Slalom di casi a Palazzo Chigi: Salvini, Tajani, Mantovano….

         Con maggiore evidenza rispetto ad altri giornali è chiamato “caso Salvini” da Repubblica e dall’Unità, che lo spiega nel titolo di apertura in prima pagina scrivendo che il vice presidente leghista del Consiglio e ministro delle Infrastrutture “manda a quel Paese Meloni” perché “silurato su migranti e autonomia”. Ma sembra anche sulla preparazione della manovra e del bilancio per le competenze più specifiche spettanti al suo collega di partito e ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Col quale il capo del Carroccio si trova più spesso in disaccordo che d’accordo, anche se per ragioni interne di partito si trattiene dal dirlo, lasciando che lo scrivano i retroscenisti nelle cronache interpretando silenzi e battute ora dell’uno e ora dell’altro.

         Ma più che di un “caso Salvini” sarebbe il caso di parlare e di scrivere di un “caso dei vice” presidenti del Consiglio, che si alternano nelle delusioni e persino nelle proteste contro decisioni prese a loro insaputa dalla premier Giorgia Meloni. Che in alcuni casi, per esempio con Antonio Tajani per l’intervento fiscale sulle banche, se m’è pure vantata pubblicamente. Cinque anni fa avevamo un presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, praticamente diretto dai suoi due vice che erano Luigi Di Maio, per i grillimi, e Salvini, sempre lui. Ora abbiamo due vice presidenti più di nome che di fatto. E una  Meloni atleticamente straripante e decisionista della vignetta di Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno, dove hanno imparato a conoscerla meglio nella sua vacanza d’agosto in Puglia, peraltro conclusasi con quattro ore di vertice conviviale con Salvini che sembravano avessero messo a posto tutto quello che doveva essere chiarito fra i due. Ma già il giorno dopo i rapporti sarebbero stati guastati da Salvini corteggiando elettoralmente il generale Roberto Vannacci per il suo “Mondo al contrario”, disapprovato invece dal ministro meloniano della Difesa Guido Crosetto.  

         Gratta gratta, però, come con i biglietti delle lotterie, più ancora del caso Salvini o del caso dei vice della Meloni che ogni tanto sentono di contare quando il due a briscola, si scopre o si capisce che il problema più spinoso a Palazzo Chigi e dintorni è quello del ruolo molto cresciuto del sottosegretario Alfredo Mantovano. Che oltre alla delicatissima delega sui servizi segreti, dispone di una fiducia praticamente illimitata della premier su ogni problema le arrivi sulla scrivania.

         Non più parlamentare della destra dal 2013 dopo essere stato per otto anni sottosegretario all’Interno con competenze delicate come quella sul trattamento dei pentiti, Mantovano non ha mai dismesso la riservatezza e la severità di quando era giudice penale. Non è fra i parenti diretti o acquisiti della Meloni, ma sembra che conti anche più di loro.  E abbia per giunta maturato, per i suoi modi, e per le sue relazioni anche oltre Tevere, un rapporto eccellente e prezioso col Quirinale.  Qualcuno lo avverte come un asso pigliatutto.

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Una polemica- quella sul compagno della Meloni- che stupra il buon senso

         Salvi Il Messaggero, Il Mattino, Il Gazzettino,il manifesto, il Quotidiano del Sud, l’Identità e -all’estero in casa, diciamo così- l’Osservatore Romano, non c’è giornale fra quelli offerti in visione dalla solerte rassegna stampa del Senato che non abbia oggi riportato in prima pagina il nuovo “caso” politico e insieme della famiglia Meloni. Il caso del “compagno” della premier “che sbaglia”, ha titolato Matteo Renzi sul suo Riformista sorprendendo -spero- sua moglie Agnese. Che da buona insegnante credo che concordi, a proposito di alcol, droga e stupro, più con Andrea Giambruno che con Michela Marzano, spintasi ad affermare perentoriamente sulla Stampa che quando si viene stuprati “non è mai colpa di una vittima. Mai. Punto”.

         Il giornalista Giambruno, sfortunatamente -per lui, almeno in questo caso- compagno di vita di Giorgia Meloni, che gli ha fato una figlia, ha sostanzialmente detto invece in una televisione privata, dove lavora senza l’autorizzazione, il permesso, il gradimento e quant’altro degli avversari della premier, che le ragazze, e magari anche le donne più avanti negli anni, farebbero bene a certe feste e simili  a non ubriacarsi e perdere in altro modo il controllo di se stesse  per non incappare nel “lupo” di turno.

