Vi racconto il Forlani tutto politico, senza i processi che non meritava

Ogni volta che ho provato, spontaneamente o su richiesta del direttore del giornale di turno al corrente dei nostri rapporti di stima e amicizia, a scrivere il cosiddetto “coccodrillo” su Arnaldo Forlani, prevedendone la morte, non sono riuscito a superare le prime righe per scaramanzia. Rifiutavo dentro di me l’idea della fine di uno dei leader politici con i quali mi sono trovato più in sintonia nella mia lunga attività professionale, forse più ancora di Bettino Craxi e di Aldo Moro.  Ora non posso davvero sottrarmi.

         La nostra amicizia nacque quando Forlani era ancora vice segretario della Dc, e delfino di Amintore Fanfani, nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Avevo scritto di lui, sul Momento sera di Roma, un articolo come di un uomo che aveva il cuore con Fanfani e il cervello con Moro, l’altro cavallo di razza dello scudo crociato, come li definiva Carlo Donat-Cattin: cavalli generalmente in competizione fra loro.  

         Forlani, dandomi del tu, mi ringraziò dell’articolo, compiaciuto che io l’avessi “smembrato” col cuore da una parte e col cervello dall’altra. Fanfani mi invitò invece a colazione  di prima mattina per dirmi, o spingermi a dirgli, che se avesse voluto accordarsi con Moro avrebbe saputo e potuto farlo da solo, senza mediazioni. E infatti lo fece nel 1973 ponendo fine alla prima lunga segreteria di Forlani alla Dc, cominciata nel 1969, per succedergli e ripristinare il centrosinistra con i socialisti interrottosi per  l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale, alla fine del 1971. Fu l’accordo rimasto famoso per il luogo – Palazzo Giustiniani, una delle sedi del Senato- in cui Fanfani promosse la riunione fra i capi delle correnti dello scudo crociato alla vigilia di un congresso nazionale del partito che sembrava destinato a confermare Forlani alla segreteria e Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, alla guida di un governo “della centralità”, con i liberali al posto dei socialisti.

         Forlani disciplinatamente si mise o si lasciò mettere da parte, assistendo l’anno dopo dalla finestra, diciamo così, di casa alla sconfitta referendaria di Fanfani sul divorzio. Che segnò l’inizio di una lunga crisi di rappresentanza della Democrazia Cristiana destinata, tra alti e bassi, a sfociare nella sua scomparsa, nonostante Forlani fosse tornato alla sua guida nel 1989 per cercare di evitarla.

         Anche se consumatasi formalmente nel 1973, la rottura tra Fanfani e Forlani era di fatto avvenuta alla fine del 1971, in occasione delle elezioni presidenziali conclusesi con l’arrivo di Leone al Quirinale. In quella occasione Fanfani, il primo candidato ufficiale del partito, non ce l’aveva fatta per l’ostinata opposizione di un folto gruppo di “franchi tiratori” della Dc. Quando fu inevitabile cambiare cavallo nella corsa a colle più alto di Roma l’ancora segretario dello scudocrociato Forlani nella riunione congiunta dei gruppi parlamentari osò sostenere la praticabilità della candidatura di Moro, ricordandone le funzioni già svolte di segretario del partito e di presidente del Consiglio e quelle in corso di ministro degli Esteri. “Traditore”, gli disse al termine della riunione un deputato fanfaniano di Taranto appoggiandogli una mano sul volto, come in uno schiaffo trattenuto a stento all’ultimo momento. Poi prevalse, come soluzione di compromesso, la candidatura del già ricordato Leone, eletto al secondo scrutinio alla vigilia di Natale dopo l’intervento di Moro su tutti i suoi amici di corrente perché  votassero disciplinatamente il nuovo designato. Che comunque passò a stretta maggioranza di centrodestra, con tutte le sinistre contrarie.

