponenti renziani ad una cena con la ministra Santanchè nel Twiga di Briatore e ora del nuovo marito della stessa Santanchè? E Renzi difende i suoi amici inchiodando Calenda sulla spiaggia della Capalbio della sinistra chic dei vecchi tempi. Fra la Capalbio di sinistra e la Versilia di destra Renzi sceglie la seconda.
Quello fra i due protagonisti del “terzopollismo” coniato sarcasticamente da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, lo chiamano ora “il divorzio breve”. Ma il loro è stato mai davvero un matrimonio politico? O solo “l’occasione sprecata” di Massimiliano Panarari sulla Secolo XIX? O, peggio ancora, solo la convivenza di due uccelli rapaci: uno attratto dalla carne di sinistra e l’altro dalla carne d destra?