         Non mi sembra francamente, da collega e da semplice telespettatore, che lo sventurato -avrebbe forse scritto Alessandro Manzoni monzianamente- abbia stuprato il buon senso, la decenza e altro ancora, come è apparso a chi, anche a livello politico, per esempio la vice presidente del Pd Chiara Gribaudo, gli ha intimato di vergognarsi. E magari anche di dimettersi spontaneamente prima che l’editore Pier Silvio Berlusconi lo licenzi su richiesta delle opposizioni indignate. “Famiglia B. silente -ha titolato spionisticamente Il Fatto Quotidiano– per non rompere con la premier”.  

         Così scorrono le polemiche politiche da noi, magari ritenendo che sia davvero spiritoso questo passaggio paradossale dell’editoriale di Marco Travaglio: “Se poi, oltre ad astenersi dall’alcol, le donne si lucchettassero pure gli slip col filo spinato tipo cilicio o con trappole per topi, sarebbero in una botte di ferro. Certo, per mettersi definitivamente al sicuro, dovrebbero evitare proprio di uscire di casa. Invece pretendono di andare in giro senza il bodguard e poi si lamentano se le violentano. Ma allora lo dicano che cercano grane”. Eppure lo stesso Travaglio non più tardi di ieri aveva pubblicato, sempre sul Fatto Quotidiano, come gli ha giustamente rinfacciato su Libero Alessandro Sallusti, un articolo documentato dell’amico Giovanni Valentini così titolato nel richiamo di prima pagina: “Alcol e droghe, più stupri”.

         Ma più che di Travaglio vale la pena parlare delle opposizioni, di vario colore e grado. Che sino a quando faranno la guerra alla Meloni con questi mezzi, cavalcando queste polemiche, rimarranno dove sono e regaleranno alla loro nemica anche la prossima legislatura, a scadenza rigorosamente ordinaria, cioè quinquennale.

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Bentornata alla neve in questa estate torrida in tutti i sensi…

         Per quanti danni, disagi e paure stia procurando il maltempo, è forte la tentazione di festeggiare il ritorno della neve per il senso di liberazione che procura da un’estate torrida vissuta in tutti i sensi, anche quello politico. Un’estate in cui si sono inseguite notizie vere o presunte, retroscena e processi alle intenzioni come in una gara a chi o cosa potesse intossicare di più i rapporti persino fra le istituzioni.

         Ancora oggi l’Unità – raccogliendo umori in quell’amalgama non riuscito che continua ad essere il Pd, a distanza di tanti anni dalla certificazione datane da Massimo D’Alema commentando le dimissioni di Walter Veltroni da segretario- spara in prima pagina su o contro la premier Giorgia Meloni che “sfida Mattarella”, opponendo ai suoi inviti all’”accoglienza” dei migranti nuove “misure di polizia”.

         Un’altra sfida della Meloni al presidente della Repubblica era stata individuata e denunciata domenica scorsa dalla Stampa nel “silenzio assordante” opposto al discorso di Rimini, ospite dei ciellini, allusivo anche all’”odio” avvertito verso “i diversi” nel libro del generale Roberto Vannacci sul “Mondo al contrario”.

         Il Foglio– che con l’Unità condivide solo il fatto di essere stato fondato dal figlio, Giuliano, di un direttore in un certo senso storico del giornale quand’era organo ufficiale del Pci, Maurizio Ferrara, marito della segretaria di fiducia di  Palmiro Togliatti- spara invece sulla guerra pur metaforica che il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini avrebbe ripreso contro l’amico e collega di partito Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, nella preparazione della manovra, legge di bilancio e quant’altro. “Accise, benzina, Ponte: il leader della Lega- spiega Il Foglio– contraddice la cautela del Mef”, l’acronimo del Ministero dell’Economia e Finanza, “che chiede maggiori tagli ai ministri” con il consenso convinto e dichiarato della premier in partenza per Caivano, su invito del parroco alle prese con una comunità degradata e  sorpresa dallo stupro delle cuginette.

         Anche sulla partenza della Meloni per Caivano naturalmente le opposizioni, particolarmente quelle del Pd e delle 5 Stelle, hanno avuto e hanno da ridire, in attesa -temo- di strattonare anche su questo terremo il capo dello Stato per qualche esternazione strumentalizzabile contro il governo, o direttamente contro chi lo guida.