         Oltre che leader- praticamente l’ultimo prima dello scioglimento del partito disposto da Mino Martinazzoli nel 1994 assegnandogli il nome pur non nuovo di “Partito Popolare”- il mio amico Forlani fu il geniere della Dc, chiamato alla sua guida nei momenti più delicati, per assumere decisioni non facili. Nel 1972, per esempio, gli toccò il compito di riportare al governo, con Andreotti, i liberali di Giovanni Malagodi al posto dei socialisti di Giacomo Mancini sganciatisi da soli. Nel 1989, quando tornò alla segreteria del partito, gli toccò chiudere la lunga stagione di sinistra del suo -peraltro- ex vice segretario dei tempi giovanili Ciriaco De Mita. Ma già prima del 1989 – esattamente nel 1979 non votando in una tesissima riunione della direzione del partito contro la bocciatura dell’incarico di presidente del Consiglio conferito a Craxi dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini, e nel 1983 diventando vice presidente del Consiglio con lo stesso Craxi a Palazzo Chigi- egli si era prodigato  per la ripresa dell’alleanza con i socialisti affrancatisi dalla paura avuta dal precedente segretario Francesco De Martino di governare con la Dc senza i comunisti. I quali si erano guadagnati così l’occasione di appoggiare dall’esterno, paradossalmente, due monocolori democristiani presieduti da Andreotti all’insegna della “solidarietà nazionale”.

         Dal secondo turno di segretario democristiano Forlani avrebbe potuto passare al Quirinale nel 1992, candidato ufficialmente dal suo partito, se il clima politico non fosse stato intossicato dalla famosa inchiesta “Mani pulite” sul diffuso finanziamento illegale della politica con la pratica delle tangenti. E non fosse stato infine sconvolto dalla strage mafiosa di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie e quasi tutti gli uomini della scorta, nel pieno delle elezioni presidenziali per la successione a Francesco Cossiga.

Con Arnaldo Forlani scompare l’ultimo vero capo della Democrazia Cristiana

Con Arnaldo Forlani, morto a 98 anni non compiuti, scompare l’ultimo capo dell’ormai scomparsa, anch’essa, Democrazia Cristiana. Fu un leader molto cortese nei modi e nel linguaggio, ma di estrema fermezza nella linea politica interpretata negli anni in cui fu segretario dell’allora partito di maggioranza: la prima volta fra il 1969 e il 1973 e la seconda fa il 1989 e il 1992. Non a caso la buonanima di Giampaolo Pansa, l’autore della immaginaria “balena bianca” democristiana, coniò per lui il soprannome di “Coniglio mannaro”.

         Nel primo passaggio alla guida della Dc toccò a Forlani il compito di interrompere l’alleanza con i socialisti, allora guidati da Giacomo Mancini, dopo la rottura consumatasi attorno all’elezione di Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica, alla fine del 1971. Al posto del Psi Forlani rimandò al governo, presieduto da Giulio Andreotti, i liberali di Giovanni Malagodi all’insegna della “centralità”. Che egli preferì alla vecchia formula del centrismo per sottolineare il ruolo del suo partito, cui peraltro cercò di risparmiare, provocandone il rinvio col ricorso alle elezioni anticipate nel 1972, il referendum sul divorzio affrontato e perduto due anni dopo da Amintore Fanfani: l’ormai ex capocorrente di Forlani tornato alla guida del partito nel 1973 rimuovendo il suo ex delfino, cresciuto abbastanza per muoversi da solo nell’arcipelago dello scudocrociato.

         Nel secondo passaggio alla segreteria della Dc, riconquistata nel 1989, toccò a Forlani il compito di interrompere la lunga stagione di sinistra di Ciriaco De Mita, il suo ex vice segretario degli anni giovanili poi diventato segretario e contemporaneamente presidente del Consiglio, in un cumulo di incarichi che già nel lontano 1959 aveva portato sfortuna ad Amintore Fanfani.

         Oltre a chiudere la stagione demitiana, Forlani riconsolidò la stagione del pentapartito, in cui socialisti e liberali si erano ritrovati insieme al governo con la Dc nel 1983 sotto la guida del leader socialista Bettino Craxi. Di cui Forlani era stato vice presidente dopo avere tentato, unico nella direzione democristiana, di non sbarrargli la strada di Palazzo Chigi giù nel 1979, quando il presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini lo aveva incaricato a sorpresa di tentare la ricostituzione del centrosinistra dopo la stagione della “solidarietà nazionale” col Pci.

         Forlani mancò il Quirinale due volte. La prima nel 1985, per succedere a Pertini col sostegno dell’allora presidente del Consiglio Craxi, che aveva sondato la disponibilità dei missini di Giorgio Almirante di votarlo al posto dei comunisti contrarissimi. Ma De Mita alla guida della Dc preferì inseguire proprio i voti comunisti mandando al Quirinale Francesco Cossiga. La seconda volta Forlani, pur candidato ufficialmente dalla Dc, mancò il Quirinale dopo le elezioni politiche del 1992 svoltesi nel già torbido clima di Tangentopoli destinato a travolgere la cosiddetta prima Repubblica.  