         Sono le code tossiche di questa estate “militante”, per ripetere un aggettivo applicatole con compiacimento dalla segretaria piddina Elly Schlein” che Augusto Minzolini  sul Giornale ha citato nel titolo dell’editoriale temendo che gli succeda un “autunno rovente”. Bentornata, anche per questo, alla neve in Valle d’Aosta. E alla pioggia torrenziale altrove.

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Chi protegge Mattarella dagli strattonamenti delle opposizioni politiche e mediatiche ?

Otre che dal maltempo il Paese è sembrato per un po’ paradossalmente diviso -a leggere certe cronache politiche- da chi pure ne rappresenta l’unità per dettato costituzionale: il presidente della Repubblica. Che immagino sia stato il primo a non condividere, e tanto meno gradire, l’uso che critici ed avversari del governo hanno fatto delle sue parole al Meeting di Rimini come se fosse all’opposizione, anzi ne fosse il capo, visto che quelle operanti in Parlamento, divise tra di loro, un capo non possono che sognarlo. E lo sognano appunto nella persona del capo dello Stato strappandogli non più soltanto la giacca, ma anche la lingua.

         Eppure, proprio per impedire questo gioco perverso, prevedibile e previsto anche ai loro tempi, che non erano affollati come ora di tanti mezzi e tipi di comunicazione, i costituenti avevano stabilito nell’articolo 89 della legge fondamentale dello Stato che “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsablità”. E. per rafforzare il principio, avevano insistito nell’articolo successivo, il novantesimo, che egli “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”, di cui risponde davanti alla Corte Costituzionale dopo essere stato messo in stato di accusa dal Parlamento in sede comune.

         D’accordo, la Costituzione parla di “atto” e non di parole del capo dello Stato, alle quali si aggrappano più di frequente le opposizioni di turno per farne quasi il loro portavoce. Ma anche su questa pretesa di distinguere così tanto fra atti e parole bisognerebbe che gli interessati allo strattonamento del presidente della Repubblica si dessero una regolata per non fare del Capo dello Stato non il loro difensore ma la loro vittima, deformandone il ruolo.

         Personalmente ho condiviso il discorso di Sergio Mattarella a Rimini anche nelle allusioni al libro del generale Roberto Vannacci “Il mondo al contrario”, ma non trovo né sorprendente né disdicevole che la premier Giorgia Meloni non abbia ritenuto di doverlo commentare né per concordare, né per dissentire ma semplicemente per motivi di opportunità politica, essendo quel libro diventato oggetto di polemiche all’interno della maggioranza e dello stesso governo. Dove il ministro della Difesa Guido Crosetto, dello stesso partito della Meloni, ha ritenuto l’iniziativa del generale talmente discutibile da rimuovere l’autore da un incarico di comando che ricopriva. E il vice presidente leghista del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha invece telefonato al generale per esprimergli quanto meno l’interesse a leggere ciò che aveva scritto. E magari per contenderlo a Gianni Alemanno, dell’ultradestra sociale, come candidato a qualche elezione.

         In questa situazione, e con una stampa altrettanto divisa sull’argomento, perché mai la premier avrebbe dovuto pronunciarsi per forza? E ritenere il suo silenzio scandalosamente “assordante”, come ha scritto Massimo Giannini sulla Stampa? O magari “diseducativo”, come Matteo Renzi dice di ciò che non gli piace, compreso Vannacci.

Non capitò, per esempio, proprio a Renzi rispettare doverosamente ma non condividere il rifiuto oppostogli da Mattarella dopo la bocciatura referendaria della sua riforma costituzionale, nel 2016, di sciogliere anticipatamente le Camere già sopravvissute ad un’altra crisi di governo per dare alla legislatura il tempo di riformare la Costituzione, appunto? Fallita la quale, in effetti le Camere avevano ben poco da fare ormai.

         Nel 2013, quando al Quirinale c’era Giorgio Napolitano, non capitò al segretario del Pd Pier Luigi Bersani di dissentire dal rifiuto oppostogli dal presidente della Repubblica di fargli fare un governo cosiddetto di “minoranza e combattimento” per mettere i grillini alla prova delle loro ambizioni e rivelarsi una forza di sola contestazione o anche di costruzione di nuovi equilibri? Napolitano preferì piuttosto ritirargli l’incarico di presidente del Consiglio, nel frattempo diventato “pre-incarico”, ma non per questo fu scambiato da Bersani per un golpista o perse la sua stima e amicizia.

         Ancor prima, risalendo sino alla cosiddetta prima Repubblica, non si gridò allo scandalo quando il maggiore partito italiano, la Dc, non condivise la decisione di Luigi Einaudi di conferire l’incarico di presidente del Consiglio a Giuseppe Pella non designato dal suo partito, che ne trattò il governo riduttivamente come “amico” e lo fece cadere al più presto. Né la Dc, sempre lei, ruppe i rapporti con Sandro Pertini che nel 1979  aveva a sorpresa incaricato di formare il governo il segretario socialista, come lui, Bettino Craxi. Né quest’ultimo personalmente o come partito di cui era leader ruppe i rapporti nel 1987 col capo dello Stato Francesco Cossiga che gli aveva negato il diritto reclamato di guidare col suo governo dimissionario le elezioni anticipate, imposte dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. 

         Se è stato possibile a leader politici e di governo di dissentire tanto spesso dal presidente della Repubblica per atti da lui compiuti figuriamoci se può essere negato a Giorgia Meloni il diritto -senza che diventi uno scandalo- di non condividere tempi e modi di una esternazione del capo dello Stato. Che peraltro, ripeto, è stata allusiva -e niente di più- al libro di un generale prepotentemente entrato nel dibattito politico e strumentalizzato per i più diversi fini. Ci deve pur essere una misura nella polemica quando entrano in gioco le istituzioni.

Pubblicato sul Dubbio

Fallito l’obiettivo di contrapporre il Quirinale a Palazzo Chigi

Se quel “silenzio assordante” rimproverato ieri sulla Stampa a Giorgia Meloni, in sede di cronaca dietro le quinte e di commento, dopo il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella al raduno ciellino di Rimini era un obbiettivo, esso è fortunatamente fallito. Per intervento assai discreto ma ugualmente forte dello stesso Quirinale la polemica è finita sul nascere. Oggi, per esempio, non se ne trova più traccia nei sui giornali né nel profluvio di dichiarazioni dei politici. Mattarella non si aspettava né ha mai reclamato in alcun modo una sponda di Palazzo Chigi alle opinioni -non agli atti- da lui espresse sui migranti e -implicitamente, senza nominarlo- sul libro del generale Roberto Vannacci dal titolo “Il mondo al contrario”. Che è già costato all’autore il comando dell’Istituto Geografico Militare di Firenze per i suoi aspetti considerati omofobi da molti.

         Sui migranti è intervenuto un esperto come l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, del Pd, per spiegare già ieri in una intervista al Corriere della Sera, smentendo qualche collega di partito che si era avventurato a sostenere il contrario, che le posizioni del Quirinale e di Palazzo Chigi coincidono. Il problema ormai è diventato “esterno”, non più soltanto o prevalentemente italiano per le sue lunghe frontiere marittime, ma europeo. E lo sforzo di ottenere di più dall’Unione, coinvolgendola anche in una politica di stabilizzazione e di sostegno ai paesi da cui fuggono in tanti, vede impegnati nello stesso modo il capo dello Stato e la premier.

         Sul libro del generale Vannacci è diventata sin troppo evidente la strumentalizzazione delle polemiche per seminare zizzania nella coalizione di governo, e persino nel suo maggiore partito, quello di destra, già in fibrillazione per certe nomine interne, a cominciare da quella della sorella della premier, Arianna, cresciuta di peso e di presenza.

Di fronte peraltro a un Matteo Salvini e ad un Gianni Alemanno, rispettivamente dalla Lega e da un movimento in corso d’opera, che si contendono praticamente Vannacci come candidato a qualche elezione per scavalcare a destra Meloni e i fratelli, o sorelle, d’Italia figuriamoci se Mattarella può lasciarsi solo tentare dall’idea di fare il piromane anziché il pompiere. Sono davvero “Vannacci loro”, per ripetere il felice titolo di ieri del giornale di Tommaso Cerno, non certamente sospettabile di omofobia.  