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La Meloni scavalca Nordio nella denuncia del ruolo di opposizione dei magistrati

         Alla faccia di quanti, a dispetto anche delle foto che li smentivano, si sono prodigati nei mesi scorsi a immaginare e rappresentare in articoli e titoli sui giornali la presidente del Consiglio Giorgia Meloni infastidita, allarmata e quant’altro per il rapporto troppo duro del suo ministro della Giustizia Carlo Nordio, già da lei candidato nella scorsa legislatura al Quirinale, con gli ex colleghi magistrati e la loro rappresentanza. Che da sindacale quale dovrebbe essere per un’associazione tende da molto tempo ad essere anche istituzionale scavalcando il Consiglio Superiore della Magistratura.

         Prima la Procura di Milano -con la conferma delle indagini per falso in bilancio e bancarotta in corso da ottobre a carico della ministra del Turismo Daniela Santanchè, che pure continua a sostenere di non avere mai ricevuto un avviso di garanzia prima di riferire al Senato dei suoi problemi di imprenditrice in difficoltà-  e poi il tribunale di Roma -col rifiuto del giudice delle indagini preliminari di rifiutare l’archiviazione chiesta dalla pubblica accusa per le indagini su violazione del segreto di ufficio da parte del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro- hanno provocato una reazione di Meloni a Palazzo Chigi di una durezza senza uguali.

         In piena solidarietà politica e umana con entrambi gli amici, oltre che colleghi di partito e di governo, la premier ha fatto diffondere una nota che più esplicite nell’attacco non poteva essere. “E’ lecito domandarsi -dice- se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione e abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. Una campagna nella quale il governo in generale e la Meloni in particolare, col suo progetto di esportare in qualche modo il centrodestra a livello di Unione Europea, si giocano praticamente tutto.

         La severissima nota di Palazzo Chigi, nella quale sul Corriere della Sera Massimo Franco ha visto riduttivamente, ma anche polemicamente, “la tentazione (sbagliata) del muro contro muro”, ormai diventata più di una tentazione, è stata tradotta dalla vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX nella sottolineatura di un “ruolo di opposizione” assunto dalla magistratura perché “vacante” nella sostanza a causa delle divisioni fra i pur rumorosi e insofferenti gruppi e partiti del no alla fiducia parlamentare.

         Il sindacato delle toghe non ha naturalmente gradito, non potendo evidentemente più contare su una dialettica, chiamiamola così, all’interno del governo addirittura fra la presidente del Consiglio e il Guardasigilli sul vecchio problema che si trascina da una trentina d’anni di un riequilibrio del rapporto fra politica e giustizia. Che fu  “bruscamente cambiato” ai tempi delle indagini sul finanziamento illegale dei partiti, per ripetere una formula usata con ammirevole franchezza da Giorgio Napolitano quando era al Quirinale, e sperava che si potesse ristabilire la normalità costituzionale.

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La Santanchè nel fuoco estivo degli avversari nell’aula del Senato

         Appare, a dir poco, curiosa la “battaglia” sulla ministra Daniela Santanchè al Senato annunciata sulla prima pagina del Corriere della Sera e raccontata invece da Salvatore Merlo sul Foglio dentro “un’aula percorsa da una svogliatezza blasè, da un languore estivo quasi di lago o di lungomare”. Che poco sembrano conciliarsi anche con “l’odio” lamentato nei suoi riguardi dalla donna di governo contro la quale i grillini hanno annunciato una mozione di sfiducia destinata, a quanto pare, ad essere votata anche dal Pd. Il cui capogruppo Francesco Boccia, se mai fosse stato preso dalla tentazione di una distinzione garantista, in attesa degli sviluppi di un’indagine per bancarotta e falso di bilancio confermata dalla Procura di Milano ma non ancora risultante all’interessata, vi ha dovuto rinunciare quasi per fatto personale. Egli infatti si è trovato con gli occhi addosso degli amici di partito, o addirittura di “mezz’aula”, secondo alcuni cronisti, quando la ministra si è dichiarata sorpresa, anzi tradita da chi -nel campo degli avversari di oggi- chiedeva prenotazioni e ospitalità nei suoi locali di divertimento.