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Miracolo a Parigi sul patto europeo di stabilità: mano tesa all’Italia

Se “Meloni bussa a Francia e Spagna”, come titola La Repubblica, per ottenere in Europa un piano di stabilìtà con vincoli più sopportabili di quello sospeso per il Covid, almeno da Parigi arriva il miracolo -per le docce scozzesi spesso riservate all’Italia dalla Francia- di una disponibilità all’aiuto. E per bocca di una ministra -quella per gli affari europei Laurence Boone, l’omologa di Raffaele Fitto a Roma- che l’anno scorso provocò un incidente diplomatico con l’Italia dubitando praticamente della democraticità del governo condotto da una donna di destra e reclamando una certa “vigilanza” nei suoi riguardi. “Collaboriamo con l’Italia”, ha invece dichiarato stavolta la Boone al Corriere della Sera, che l’ha raffigurata con Macron, parlando proprio delle correzioni da apportare al vecchio e troppo rigido patto di stabilità dell’Unione. E considerando fisiologico che restino “temi politici su cui divergiamo”.

         Naturalmente è ancora tutto da verificare che sia miracolo davvero e non una scappatella, come altre in passato, nell’abituale rapporto privilegiato fra Parigi e Berlino.  Se sarà davvero miracolo, dovrà ricredersi il rassegnato o non so cos’altro Mario Monti,  che non più tardi di ieri ha avvertito dall’alto del suo laticlavio in una intervista alla Stampa che non avremo “sconti” perché “La Germania non cederà”, per quanto anch’essa cominci ad avere problemi di tenuta economica e finanziaria.

         Presa anche da questo problema appena riproposto peraltro ai suoi colleghi di governo dal già citato Fitto, e in qualche modo pure dal ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, la premier Meloni non si è affrettata ad applaudire a distanza il discorso di Sergio Mattarella al meeting ciellino. Che L’Identità, quotidiano diretto dal dichiaratamente omosessuale Tommaso Cerno, ha riassunto nel titolo “Vannacci vostri”: dal nome del generale autore del libro “Il mondo al contrario” in cui il presidente della Repubblica ha dato l’impressione di avere trovato tracce, quanto meno, di “odio” incostituzionale verso “i diversi”.

         “Il silenzio di Palazzo Chigi”, ha lamentato in seconda pagina La Stampa sviluppando questo passaggio di un editoriale del direttore Massimo Giannini, in prima, che mette un po’ insieme confusamente il Matteo Salvini del 2019 e la Giorgia Meloni di questo 2023: “Smaltiti i fumi alcolici del Papeete di Milano Marittima, i patrioti hanno scoperto i silenzi assordanti della masseria” pugliese scelta dalla premier  e familiari per le vacanze.

         Del discorso del capo dello Stato a Rimini, anche a costo augurabile di mettere in imbarazzo una famiglia così interamente democristiana come quella di Mattarella, il direttore Giannini ha scritto: “Molto più che un testo politico-sociale: un manifesto etico-morale….A leggerlo tutto…viene da rimpiangere la vecchia Dc, se chi la guidò negli ultimi anni della Prima Repubblica non l’avesse svilita a pura consorteria di potere o comitato d’affari di sottogoverno”.

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Mattarella si guadagna a Rimini la promozione a generale con quattro stelle

         Per quanto ignorato sulle prime pagine dal Fatto Quotidiano e del Foglio, che però all’interno gli hanno, rispettivamente, attribuito il merito di avere “tirato le orecchie al governo” e pubblicato integralmente il discorso, riconoscendone quindi l’importanza, l’intervento del presidente della Repubblica al tradizionale raduno ciellino di Rimini ha ottenuto una specie di ovazione mediatica, come la standing ovation riservatagli dai partecipanti al meeting. Che “chiude in bellezza”, ha titolato sul suo Riformista Matteo Renzi, sempre vantatosi di avere praticamente mandato Mattarella al Quirinale nel 2015, anche a costo di rompere da presidente del Consiglio con Silvio Berlusconi sulla riforma costituzionale poi bocciata dal referendum che doveva essere confermativo.

L’unica cosa contestata da Renzi anche pubblicamente al capo dello Stato, pur voluto da lui così fortemente, fu a suo tempo il rifiuto delle elezioni anticipate chiestogli proprio dopo avere perduto quel referendum, ritenendo di potere ancora investire elettoralmente da segretario del Pd il rilevante 40 per cento dei voti raccolto con la riforma. Mattarella invece preferì salvare la legislatura con Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi e Renzi perse per strada anche una parte del Pd e infine le elezioni del 2018.

         Scontato nella parte sui migranti da accogliere, conoscendo la posizione di Mattarella su questo problema non certamente nuovo, non lo era invece a Rimini  il riferimento pur non diretto, non esplicito del capo dello Stato alla vicenda del generale Roberto Vannacci e del suo libro sul “Mondo al contrario”, pur essendo stato il capo dello Stato chiamato in causa da alcuni giornali a sostegno o come suggeritore della rimozione dell’autore dal comando dell’Istituto Geografico Militare di Firenze disposto dal ministro della Difesa Guido Crosetto.

         Diversamente da Lucetta Scaraffia, che oggi sulla Stampa ha definito il libro di Vannacci né omofobo né razzista, comunque “migliore” delle sue interviste, compresa forse quella appena concessa su tutti i campi a Maurizio Belpietro sulla Verità, Mattarella ha reclamato il rispetto delle “diversità” consustanziale al rifiuto dell’odio.

         Per questa sua implicita -ripeto- ma chiaramente avvertibile critica a Vannacci il presidente della Repubblica, d’’altronde capo delle Forze Arnate per dettato costituzionale, si è procurato polemicamente dal Giornale la qualifica di “generale”, diciamo così a quattro stelle spettandone una al giornale di brigata -come Vannucci- due al generale di divisione e tre al generale di Corpo d’Armata. E le reazioni dell’interessato, cioè dell’autore del libro che ha tanto contribuito ad arroventare l’estate politica, sino a fare immaginare a Fabrizio Cicchitto sul Dubbio chissà quali legami con gli interessi anti-anti-atlantici di Puntin e della sua guerra all’Ucraina? Repubblica, non so se a torto o a ragione, ha attribuito questo commento di Vannacci alle parole del capo dello Stato: “dice ovvietà”.

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Famiglie d’Italia -da Meloni a Berlusconi- che fanno pure rima….

         L’ironia era scontata all’annuncio della decisione di Giorgia Meloni di affidare alla sorella Arianna anche la segreteria politica, oltre al tesseramento del suo partito. Due giornali che più diversi non potrebbero essere come Il Fatto Quotidiano e Il Giornale ancora in parte della famiglia Berlusconi hanno titolato allo stesso modo: “Sorelle d’Italia”, pur rimanendo “Fratelli d’Italia” all’anagrafe politica il nome della formazione politica portata in pochi anni non solo dall’opposizione al governo ma alla sua guida,, dallo zero virgola a quasi il 30 per cento dei voti, in testa alla graduatoria elettorale e parlamentare. Il Fatto da giornale di opposizione orgogliosamente dichiarata e praticata ha titolato in prima pagina a caratteri di scatola, con tanto anche di foto delle due sorelle quando erano bambine, Il Giornale a caratterini per rispetto, diciamo così, dei rapporti di comune appartenenza all’area governativa.

         In attesa, mentre scrivo, delle reazioni del solitamente sarcastico Matteo Renzi quando parla e scrive di Giorgia Meloni, segnalo la severità del Foglio nel riferire delle nomine da parte della premier in un titolo che dice: “Tra governo e partito- Fazzolari e Arianna: ecco i primi veleni nella tribù meloniana- L’ascesa della sorella della premier passa per ridimensionamento di Donzelli. Tensioni a Palazzo Chigi. E la Lega se la ride: auguri”. Anche a chi avrà la voglia, la curiosità e quant’altro di leggerne e saperne o sospettarne di più.

         La stessa cosa potrei scrivere della Stampa con quel “caos FdI” sparato nel titolo e con “i ribelli” che “chiedono un congresso”. Del quale ad occhio e croce credo che le due sorelle abbiano poca voglia e poco tempo di occuparsi con tutti i problemi in arrivo con l’autunno prevedibilmente caldo, non dico quanto l’estate ancora in corso ma insomma…..

Tra il segretario generale della Cgil Maurizio Landini già in agitazione, la segretaria del Pd Elly Schlein che gli fa concorrenza insieme con Giuseppe Conte, il ministro dell’Economia per niente tentato dalla generosità nelle spese, il ministro Raffaele Fitto preoccupato -una volta tanto- del ritorno ai vincoli del vecchio e cosiddetto patto europeo di stabilità dopo la sospensione per il Covid, la grana del reddito di cittadinanza passata ad un Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro che, per quanto presieduto da Renato Brunetta, pare che non sia neppure sicuro nella sua composizione e a rischio di ricorsi al Tar, ce n’è francamente da essere preoccupati nella famiglia Merloni, o nel “governo familiare che sa di monarchia”, secondo Flavia Perina, sempre sulla Stampa.