         Così almeno una parte dell’opposizione, quella giallorossa del secondo governo di Giuseppe Conte, come viene ancora chiamata senza rispetto per i tifosi della incolpevole Roma calcistica, potrebbe ritrovarsi unita. Ma sempre una parte di tutto lo schieramento estraneo al governo, perché anche in questo passaggio politico e parlamentare ha trovato modo di dividersi il cosiddetto terzo polo. Diviso, in particolare, fra un Carlo Calenda smanioso di unirsi al fronte contro la Santanchè, e fiducioso di vedere la ministra scaricata prima o dopo anche dalla Meloni premier, amica personale e capa del suo partito, e Matteo Renzi. Il quale ha scritto personalmente sul suo Riformista di “diverse sensibilità sul garantismo all’interno del terzo polo”. “I due in aula -ha raccontato Salvatore Merlo, sempre sul Foglio- nemmeno si guardavano in faccia. Sguardi di cemento. Ma, a pensarci bene nemmeno questa è una notizia”.

         Una notizia curiosa l’ho invece trovata e avvertita, nel mio piccolo, nella cosiddetta informativa nella quale la ministra, difendendosi dall’accusa di avere seminato di accertamenti e di multe non pagate la sua esperienza di utente della strada in una potente Maserati, ha riferito al Senato che a guidare l’auto erano i Carabinieri, evidentemente di turno della scorta assegnatale per proteggerla da chi la odia a tal punto da potere attentare alla sua vita, e farla diventare Santa e basta, senza la parte finale del cognome col quale la signora ha preferito diventare famosa assumendolo da uno dei mariti.

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Occhio ad Antonio Tajani e Matteo Salvini all’interno del centrodestra

         Chissà quanto tempo impiegheranno i giornaloni ad aggiornare agende o lenti dei loro occhiali per accorgersi che la dialettica, diciamo così, all’interno della maggioranza di centrodestra è cambiata ormai dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi. Loro -sempre i giornaloni-continuano a vedere e a raccontare ai ferri più o meno corti Giorgia Meloni e Matteo Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico: l’una in continua evoluzione moderata e l’altro deciso a toglierle i voti che può perdere su questa strada, e quindi a ridurre lo svantaggio così rapidamente e clamorosamente accumulato nelle urne rispetto al partito della premier.

         Più o meno ai ferri corti sono invece arrivati, sempre in ordine alfabetico, Salvini e Antonio Tajani, il reggente di Forza Italia, nonché vice presidente del Consiglio, come l’altro, ma anche titolare del Ministero degli Esteri, più importante del dicastero delle Infrastrutture, o dei Trasporti,  dove opera il capo del Carroccio.

         Salvini sogna nel prossimo Parlamento una maggioranza di centrodestra comprensiva dei suoi amici francesi e tedeschi, colleghi di gruppo a Strasburgo. L’altro, pur negando di avere posto “veti”, come ha appena detto in una intervista al Corriere della Sera, invoca “il senso del realismo”, e la sua personale conoscenza degli umori a Strasburgo,, per escludere che la destra francese di Marine Le Pen e l’omologa della Germania possano essere accettate in una maggioranza analoga a quella che nel 2017 gli consentì di approdare al vertice dell’Europarlamento: maggioranza composta dai popolari di natura democristiana, liberali e conservatori.

         Al Corriere della Sera Tajani ha detto anche di più, senza riguardo neppure -credo-per i suoi rapporti personali con Salvini. Ha detto, in particolare, che i leghisti, se proprio ci tengono ad essere della partita, possono “aggiungersi”. Magari sperando in una buona parola dello stesso Tajani presso i popolari, che diffiderebbero di Salvini per quanto corteggiati, in particolare, dal ministro, anzi superministro leghista dell’Economia Giancarlo Gorgetti.

         E Salvini? Gli ha indirettamente risposto reclamando, o aspettandosi, dai forzisti nei riguardi di Marine Le Pen la stessa generosità o lungimiranza praticate da Silvio Berlusconi una trentina d’anni fa sdoganando la destra italiana che si chiamava Movimento Sociale. D’altronde, anche se Salvini non è arrivato a dirlo esplicitamente, la destra francese che piace a lui è così poco estremista da essere estranea al fuoco divampato in Francia.

         Bisogna ora vedere quanto terrà all’interno di Forza Italia, in mancanza di Berlusconi, la linea della durezza “realistica” di Tajani. O quanto sarà in grado di riprendere quota quella notoriamente molto filoleghista della capogruppo al Senato Licia Ronzulli ancora al suo posto.

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Il fuoco francese che Giuseppe Conte sogna anche in Italia

         Altro che le polemiche o le attese sul futuro del centrodestra in Europa, ma più in particolare di Matteo Salvini deciso a rimanere con i suoi amici di Francia e Germania contestati invece  dal reggente di Forza Italia Antonio Tajani. Polemiche o attese privilegiate nella cronaca politica da Repubblica col titolo sui “separati in casa” ma quanto meno premature mancando alle elezioni europee un anno lungo e difficile da trascorrere.  Altro che la Giorgia Meloni fatta giocosamente correre da Emilio Giannelli, nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, trascinandosi appresso l’aquilone della Confindustria dopo avere raccolto gli applausi e le speranze degli imprenditori. Che ne hanno apprezzato l’ottimismo e le visibilie, da no confondere naturalmente con quelle dell’amica ministra del Turismo Daniela Santanchè attesa  domani al Senato per le informazioni sui guai, e annessi, delle sue aziende.

         La notizia del giorno, diciamo così, è quella di Giuseppe Conte, affiancato dalla solita Elly Schlein in un incontro promosso dai sindacati, che torna a travestirsi da Jean-Luc Melenchon, l’uomo più a sinistra d’oltr’Alpe soddisfattissimo delle rivolte esplose dalle sue parti, e attende che il fuoco di Francia contagi l’Italia. Dove -ha detto il fortunatamente ex presidente del Consiglio ma tuttora presidente di quel che è rimasto in Parlamento del Movimento 5 Stelle- “abbiamo un governo reazionario e della restaurazione” che “getta acqua sul fuoco” e “in modo consapevole sta preparando un incendio sociale”. Ripeto: consapevole.

         Travolto dall’entusiasmo sino a inciamparvi, anche a costo di smentire il Conte rosso che almeno aveva cercato di attribuirne la responsabilità alla Meloni e compagnia, Il Fatto Quotidiano di un distratto Marco Travaglio si è fatto scappare questo titolo da giornali di destra: “Piazze e proteste. La sinistra vuole l’autunno rosso”. E naturalmente caldo, come si diceva una volta, ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, quando d’autunno si vedevano traballare e cadere governi e non solo foglie dagli alberi.

         L’autunno sognato dal Conte letto e interpretato dai suoi amici e ammiratori del Fatto Quotidiano potrebbe o dovrebbe essere lo sviluppo, l’epilogo e quant’altro dell’”estate militante” propostasi pubblicamente dalla segretaria del Pd, non a caso impegnata nell’incontro cui ha partecipato con l’ex presidente del Consiglio a prendere appunti, lanciare occhiate al vicino e sorridere poi ai fotografi. Una bella miscela, a dir poco, di speranze, propositi, disegni e….disordini.

         L’”incendio sociale” che “prevede Conte”, stando al richiamo in prima pagina di un articolo di Emanuele Buzzi sul Corriere, starebbe procurando “dubbi nel Pd”. Dove il movimentismo della Schlein aveva già provocato un certo allarme anche nella versione quasi clandestina dell’incontro con Conte e Fratoianni in un bar di Campobasso alla vigilia delle elezioni regionali in Molise conseguentemente stravinte dal centrodestra.

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L’amarezza del quasi centenario Presidente emerito per la crisi della sua sinistra

Giuliano Amato -che Silvio Berlusconi nel 2015 avrebbe preferito a Sergio Mattarella sul colle più alto di Roma per la successione a Giorgio Napolitano, che lo lasciava dopo nove anni interrompendo chissà se più per stanchezza o delusione il suo secondo mandato al vertice dello Stato- è caduto nel solito, e ingiusto, sarcasmo di critici e avversari per avere celebrato a suo modo il 29 giugno scorso i 98 anni compiuti dallo stesso Napolitano. Dei quali ben settanta trascorsi fra il Parlamento nazionale, quello europeo e il Quirinale: davvero il veterano delle istituzioni.

         Amico personale ed estimatore politico di Napolitano da sempre, anche quando il suo capo di allora, Bettino Craxi, se ne lamentava aspettandosi da lui alle Botteghe Oscure aperture ai socialisti ancora più evidenti e incalzanti sul gruppo dirigente del Pci, Amato ha ringraziato l’ex presidente anche per il silenzio che si è imposto in questi ultimi anni. Esso -ha scritto Amato su Repubblica- “è il massimo di benevolenza che la nostra indomita incultura può aspettarsi da lui”.