         Ma c’è da essere preoccupati anche in un’altra famiglia quanto meno interessata alla politica, quella del compianto Silvio Berlusconi, per le garanzie di sostentamento ereditate a favore di una Forza Italia incamminata, almeno a sentire l’ex presidente del Senato Renato Schifani,  sulla strada di una piena contendibilità,  Che può significare anche piena imprevedibilità.

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Il salto di Forza Italia nell’avventura di un partito contendibile

Come per avvertire la premier Giorgia Meloni, pur sua ex collega nella destra missina e post-missina, a non provarci più a escludere il vice presidente del Consiglio Antonio Tajani dalla regia di comando quando si decidono cose importanti come una tassa speciale sulle banche, il vice presidente forzista del Senato Maurizio Gasparri ha recentemente detto che in altri tempi si sarebbe verificata una crisi di governo “un minuto dopo” l’’incidente. Altro che consentire al premier di turno di confermare l’accaduto, di vantarsene e di spiegarne le ragioni con la necessità della riservatezza in certe circostanze.

         Intervistato invece dal Giornale ancora in parte della famiglia Berlusconi sui rapporti con la Meloni premier e capa del partito maggiore della coalizione di governo, sia pure parlando d’altro come l’affare librario e politico ormai del generale Roberto Vannacci, il presidente -sempre forzista- della regione Sicilia Renato Schifani ha detto: “La leadership di Giorgia Meloni è salda. Lei sa mediare molto bene tra la propria convinzione politica e le esigenze di Stato. Seppur giovane, è completa e brilla anche a livello internazionale. Da lei mi sento pienamente rappresentato sia come cittadino che come presidente della Regione Sicilia”. E anche da maggiorente, debbo presumere, di Forza Italia, dove il compianto Silvio Berlusconi peraltro gli permise come a pochi  altri -se non l’unico- di uscire e rientrare senza danni in occasione della scissione promossa da Angelino Alfano all’epoca del primo e unico governo di Enrico Letta. 

         Nella stessa intervista al Giornale, concessa facendo uno strappo alle sue ritardate vacanze in montagna, Schifani ha tuttavia riservato ancora altre e forse maggiori sorprese a Tajani, pur confermandogli con largo anticipo rispetto al congresso nazionale convocato per la fine di febbraio il suo voto per la conferma alla segreteria. Qualcosa di più sottile della ricerca di altri candidati, e il sollecito di un regolamento per consentirne la corsa, in cui è dichiaratamente impegnato il vice presidente della Camera Giorgio Mulè, peraltro siciliano come Schifani.

         In particolare, il presidente della Sicilia ha chiesto a Tajani, pur non parlandone come di una condizione per il suo voto apparentemente scontato di conferma alla segreteria, una trasformazione del partito alquanto difficile dopo il lunghissimo regno del fondatore. All’ombra del quale tutti si erano più o meno abituati a muoversi, a fare le loro scalate, a rinunciarvi, cambiare obiettivi e via dicendo. Da partito “del leader”, cioè personale, o personalissimo, come preferite, Forza Italia dovrebbe diventare partito “corale”, “plurale” e altre definizioni da venire che fanno pensare più ad una riedizione della Democrazia Cristiana, da cui Schifani non a caso proviene, che al “Partito Repubblicano” di ispirazione americana. Del quale il presidente siciliano ha parlato nell’intervista evocando le volte in cui aveva conversato con lui Berlusconi in persona. Che, a dire il vero, per quanto mi risulta anche personalmente e direttamente, a tutto era disposto a pensare e ad aprire fuorchè a un partito di correnti.

Eppure proprio le correnti mi sembrano imprescindibili, per ragioni realistiche, da un movimento corale, plurale e simili. Neppure i comunisti con la loro formula del “centralismo democratico”, sfociato anche nella espulsione dei compagni del Manifesto quando provarono ad organizzarsi, riuscirono alla fine ad evitare un certo correntismo, come raccontò in vita con dovizia di particolari e orgoglio il vecchio Emanuele Macaluso. E come può ancora testimoniare il suo compagno d’area cosiddetta migliorista e presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.