         L’ex presidente socialista del Consiglio e poi anche della Corte Costituzionale ha inteso per “incultura” quella dimostrata dalla sinistra lasciando cadere praticamente nel vuoto le sollecitazioni rivolte da Napolitano nel suo doppio mandato al Quirinale per  riformare le istituzioni, i rapporti fra la politica e la giustizia e sanare le ferite infertesi da sola nella demolizione della cosiddetta prima Repubblica con la falsa rivoluzione delle cosiddette “mani pulite” di una trentina d’anni fa.

           Ciò che si aspettava, anzi reclamava dalla “sua” sinistra riformista Napolitano lo disse esplicitamene -la seconda volta addirittura sferzando un Parlamento che pure lo applaudiva- nei due messaggi di giuramento, in occasione della prima elezione e della conferma. E nella lunga, dettagliata, accorata lettera non privata ma pubblica, scritta ad Anna Craxi e diffusa per intero dal Quirinale il 18 gennaio 2010, nel decimo anniversario della morte del marito “rifugiatosi”, non scappando e rimanendovi da latitante in Tunisia, come ancora scrivono e dicono i detrattori del leader socialista.

         Fu in quella lettera -secondo me fra gli atti più significativi di Napolitano al Quirinale, se non il più significativo solo dopo il ricorso alla Corte Costituzionale per essere finito intercettato dalla Procura di Palermo nell’ambito della vicenda processuale della “trattativa” fra pezzi dello Stato e la mafia stragista dei primi anni 90- il Presidente lamentò letteralmente “il brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia” avvenuto con la gestione giudiziaria, politica e mediatica delle inchieste sul finanziamento illegale dei partiti e delle loro correnti. Di cui l’allora capo dello Stato scrisse come “fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali”  alla Camera dallo stesso Craxi. Sul quale però “il peso della responsabilità era caduto con durezza senza uguali”: formula, questa, che fa venire ancora i brividi, a leggerla, contro la demonizzazione di un uomo protagonista di “almeno un quindicennio di vita pubblica italiana” e meritevole di “ricostruzioni non sommarie e unilaterali”.

         Napolitano si procurò per quella lettera, centrata più sulle “luci” che sulle “ombre” del craxismo e ricca di riconoscimenti per l’azione di partito e di governo dello scomparso leader socialista, il disprezzo dei manettari alla Travaglio e il silenzio imbarazzante e imbarazzato del Pd nato l’anno prima dalla fusione -o dall’”amalgama mal riuscito” di memoria dalemiana- fra i resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli persino liberali, almeno di nome.

Di quel silenzio -ripeto- imbarazzato e imbarazzante si alimentò anche l’antipolitica  cresciuta all’ombra dei processi di Tangentopoli, cavalcata infine nelle piazze e nelle urne dai grillini e sfociata, come un boomerang, nell’attuale crisi degli stessi grillini e di ciò che rimane della sinistra. La quale avrebbe avuto ben altra sorte se non avesse affidato il suo destino ai magistrati anziché alla correttezza di una pur aspra lotta politica e agli elettori, non a caso astenutisi via via sempre più numerosi ad ogni livello di ricorso al voto.

E’ un bel disastro, questo della sinistra ora contesa fra Elly Schlein e Giuseppe Conte, che fa comprendere meglio il lungo, perdurante silenzio di Napolitano, Di cui Amato ha compreso il valore e ringraziato il Presidente emerito.  Pazienza per il sarcasmo che egli si è procurato fra i praticanti di quella che lui stesso ha chiamato -ripeto- “indomita cultura”, sino a sentirsene in qualche modo persino partecipe.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.policymakermag.it il 5 luglio e da startmag.it l’8 luglio