         Ciò che Schifani, coriaceo nella sua terra sino a neutralizzare l’ex potentissimo Gianfranco Miccichè, ha chiesto a Tajani non è quindi una cosa semplice. Tutt’altro. E’ una cosa, correlata peraltro ai rapporti quanto meno atipici tra Forza Italia e la famiglia del suo fondatore, di una complicazione estrema. E’, in parole povere, la contendibilità continua della guida del partito, al di là delle scadenze congressuali cui peraltro nessuno da quelle parti è stato mai abituato.

         Proprio su queste condizioni di prevedibile difficoltà, a dir poco, i concorrenti politici ed elettorali del partito post-berlusconiano, interni o esterni che siano alla coalizione di governo, puntano per ricavare qualche vantaggio e spazio. Il più audace, lesto e visibile nelle incursioni e simili è naturalmente Matteo Renzi, del quale anche Schifani ha parlato nella sua intervista cercando di minimizzarne le potenzialità e amplificarne le obiettive ambiguità. Ma non vanno sottovalutate le capacità attrattive anche della premier Meloni e del vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini. La partita è francamente tutta da giocare. E potrebbe riservare grandi sorprese, forse anche per le opposizioni, se non soprattutto per esse. Berlusconi osserverà da lassù, i suoi familiari e i suoi elettori sino a giugno scorso da quaggiù.

Pubblicato sul Dubbio

Tutte le pene -di governo e soprattutto di partito- di Antonio Tajani

         Le vacanze di Antonio Tajani sono state disturbate forse più che dai suoi problemi di ministro degli Esteri – fra i quali è appena arrivata anche la valutazione dello scenario russo-ucraino dopo l’abbattimento di Evgenij Prigzhin annunciato da Mosca- dall’indebolimento della sua figura di vice presidente del Consiglio e di  segretario di Forza Italia.

         Una mano, di certo, non l’ha data a Tajani in questa doppia veste Giorgia Meloni annunciando, confermando e persino spiegando le ragioni per le quali ha ritenuto già prima delle vacanze di escluderlo dalla catena di comando, regia e quant’altro nella tassazione delle banche per i loro superprofitti. Ma neppure Renato Schifani, presidente della regione siciliana, in una intervista significativamente pubblicata ieri dal Giornale, con richiamo pur modesto in prima pagina, in cui la sua conferma congressuale, a fine febbraio, è praticamente condizionata a un cambiamento radicale del partito.

Da personale, o personalissima, com’era con Berlusconi presidente a vita, Forza Italia deve diventare “corale”, “plurale” e quant’altro: una specie insomma di partito repubblicano americano all’italiana o riedizione più laica della Democrazia Cristiana, dalla quale non a caso proviene Schifani. Che è già impegnato nella sua Sicilia a raccogliere attorno a sè in forma sempre più organica e vincolante pezzi della defunta Dc mossisi a lungo in autonomia, come quelli di Raffale Lombardo e di Salvatore Cuffaro.

         Nel momento in cui non più soltanto il vice presidente della Camera Giorgio Mulè ma anche un pezzo da novanta della nomenclatura come Schifani -uno fra i pochi, se non l’unico, cui Berlusconi aveva permesso di uscire e rientrare in Forza Italia dopo la scissione di Angelo Alfano- sostiene praticamente la continua contendibilità della guida del partito, Matteo Renzi cerca di aumentare il suo assedio elettorale. E forse anche parlamentare. Egli ha appena parlato a Zona Bianca, una trasmissione di Rete 4, guadagnandosi questo titolo del Sole 24 Ore: “Forza Italia decida cosa fare da grande”. In particolare, “i parlamentari di Forza Italia -ha detto l’ex presidente del Consiglio- non la lasciano perché sono in maggioranza. Forza Italia non è più forte come prima e lo vediamo, Con Berlusconi era Forza Italia, con Tajani è “Forse Italia”. Penso che essa debba decidere cosa fare da grande. Chi non sopporta sovranisti e populisti vota altre persone”, magari lui stesso.

         Di Renzi, e del suo corteggiamento politico o assedio elettorale, come preferite, ha parlato lo stesso Schifani nell’intervista al Giornale dicendo: “A unirci è soltanto l’essere entrambi paladini del garantismo. Tutto qui. Renzi è stato segretario del Pd. E il suo campo di manovra (anche a livello europeo, dove non siede certo tra i popolari) e ben diverso dal nostro. Italia viva poi è ridotta al lumicino e non mi pare che Renzi sia in grado di espandere il consenso”. “Non mi pare”, appunto. E’ tutto da verificare da qui alle elezioni europee dell’anno prossimo, quanto meno.

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