Tutte le vittime del penultimo Vittorio Sgarbi, compreso lui naturalmente

         E’ difficile dire chi possa o debba essere considerato più vittima dell’ultimo, anzi penultimo Vittorio Sgarbi  fra il pur simpatico, come lui, collega giornalista Alessandro Giuli, presidente del Maxxi avventuratosi a invitarlo praticamente a casa e poi costretto a  scusarsi col pubblico interno ed esterno, il cantautore, scrittore eccetera Marco Castoldi, noto come Morgan, chiamato a intervistarlo, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, pubblicamente dissociatosi dal suo sottosegretario abbandonatosi a “inammissibili sessismo e turpiloquio” e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Che, già alle prese con i problemi, diciamo così, della sua amica, collega di partito e ministra del Turismo Daniela Santanchè per sue visibilie aziendali, non si meritava francamente anche questa grana chiamata Sgarbi, appunto. Di cui molti all’opposizione -forse vittime anche loro dell’incontenibile critico d’arte, sindaco eccetera eccetera- reclamano le dimissioni dal governo, anzi la rimozione, magari avvolto come in un telo quale apparve agli occhi dei parlamentari e dei telespettatori quando i commessi della Camera lo portarono via dall’aula di Montecitorio dopo avere insultato la presidente di turno della seduta, Mara Carfagna, già sua collega di partito o d’area di centrodestra.

         Sgarbi è così. E’ un Mozart dei nostri tempi, come lui stesso ha preteso di essere considerato reagendo alle polemiche che lo hanno nuovamente sommerso. O un futurista fuori tempo, che sfida i suoi critici ad attaccarlo per meritarsi la qualifica di fascisti, senza avere neppure bisogno di scaldarsi o illuminarsi alla fiamma che la premier non intende togliere dal simbolo del partito dei suoi “fratelli d’Italia”. Pensare di cambiarlo con le buone o le cattive, lusingandolo o insolentendolo più ancora di quanto lui insolentisca il malcapitato di turno, è pura follia: una cosa alla quale persino la buonanima di Franco Basaglia si sarebbe arreso rinunciando alla causa della chiusura dei manicomi.

         Neppure il concavo e convesso Berlusconi -sì, proprio la buonanima di Silvio da poco scomparso- riuscì a cambiare Sgarbi nelle sue frequentazioni, affidandogli addirittura una parte -la più visibile e nota- della sua fallita corsa al Quirinale, prima della conferma di Sergio Mattarella.

         Vittorio -sì, il mio amico Vittorio, rimasto tale anche dopo gli insulti che mi rovesciò addosso privatamente con messaggi telefonici dopo la già ricordata “deposizione” alla Camera da me condivisa- è forse la prima vittima di se stesso, con le sue eterne esplosioni di fantasia, di rabbia, esibizionismo e quant’altro. Fargli la guerra è inutile perché l’uomo sopravviverebbe anche alla peggiore sconfitta. E’una specie di Don Chisciotte riuscito meglio dell’originale.   

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La Francia non brucia per lei, ma Marine Le Pen a Roma fa paura lo stesso

         Per quanto estranea, per fortuna sua ed europea, al ferro e al fuoco nella Francia dei minorenni che stanno facendo tremare il presidente Emmanuel Macron, la leader della destra d’oltr’Alpe Marine Le Pen arriverà domani a Roma tra sospetti e inquietudini per un incontro col vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini.

         All’evento il Corriere della Sera dedica oggi la cosiddetta spalla della prima pagina sottolineando il proposito espresso da Salvini di “non escludere nessuno”, quindi neppure Le Pen, nel centrodestra immaginato nel Parlamento europeo che sarà eletto l’anno prossimo.

         Sulla Stampa il direttore Massimo Giannini contrappone di fatto l’incontro di Salvini con la leader della destra francese alla missione di mercoledì prossimo di Giorgia Meloni in Polonia -in veste più di presidente dei conservatori europei che di presidente del Consiglio italiano- per costruire un’intesa col Partito Popolare del vecchio continente. E lo fa  con una certa preoccupazione, scrivendo che “la Meloni non può permettersi il lusso di lasciare che il cinico Salvini corra libero e irresponsabile per le autostrade dell’ideologismo più sfrenato che lei ha lasciato parzialmente sguarnite”, inseguendolo, affiancandolo e, se può, persino sorpassandolo. Sarebbe l’errore analogo a quello del fronte opposto con la formula del “nessun nemico a sinistra”.

         Giannini tuttavia si contraddice nel riconoscimento del pur “parziale” riconoscimento di una certa moderazione della Meloni cambiandole segno zodiacale in un altro passaggio dell’editoriale e scrivendo, a proposito del recente Consiglio Europeo a Bruxelles: “I sovranisti sono così. Come gli scorpioni della favola, che chiedono un passaggio alla rana per attraversare il fiume ma a metà del guado la pungono e mentre affogano con lei fanno giusto in tempo a dirle “mi dispiace, è la nostra natura”. “Stavolta, pur essendo scorpione come lei, Giorgia -ha semischerzato Giannini sul fallimento della mediazione della premier italiana con gli omologhi polacco e ungherese a Bruxelles sul tema degli immigrati- s’è improvvisata rana, ma i falsi amici Viktor e Mateus l’hanno punta. E così sono annegati tutti insieme, facendo naufragare il patto europeo sull’immigrazione. E’ la loro natura: se c’è da blindare una frontiera per i demiurghi e i demagoghi dello Stato-Nazione non c’è accordo che tenga, neanche tra di loro”.

         In questa ricostruzione del Consiglio europeo di fine giugno fatta dal direttore della Stampa c’è una colossale inesattezza, o bugia. Il patto europeo sull’immigrazione -consistente nel riconoscimento della “dimensione esterna” della crisi dei migranti, preoccupante quindi più per le partenze dalle coste africane o turche che per gli arrivi sulle coste italiane, cioè sui confini d’Europa- non è per niente naufragato. Esso è rimasto intatto nella “svolta” vantata dalla premier italiana, col solo effetto politico di avere diversificato nel voto la Meloni dagli omologhi polacco e ungherese.

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Lo strappo nel vecchio fronte sovranista consumatosi al Consiglio europeo

         Com’è facile sbagliare la lettura degli eventi internazionali fatta con le lenti necessariamente deformanti della politica interna, e delle sue logiche più tattiche che strategiche. Che rispondono alla necessità o opportunità di segnare una rete, o di vincere una tappa perdendo di vista il risultato finale della partita, o del giro.

         Tutti a sinistra, ma anche a destra o al centro fra i concorrenti della premier, hanno puntato l’indice contro Giorgia Meloni per “il flop” -come l’ha definito il solito Fatto Quotidiano– della mediazione con i sovranisti polacchi e ungheresi da lei compiuta su incarico del presidente belga del Consiglio Europeo, Charles Michel, sul tema dei migranti. Ma è un flop dal punto di vista sovranista, appunto, dove non dovrebbero sentirsi di casa gli avversari interni della Meloni.

Sul piano più generale dell’Unione Europea e delle sue prospettive, in attesa delle elezioni dell’anno prossimo per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, Meloni ha finito per distanziarsi di più dai sovranisti polacchi e ungheresi comprendendone il dissenso ma votando diversamente da loro. E quindi allontanandosi ulteriormente dal fronte sovranista nel quale si è certamente mossa in passato ma che in sostanza non è più il suo.

         Più che “il flop”- ripeto- della Meloni è contato a Bruxelles “lo strappo” -com’e stato definito, per esempio, dal Secolo XIX- avvenuto in quello che era lo schieramento appunto sovranista. L’italiana Meloni e il belga Michel, i cui incontri nei mesi scorsi, a Bruxelles e a Roma, ma anche altrove, sono passati quasi inosservati, hanno tessuto la loro tela e portato a casa qualcosa che è destinato a cambiare l’Unione come in tanti si erano abituati a vederla, e non vorrebbero modificare per perpetuare i vecchi equilibri politici.

Non è un caso che proprio Michel abbia commentato la mediazione fallita della Meloni dicendo che non è con essa fallita ma permane la svolta avvenuta considerando il carattere europeo della crisi dei migranti e destinandovi un investimento di 12 miliardi e mezzo di euro. Una nuova Europa insomma va avanti, anche se molti non se ne accorgono, o non vogliono accorgersene. Un’Europa nella quale la destra italiana non è più quella di una volta, anche se la sinistra o il centro, o centrino concorrente di Matteo Renzi, che sul suo Riformista deride il “pacchetto sovranista” delle aspirazioni della premier italiana, vorrebbero che continuasse ad essere la stessa per poterle sparare addosso e ritagliarsi rendite di posizione.

         La partita da qui alle elezioni europee dell’anno prossimo sarà lunga, e forse destinata a riservare grandi sorprese, anche se qualcuno si attarda nei vecchi giochi. Come fa oggi anche Il Giornale togliendosi la soddisfazione di godere, diciamo così, dei guai di Emmanuel Macron nella sua Francia messa a ferro e a fuoco sostenendo che gli sta bene, dopo tutto quello che lui personalmente o altri del governo a Parigi hanno detto e fatto contro l’Italia alle prese con i migranti.

Ripreso da http://www.policymakermag.it e http://www.startmag.it

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